Ipse Dixit
Tringali, il cronista-detective in cerca della verità
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Apartitico dal 1999 dopo una lunga esperienza maturata nel Partito Comunista e in Rifondazione, di cui è stato segretario di sezione a Comiso. Si dichiara attivista pacifista e nel suo tempo libero, matita e fogli in mano, si dedica interamente alla realizzazione di vignette. Lui è Emilio Tringali, 55 anni, vittoriese di nascita e residente a Pozzallo. Appassionato di cronaca nera e giudiziaria (un cronista -detective) ha scritto un libro, il cui titolo è un ossimoro vero e proprio: “Sbirromafia”. Il sottotitolo è ancora più marcato, diretto, esplicito e non lascia spazio a nessun equivoco: “La mafia delle mafie, la fine di Emmanello e il sistema Montante”.
Chi è lo “sbirro mafioso”?
“È un funzionario pubblico venduto, traditore del giuramento di fedeltà allo Stato, che agisce in favore del “sistema”. E per “sistema” intendo il gruppo di potere dominante occulto del momento, la “casta”, che comprende lobby industriali, mafie, politica, massonerie”.
Nel libro si fa riferimento a fatti e personaggi che orbitano nelle province di Ragusa e Caltanissetta. Si tratta di terre di trincee?
“Sono “luoghi del destino”. Centrali dei prototipi nazionali dei “sistemi”. Non manca nulla qui, “oro nero” ed “oro verde”, presidii militari fondamentali, traffici di ogni genere (narcotici, umani, d’armi)”.
Tra le pagine del tuo manoscritto, definisci Antonello Montante, ex potente leader degli industriali in Sicilia e sotto processo in Appello per corruzione, criminalmente magistrale nello svuotare il fronte antimafia. In che senso?
“Montante ha abilmente costruito il suo personaggio pubblico e lo ha imposto alla politica e alle istituzioni, modulando la strategia, fino ad arrivare a tenere tutti in pugno attraverso il dossieraggio, con relativo ricatto verso tutti. L’antimafia è la sua vittima più eccellente. Vedere don Luigi Ciotti di Libera, difenderlo allo spasimo malgrado le evidenti prove oggettive (registrazioni audio, decine di testimonianze), lascia basiti. Persino lo scrittore Andrea Camilleri si prestò, inventando bugie congeniali al “paladino della legalità” cavalier Calogero Antonello Montante”.
Cosa vuoi dire quando scrivi che Cosa Nostra comincia a penetrare in politica e si fa progressivamente istituzione a se stessa, avendo un rapporto diretto con le masse popolari?
“Il rapporto tra Democrazia Cristiana e “Cosa nostra” è verità processuale e storica. La mafia, agevolata dalla politica, è stata protagonista della ricostruzione post-bellica e portatrice, quindi, di lavoro e di sviluppo. In breve, il popolo capì che era più efficiente dello Stato”.
Definisci la “Stidda” ripresa e rimodernata con vaga ambizione di patriottismo campanilistico. Sarebbe?
“La criminalità comune entrò a contatto con elementi di “Cosa nostra”, arrivati dalle metropoli siciliane per provvedimenti di obbligo di dimora, scontrandosi sugli interessi che questi nuovi “forestieri” cominciavano ad erodere al territorio, prima esclusivo per gli autoctoni (pascoli, commercio, racket …). Per galvanizzarsi, i delinquenti locali si riunirono sotto un antico cartello pseudomafioso, la “Stidda”, originata nei territori dell’agrigentino e nel nisseno tra i pastori. Simbolo di adesione e appartenenza, un tatuaggio sulla base del pollice, cinque semplici puntini disposti a stella”.
Quali sono le differenze tra Cosa Nostra e Stidda?
“Abissali. “Cosa nostra” è strutturata da un suo codice articolato e disciplinata da procedure che passano per una catena di comando. Entra in crisi solo a seguito del capolavoro giudiziale che fu il “maxi processo”, ma ne sopravvive per la capacità di rigenerarsi attraverso l’uso delle stesse istituzioni e della grande finanza (sistema Montante, ad esempio). Il periodo “corleonese” non deve trarre in inganno. Per cui, a differenza della “Stidda”, “Cosa nostra” rappresenta un’entità onnipresente nella storia moderna italiana ed internazionale. La “Stidda” è un tentativo di rivendicazione territoriale da parte di giovani criminali ambiziosi che, brutalmente, vogliono avere un ruolo autonomo riconosciuto da Cosa nostra”.
Quando scrivi di imprenditorie pulite, a cosa ti riferisci in particolare?
“Quelle funzionali al “sistema” che vengono acquisite o affiliate. Lavatrici, stipendifici, coperture. Montante è un artista nel dipingere aziende complici come “vittime della mafia”, che per questo ottengono benefit vari e le “patenti della legalità” emesse dalle prefetture (white list). Il metodo mafioso più comune per insinuarsi nelle aziende, pulite ma in difficoltà (spesso causate ad arte), consiste nel soccorrerle economicamente, al momento, ed indurle a cedere le quote o rami d’azienda a nuove società costituite al bisogno, mandarle al fallimento dopo aver trasferito beni, personale e clientela. Per questo, un esercito di commercialisti e ragionieri ha sostituito parte di quello dei “picciotti” con la 7 e 65”.
Sostieni che la Stidda è un utile capro espiatorio, mediatico poligono repressivo della potenza statale. La definisci una formula vincente di propaganda della distrazione, argomento di campagne elettorali antimafia retoriche…
“Lo afferma anche Attilio Bolzoni in una sua audizione presso la Commissione parlamentare antimafia nazionale. Appositamente, la stampa blasonata del “sistema”, giornalisti e scrittori, esaltano le gesta della “Stidda” per coprire la delicata fase di metamorfosi di “Cosa nostra” che diventa, con Montante, partner di Confindustria. Così, piccoli criminali legati alla “Stidda” vengono elevati a “boss mafiosi”. Il tutto per dare, alla pubblica opinione, la sensazione di continuità della lotta alla mafia e la necessità di mantenere tutto l’apparato elefantiaco della gestione dei beni sequestrati. Beni che, come sappiamo, finiscono spesso in mano alle solite associazioni oppure, velatamente, a “Cosa nostra”. La realtà è che Brusca esce libero, ricco e i giudici Falcone e Borsellino giacciono da decenni sottoterra. Chi ha vinto? La Sbirromafia”.
Daniele Emmanuello, rimasto ucciso il 3 dicembre del 2007 durante un conflitto a fuoco con la Polizia che lo aveva scovato nell’Ennese, dopo anni di latitanza, lo descrivi come indisciplinabile ed irredimibile e disfarsi di lui è di vitale importanza…Disfarsi sembra eccessivo, non credi?
“Ho cercato di immaginare l’uomo, ma per i fatti miei, senza che ciò influenzasse la parte di “Sbirromafia” che lo riguarda. Mi è venuta in mente, invece, un’altra persona, Claudio Motta, una delle vittime della strage di San Basilio del 2 gennaio 1999 avvenuta a Vittoria. Claudio lo “beccai” anni fa mentre rubava un utensile esposto al pubblico durante la Fiera Emaia, dove io ero responsabile di questa esposizione. Lo raggiunsi, mi ripresi l’oggetto e lo rimproverai amorevolmente. Gli offrii del denaro per fargli capire che chiedere è più produttivo di rubare. Rifiutò il denaro. Mi spiegò che per lui era importante rientrare con la refurtiva e dimostrare così di essere stato lui a rubare. Altrimenti, a mani vuote, avrebbe preso le legnate. Viveva, cioè, una condizione di schiavitù. Ed era adolescente, a quei tempi. Non dimentichiamoci mai che è anche il contesto a creare il delinquente. Daniele Emmanuello era il nipote di Angelo “furmiculuni”. Accusato di tante malefatte (anche del sequestro del piccolo Di Matteo, poi assolto), di certo è colpevole di sola associazione mafiosa, unica condanna definitiva. Sicuramente ha carisma. Per certe mentalità mafiose, gli fa onore l’aver vendicato lo zio. Emmanuello ha rapporti con ‘Piddu” Madonia. È, cioè, un’interfaccia tra “Stidda” e “Cosa nostra”. Tiene duro perché rappresenta un mito. Eliminarlo ha un valore simbolico. Alla sua morte, da un lato Crocetta festeggia la “liberazione” di Gela, dall’altro “Cosa nostra” si libera di una gran rogna … e, da entrambi, la “Sbirromafia” accontenta due clienti”.
Insisto. Perché ritieni che la vicenda della morte di Emmanuello, sia stata blindata per zittire ogni perplessità sul nascere, glissando su valutazioni tecniche e peritali d’indagine?
“Le circostanze della morte di Daniele Emmanuello restano oscure. La dinamica inverosimile. Angelo Ruoppolo, il cronista di Teleacras, lo intuisce subito. Il fatto è stato ricostruito per l’opinione pubblica. Piero Grasso e Francesco Forgione assicurano “piena luce”. Resteranno, invece, zitti zitti. La moglie della vittima non nomina un perito di parte per l’autopsia, che viene svolta dal solito accreditato. Il procuratore di Caltanissetta, Renato Di Natale apre un fascicolo contro ignoti di cui nessuno segue l’epilogo. Ammesso che ci sia. Chi sparò? Chi condusse realmente il blitz? Chi vide nella “folta nebbia” il latitante fuggire (tutti e 30 o uno solo)? Come fece a centrarlo in testa, a distanza, al buio e con la nebbia? Emmanuello percorre di corsa 37,5 metri (dalla finestra al burrone) e nel frattempo ingoia 6 pizzini come se fossero piccoli semini di sesamo (o respiri o inghiotti)? Non serve essere il “Tenente Colombo” per capire che le cose non quadrano, di brutto! Tutti tacciono … soprattutto Emmanuello!”
Sostieni che a molti non interessa il come sia morto Emmanuello, importa solo che sia morto, eliminando un “mostro”. Cosa ti spinge a sostenere questa tesi?
“Da vergognarsi. Esponenti della società civile che commentano “meglio lui che un agente!”. Emmanuello sarà stato un mostro? Non lo so. Certo meno di Giovanni Brusca, pluriassassino attualmente libero e ricco cittadino. Ora, la campagna elettorale di Crocetta parte dalla decisione di Montante. È un pezzo della sua strategia. Per cui, la sconfitta del clan di Emmanuello proclama il sindaco di Gela a “eroe del no pizzo”. La vecchia Democrazia Cristiana, ora Udc, lo appoggia. Il “San Giorgio” che sconfigge il drago, il “mostro mafioso” incarnato da Daniele Emmanuello. In più, la cacciata della moglie da un posto di lavoro precario al comune, ad infierire. E tutti inebriati della vittoria, pompata da media e pezzi da 90. Luci blu intermittenti e sirene, coreografie e spettacolo. La passerella antimafia”.
Avere trovato nell’esofago e nello stomaco di Emmanuello dei pizzini, non è però una “leggenda metropolitana”, non credi?
“I “pizzini” sono il fondamento delle operazioni successive. Ho forti dubbi. Mi piacerebbe che tutte queste prove fossero fruibili ed esaminabili, come il fascicolo sull’omicidio. Però la legge lo vieta, a meno che non si è parte nei procedimenti giudiziari specifici. Ma questo è paradossale! Il giudice emette le sentenze in nome del popolo italiano però il popolo italiano non può vedere cosa ha determinato le sentenze a suo nome. Sapremo mai la verità?”
Daniele Emmanuello è stato indicato dalla magistratura e dalle cronache giudiziarie come un boss. Anche numerosi pentiti hanno parlato di lui. Non stiamo parlando del classico ruba galline…
“Senza dubbio, Daniele Emmanuello ha un ruolo di spessore nella storia criminale della Sicilia. È certo, come già accennato, il suo rapporto con “Piddu” Madonia. Però i fatti raccontati da “pentiti”, cronisti, giornalisti e scrittori d’inchiesta spesso risultano alterati da superficialità o condizionamenti. Io non condanno, io non assolvo. Mi limito ad analizzare i fatti basandomi su sentenze, rapporti e cronaca. Dal confronto di essi cerco di ricavare una logica, liberamente, con onestà intellettuale e senza padroni o linee editoriali imposte. Non è un caso che mi manca l’editore e ho auto-pubblicato “Sbirromafia” sulla piattaforma “Amazon”. Il giornalismo non è solo un mestiere, è una missione sociale indispensabile per tutti”.
Come ritieni la condanna in primo grado a Montante (14 anni per associazione finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico)?
“Onestamente, non ho letto le 1.350 pagine della sentenza del giudice Luparello. Io, a priori, darei già l’ergastolo per alto tradimento a chi ha passato le informazioni a Montante attraverso l’accesso ai sistemi informatici dei servizi segreti. Si badi bene, si tratta dei vertici. Spaventoso! Degli 007 al servizio di “Re Montante”. Se solo penso che ci tenevano sotto controllo telefoni ed email … Vorrei che la gente comprendesse che hanno utilizzato e falsificato dati e documenti anche per rovinare gli avversari di Montante, gente perbene e innocenti. È lo scandalo più eclatante degli ultimi decenni ed anche il più taciuto”.
La politica si nutre della mafia o è l’esatto contrario?
“Non sono entità omogenee, specie la politica, e spesso coincidono. Gli stereotipi sono artefatti giornalistici di comodo. Entrambe hanno a che fare con un potere monolitico più forte, dentro le istituzioni, quello che io chiamo “la Sbirromafia”. Questa agisce su tutti i territori, su tutti i fronti, in tutti gli ambiti. Ad esempio c’è il “caso Boda”, la dirigente del ministero dell’istruzione, che lo scorso aprile si gettò dalla finestra del suo avvocato: contiene prove di aderenze al “sistema”. Nell’ambiente, sapevamo già l’anno precedente dei collegamenti ed era nelle cose la sua imputazione per reati con cifre esorbitanti. Un’inchiesta che sto riprendendo, interrotta dalla scomparsa di un mio carissimo ed esperto collaboratore”.
Come si combatte la mafia?
“Con gente capace. Lo può fare chiunque lo senta come un dovere civico. Il mio motto è “la polizia siamo tutti”. Si fa leggendo negli albi pretori dei comuni e confrontando i costi delle forniture con quelli sostenuti da altri comuni virtuosi. Identificando chi compra più di una casa all’asta. Con la richiesta di ispezioni ministeriali. Insieme, crescendo, entrando in politica per batterci i pugni dentro. La politica è la chiave. Con il controllo delle infrastrutture; con il ripristino della legge elettorale costituzionale e del finanziamento pubblico ai partiti, soprattutto. Con l’agire di ciascun cittadino da pubblico ufficiale. La lotta alle mafie è un dono ai futuri cittadini, ai bimbi di oggi. Possiamo davvero costruire una nuova società basata sulla dignità umana, sul piacere della conoscenza e della cultura, sulla bellezza in tutte le sue forme, artistiche e naturali. Vinceremo, prima o poi. Non si scappa”.
Tringali ha dedicato la sua opera letteraria al ragusano Giovanni Spampinato, giovane corrispondente da Ragusa per l’Ora di Palermo e l’Unità. Aveva 25 anni, quando fu assassinato con 6 colpi di pistola sparati da due pistole. Pagò con la vita perché aveva semplicemente cercato la verità.
“Fin dalla scuola primaria, andrebbe insegnata la logica e la ricerca della verità; così come l’ipocrisia, per dare la possibilità di conoscerla e decidere se viverci o combatterla”.
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Ipse Dixit
“Valorizzare ogni progresso dei detenuti, per una vita migliore”
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4 settimane fail
1 Dicembre 2024Il suo ufficio raramente ha la porta chiusa. In casi estremi, solo socchiusa. Perché la stanza del direttore è la stanza di tutti, nel rispetto reciproco dei ruoli. E delle direttive. Aprirsi al confronto con il proprio gruppo di lavoro è quotidiano, sviscerane i problemi e cercarne le soluzioni, è l’obiettivo comune. Lei ascolta, chiede, incoraggia, dice “noi”, dà meriti. Gabriella Di Franco, dirigente penitenziario, è il direttore della casa circondariale di Enna, intitolata a Luigi Bodenza, l’assistente capo del corpo della Polizia Penitenziaria, assassinato nel 1994 dalla mafia. L’ingresso nella carriera dell’Amministrazione Penitenziaria per la dottoressa Di Franco, nata e cresciuta a Catania, è datato 8 Settembre 1997 come collaboratore di istituto penitenziario. Poi è stato un susseguirsi di incarichi importanti, perfettamente portati a compimento. Come nel suo costume.
Come è cambiata (se è cambiata) la sua umanità in tutti questi anni alla direzione di diversi istituti penitenziari?
“Devo ammettere che il mio percorso come direttore di varie strutture penitenziarie ha avuto un impatto significativo sulla mia “umanità”. Da 28 anni ormai, ogni giorno mi sono confrontata con storie di vita, di sofferenza, ma anche di resilienza. Ho imparato a guardare oltre le etichette e a vedere le persone con le loro fragilità e le loro potenzialità. Noi penitenziari “dimentichiamo”, in un certo senso, il reato. Questo lavoro richiede una dose di empatia e comprensione che si affina col tempo. Le sfide quotidiane mi hanno insegnato l’importanza della pazienza e della comunicazione; ho imparato a valorizzare ogni piccolo progresso e a celebrare ogni passo verso il reinserimento. Devo dire che ogni interazione, ogni storia condivisa ha arricchito la mia vita, rendendomi più consapevole e aperta. Quindi, sì, la mia umanità è cambiata: è diventata più profonda e più complessa, e credo che questo mi renda una persona migliore”.
Come interpreta il ruolo di direttore del carcere?
“Come una responsabilità straordinaria e un’opportunità unica. In primo luogo, sono consapevole che il mio compito va oltre la semplice gestione della sicurezza e della disciplina. È fondamentale creare un ambiente che favorisca la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti”.
Qual è la missione che porta avanti?
“Cerco di essere un “mediatore” tra diverse esigenze: quelle della sicurezza, del personale, dei detenuti e della comunità esterna. Questo richiede un equilibrio delicato, ma credo fermamente che il rispetto e la comprensione reciproca possano portare a risultati positivi. La mia missione è contribuire a creare un ambiente in cui le persone possano riflettere sulle proprie azioni, apprendere e, infine, reintegrarsi nella società con una nuova prospettiva”.
Quali sono gli aspetti centrali di cui un direttore del carcere deve occuparsi in particolar modo?
“Oltre che essere mediatore vedo il mio ruolo come quello di un “facilitatore”: promuovo l’accesso a progetti rieducativi, ad attività lavorative anche in collegamento con la realtà imprenditoriale esterna, progetti di supporto alla genitorialità ed alle affettività perché sono convinta che ogni persona abbia il potenziale per cambiare. Il direttore deve essere il leader che guida con empatia e determinazione, un leader orientato verso un futuro in cui la giustizia e il reinserimento in società possano andare di pari passo, in attuazione dell’art.27 della Costituzione”.
Dal suo primo incarico datato 2001 al carcere di Piazza Armerina ad oggi, cosa è cambiato?
“Il ruolo del direttore del carcere ha subito notevoli evoluzioni dagli anni 2000 ad oggi, riflettendo cambiamenti sociali, politici e culturali. Stiamo assistendo ad una sempre crescente consapevolezza dell’importanza del reinserimento e l’Amministrazione Penitenziaria tutta, pur garantendo sicurezza sociale, ha un ruolo sempre più attivo nel promuovere progetti educativi e di reinserimento, cercando di ridurre il tasso di recidiva. Il ruolo del direttore del carcere si è evoluto verso una figura più complessa e multifunzionale, che deve bilanciare la sicurezza con il reinserimento, la gestione delle risorse umane con il benessere dei detenuti e l’innovazione con le pratiche tradizionali”.
La dottoressa Di Franco, negli anni, ha diretto anche le carceri di Nicosia, Castelvetrano e Gela. Nella nostra città ha operato dal 13 ottobre del 2014 al 22 febbraio 2019.
“Il mio incarico a Gela doveva essere temporaneo (in qualità di reggente in attesa di altro direttore ed avendo io altro incarico) ma sono rimasta alla direzione di Gela per ben 5 anni!”
Cosa ricorda di quell’esperienza?
“Ricordare anni di lavoro intensi con un gruppo di lavoro straordinario è come sfogliare un album di ricordi preziosi. Ricorderò sempre le riunioni con il Comandante Francesco Salemi, gli ispettori di Polizia Penitenziaria e i capi area Contabile ed Educativa, riunioni intense in cui le idee si mescolavano, si creavano soluzioni, si trovavano rimedi e si rideva anche delle difficoltà. La sinergia ha reso ogni obiettivo più leggero. Le sfide non sono mancate, ma affrontarle insieme ha creato legami indissolubili che coltivo tuttora. Non posso dimenticare il pranzo organizzato a sostegno dell’Airc, promosso dall’Associazione Antifemo ed Entimo, i laboratori teatrali della Croce Rossa di Gela, i tanti progetti portati avanti con la scuola che hanno ha reso il lavoro più significativo. Abbiamo ripreso tante vite di persone detenute e ridato loro dignità e speranza. Non dimenticherò mai la gioia e il senso di “profonda misericordia” provato quando abbiamo portato dal Papa in visita a Piazza Armerina alcuni detenuti grazie ai preziosi volontari della Caritas diocesana. Quegli anni trascorsi a Gela hanno lasciato un’impronta indelebile. Ogni ricordo, ogni insegnamento e ogni obiettivo raggiunto hanno contribuito a rendere il mio cammino professionale e personale ancora più ricco e significativo”.
Della sua permanenza a Gela, cosa avrebbe voluto portare a compimento ed invece non è riuscita?
“Il carcere si trova in Contrada Balate e viene così indicato anche giornalisticamente. Assieme al Sindaco dell’epoca avevamo avviato un lavoro per intitolare la strada. Dal carcere avevamo proposto “via Alberto Sordi”, il celebre attore e regista italiano noto per il suo stile comico e le sue interpretazioni che spesso riflettevano le sfide sociali e culturali dell’Italia: il suo lavoro nel cinema ha influenzato la percezione del pubblico su vari aspetti della vita italiana, inclusa la giustizia e il sistema carcerario. Purtroppo la nuova denominazione della strada non fu possibile perché la strada di accesso al carcere presentava, all’epoca (e non credo si sia superato l’ostacolo), delle difficoltà burocratiche anche per la toponomastica in quanto strada interpoderale consortile non comunale. Altra cosa avviata, ma solo in una fase ideativa, e non realizzata fu quella di adottare il fontanone situato all’ingresso della via di accesso al carcere. La immaginavamo in funzione, piena di fiori e costantemente manutenzionata dai detenuti in lavoro di pubblica utilità. Un Welcome penitenziario alla città di Gela”.
Cosa invece le è riuscito?
“Ho contribuito a creare e strutturare un gruppo di lavoro apprezzato, entusiasta e motivato, incoraggiando collaborazione e lavoro di squadra. Abbiamo realizzato tantissimi progetti musicali, teatrali con la scuola e i volontari a beneficio dei detenuti. Creato un gruppo di manutentori della struttura con i quali abbiamo realizzato – ottenuti appositi finanziamenti da Cassa delle Ammende – l’area verde per i colloqui con i familiari, una nuova apertura della sala teatro, altri miglioramenti interni per gli uffici del personale e per gli spazi di vita dei detenuti, come le aule scolastiche”.
Ci racconti un particolare aneddoto della sua esperienza gelese
“In congedo ordinario, io e la meravigliosa capo area educativa Viviana Savarino, oggi attuale direttore dell’Istituto Minorile di Caltanissetta, assieme a due straordinari volontari Francesco Città e Graziella Condello, ci siamo recati da Ikea a Catania per acquistare il primo contenuto della “credenza” della Casa Circondariale: piatti, bicchieri, posate ed altro ancora. Acquisto reso possibile grazie al contributo economico della Procura di Gela, all’epoca guidata dal Procuratore Fernando Asaro, uomo che stimo profondamente e di cui ho potuto apprezzare elevatissime doti umane e professionali. Abbiamo dopo qualche giorno realizzato con i detenuti e l’Associazione Antifemo ed Entimo il pranzo di beneficenza i cui ricavati sono stati devoluti all’Airc. All’ iniziativa parteciparono Procura, Tribunale di Sorveglianza, Prefetto e le più alte cariche delle forze dell’Ordine realizzando una inedita rete di solidarietà e di vicinanza al mondo penitenziario”.
C’è stato un episodio che invece l’ha turbata?
“Non mi viene in mente un episodio in particolare. Ho il ricordo di situazioni difficili e di alta tensione affrontate insieme al gruppo di lavoro ed ai miei superiori con responsabilità mantenendo, soprattutto, la calma”.
Perché il carcere viene definito luogo di penitenza?
“Tra le tante definizioni il carcere viene definito anche “luogo di penitenza” perché rappresenta uno spazio in cui gli individui hanno l’opportunità di riflettere sulle proprie azioni e sulle conseguenze che queste hanno avuto, sia per loro stessi che per la società. In questo contesto, la “penitenza” non si limita a una punizione, ma si trasforma in un momento di crescita personale e di riabilitazione. È un luogo dove si può lavorare su sé stessi, confrontarsi con le proprie scelte e, auspicabilmente, trovare la strada verso un futuro migliore. Quindi, in un certo senso, il carcere è anche un’opportunità per rinascere e ricominciare, un aspetto che spesso viene trascurato. È un concetto che invita a riflettere sul valore della “seconda chance” e sull’importanza della responsabilità personale”.
Quanto conta nella vita dei detenuti, purtroppo, la violenza prima della carcerazione?
“Molti detenuti hanno avuto esperienze pregresse di violenza fisica, emotiva o sessuale. Le persone che hanno vissuto violenza possono essere più inclini a comportamenti antisociali o criminali, non solo come risposta alle esperienze traumatiche, ma anche come modo per affrontare o riprodurre dinamiche familiari o sociali in cui sono cresciute”.
I numeri in continuo aggiornamento, certificano in Italia l’aumento di tanta violenza, dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria. Dati sicuramente allarmanti. Come li legge e come bisogna prevenirli?
“L’aumento dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria rappresenta una questione complessa e preoccupante. Questi dati non solo evidenziano la fragilità del sistema penitenziario, ma pongono anche interrogativi sulla salute mentale dei detenuti e sul benessere del personale. Le condizioni di vita in carcere, spesso caratterizzate da isolamento, stress e mancanza di attività significative, possono esacerbare questi problemi. L’amministrazione penitenziaria e il Sistema Sanitario Nazionale collaborano ad ogni livello per garantire l’accesso a supporti adeguati. L’amministrazione penitenziaria sta investendo moltissimo nel fornire formazione al personale penitenziario su come riconoscere i segnali di disagio mentale nei detenuti e su come gestire situazioni di crisi. La situazione attuale richiede un approccio globale e multidisciplinare che consideri non solo il benessere dei detenuti, ma anche quello del personale di polizia penitenziaria”.
Ci auguriamo che ci sia un modo per far percepire il valore dell’agire responsabile, per avvicinare i detenuti alla società, per portarli a scegliere il bello della regola, a non contrapporsi allo Stato. Per rendere meno pesante la permanenza in carcere, quali sono le iniziative che mettete in campo?
“Certo, c’è un modo! Innanzitutto, è fondamentale creare un ambiente in cui i detenuti possano comprendere il valore dell’agire responsabile. Questo può essere fatto attraverso programmi di educazione e formazione che non solo insegnano abilità pratiche, ma anche valori come il rispetto e la collaborazione. Un altro aspetto importante è il coinvolgimento della comunità esterna. Organizzare attività che permettano ai detenuti di interagire con le persone al di fuori del carcere, come laboratori, eventi artistici o sportivi, può aiutarli a vedere che ci sono opportunità positive nella società e che possono farne parte. Inoltre, è utile fornire modelli di comportamento. Coinvolgere ad esempio i volontari e la scuola può essere molto motivante. Le persone detenute possono condividere le loro esperienze e comprendere che, anche dopo aver commesso errori, è possibile ricostruirsi una vita seguendo le regole. E’ poi importante richiedere ai detenuti il senso di responsabilità. Quando si sentono parte di un processo, in cui le loro scelte hanno un impatto, sono più propensi a scegliere il “bello della regola”.
Se al detenuto non si offrono le stesse cose che può trovare fuori, non si alimenta la cultura dell’essere perdente, dell’essere sconfitto?
“È una domanda delicata. L’idea di non potere offrire ai detenuti opportunità simili a quelle che possono trovare fuori non significa certo alimentare una cultura di sconfitta. Al contrario, può essere un modo per prepararli a un reinserimento positivo nella società facendo loro comprendere che si sta operando facendo tutti gli sforzi possibili. Quando si offrono programmi educativi, corsi di formazione professionale e attività ricreative, non si sta semplicemente dando loro “le stesse cose”. Si sta creando un ambiente che incoraggia la crescita personale e lo sviluppo delle competenze. Queste esperienze aiutano i detenuti a sentirsi valorizzati e a riconoscere il loro potenziale, piuttosto che a sentirsi sconfitti”.
Quanti dei detenuti che ha personalmente conosciuto, hanno realmente intrapreso una nuova vita dopo il carcere?
“Non è una grande percentuale ma ho le prove che tanti sono riusciti. In ogni caso il nostro compito, quello di instillare speranza e dare fiducia, in tantissimi casi è stato raggiunto anche con effetti resisi evidenti un po’ dopo, nel tempo”.
Perché in tanti (troppi) non riescono a redimersi definitivamente?
“La questione della redenzione dei detenuti è complessa e multifattoriale. Dopo la dimissione dal carcere, molti ex detenuti affrontano pregiudizi e discriminazione nella società, avendo difficoltà a trovare lavoro, alloggio e reintegrarsi nella comunità. Questo stigma può portare a una sensazione di isolamento e impotenza. Spesso a causa di mancanza di risorse familiari i detenuti possono avere difficoltà a costruire una nuova vita e molti detenuti hanno alle spalle esperienze traumatiche e problemi di salute mentale non trattati. Alcuni ex detenuti tornano in ambienti familiari o sociali tossici, dove la criminalità e le cattive influenze sono prevalenti”.
Come avviene nelle carceri l’uso di internet?
“Sebbene sia riconosciuto come l’accesso a Internet possa offrire opportunità significative per l’istruzione, la formazione e il reinserimento sociale dei detenuti vi è da dire, tuttavia, che vi sono preoccupazioni legate alla sicurezza, alla gestione e all’abuso potenziale di questa tecnologia. Al momento l’uso di piattaforme informatiche come ad esempio WhatsApp e Teams è utilizzato, sotto il controllo della polizia penitenziaria, per facilitare la comunicazione tra i detenuti, le loro famiglie, i loro legali, riducendo l’isolamento e fornendo un supporto emotivo importante. Attraverso le video call, dunque, le persone detenute possono colloquiare in sicurezza con i familiari, sotto il controllo solo visivo e non auditivo del personale”.
La criminalità si è ingegnata: adesso usa i droni per consegnare in volo droga e telefoni cellulari all’interno delle carceri. Ultimamente stava per accadere anche nel penitenziario che lei dirige. Come siete riusciti a stroncare sul nascere lo stratagemma criminale?
“E’ certamente una sfida complessa, poiché i criminali spesso adottano metodi sempre più ingegnosi per eludere la sicurezza. La Casa Circondariale di Enna è dotata di un buon sistema di sicurezza perimetrale con telecamere di sorveglianza ad alta risoluzione e sensori di movimento che aiutano a monitorare attività sospette e prevenire l’ingresso di droni. Il personale di Polizia Penitenziaria agisce effettuando varie attività di controllo e lavora a stretto contatto con le altre forze dell’ordine migliorando la condivisione di informazioni e la capacità di risposta. Solo attraverso sforzi combinati è possibile mitigare efficacemente questa minaccia emergente”.
Quanto le piace il lavoro che svolge?
“Ah, quanto mi piace il mio lavoro? Beh, diciamo che è un po’ come una relazione a lungo termine: ci sono giorni in cui lo adoro follemente e altri in cui mi fa venir voglia di prendere una lunga vacanza… ! In ogni caso, amo le sfide che mi presenta e la possibilità di fare la differenza, anche se a volte mi sento un po’ come un acrobata che cerca di tenere in equilibrio tutto su un filo sottile. Quindi sì, direi che mi piace davvero tanto, anche quando le cose si fanno impegnative. Diciamo che soffro di “carcerite acuta!”.
Ha mai avuto paura per l’incarico che ricopre?
“Paura? Ci sono momenti in cui la responsabilità o le tensioni sembrano un po’ pesanti e non risolvibili. Tuttavia, è proprio in quei momenti che mi rendo conto di potere contare sul mio gruppo di lavoro e le difficoltà della vita lavorativa diventano un po’ più gestibili. Quindi, più che paura, direi che provo un sano rispetto per la complessità del mio incarico, sempre pronto a gestirla con professionalità e molta calma. Ripeto spesso la parola “Coraggio!”: è un’esortazione che rivolgo a me stessa e a ciascuno di noi”.
Ipse Dixit
L’amore per gli animali, nel lavoro di Angela Palumbo Piccionello
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1 Novembre 2024Solare, disponibile al dialogo, sempre sorridente. Attenta e premurosa, non lascia nulla al caso. La dottoressa Angela Palumbo Piccionello, ama fortemente la sua professione a cui dedica anima e corpo. Negli anni ha conseguito straordinari risultati nel campo della medicina veterinaria. Attualmente ricopre il ruolo di direttore sanitario dell’Ospedale Veterinario Universitario Didattico dell’Università di Camerino e di direttore del Master Universitario di secondo livello in ortopedia e traumatologia ortopedica dei piccoli animali. Coordina inoltre la Commissione Interna per l’Eaeve (l’autorità ufficiale europea per l’accreditamento delle strutture che erogano corsi di studi in Medicina). Ha al suo attivo numerose esperienze in Florida che hanno arricchito il suo bagaglio di conoscenze in ambito sanitario. E’ stata responsabile del Comparto Operatorio dell’ospedale Veterinario didattico della scuola di Bioscienze e Medicina Veterinaria di Matelica. Diverse pubblicazioni su riviste specializzate, parlano dei suoi metodi di intervento. Lei è un’eccellenza tutta gelese.
Quando tra i suoi colleghi parla della nostra città, cosa dice in particolar modo?
“Spiego sempre che ha avuto un passato illustre, dico anche che io ci sono cresciuta bene, circondata comunque da cultura e arte, avendo la possibilità di frequentare ottime scuole e anche ottime attività culturali extrascolastiche (danza classica, pittura, ed altro). Ammetto però, con dolore, che la città non è custodita amorevolmente dalla maggior parte dei suoi abitanti, tantomeno da chi la governa, e che purtroppo non si ha la cultura della cura della cosa comune”.
Nello specifico?
“Gli abitanti e le amministrazioni non sanno o non vogliono valorizzare tutto quello che di bello c’è a Gela. Sarebbe necessario diffondere una cultura del rispetto della cosa pubblica, stimolare e favorire la nascita di attività che investano sulle potenzialità della città: turismo, enogastronomia, natura e arte. Bisognerebbe avere dei progetti ad ampio respiro, che non guardino al profitto immediato ma poco duraturo come ad esempio pensare ancora che la raffineria possa portare benessere a lungo termine. Bisogna puntare al rilancio dell’economia green e culturale”.
Diplomatasi al Liceo Scientifico Elio Vittorini e laureatasi in Medicina Veterinaria alla Facoltà di Parma, la dottoressa Palumbo Piccionello si è prevalentemente occupata di ortopedia veterinaria.
“L’ortopedia veterinaria, al pari di quella umana, si occupa delle malattie articolari, delle affezioni delle ossa, dei muscoli e dei tendini e legamenti. Trattiamo quindi osteoartriti/artrosi, malattie congenite, fratture, traumi dell’osso, come anche patologie tendinee, legamentose e muscolari. Da diversi anni abbiamo a disposizione mezzi diagnostici (come TC, RM e artroscopia) e terapeutici (placche standard e bloccate, protesi, mezzi di sintesi customizzati) molto avanzati e performanti”.
Quali sono le precauzioni che i veterinari devono adottare nello svolgere le loro attività?
“Il medico veterinario po’ svolgere diversi ruoli: la cura degli animali d’affezione come cani e gatti e cavalli, degli animali da reddito, ma anche la cura della salute pubblica attraverso il controllo igienico sanitario degli alimenti di origine animale destinati al consumo umano (latte, derivati, carne, pesce, miele). A seconda del lavoro che svolge, ovviamente, va incontro a dei rischi diversi: aggressioni da parte dei pazienti, rischi di infettarsi con malattie che rappresentano una zoonosi, cioè malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo come ad esempio la brucellosi, la leptospirosi ed altro.
La professione del medico veterinario in Italia è generalmente svolta con passione e dedizione, ma è senza dubbio un lavoro complesso e faticoso, che presenta diversi rischi anche per la salute del professionista”.
L’autunno è arrivato. Quali sono le raccomandazioni generali da dare ai proprietari di animali da compagnia per proteggerli dal cambiamento climatico?
“L’autunno è il preludio di piogge, venti e abbassamento delle temperature, è importante rendersi conto che alcuni animali, soprattutto quelli a pelo corto, non sono in grado di sopportare temperature rigide invernali; pertanto, è importante prevedere che essi possano, almeno la notte, essere riparati in cucce o ricoveri adeguatamente coibentati. In luoghi dove gli inverni sono particolarmente rigidi sarebbe opportuno ricoverare gli animali al chiuso. Si consideri inoltre che la termoregolazione prevede un dispendio di calorie e pertanto gli animali dovranno essere adeguatamente alimentati”.
Si parla tanto di crisi climatica e di instabilità internazionale che incidono sull’approvvigionamento delle materie prime per l’alimentazione animale. Secondo lei potrebbero generare sulla salute degli animali zootecnici e dunque sull’approvvigionamento degli alimenti per l’uomo?
“L’argomento cambiamento climatico è piuttosto complesso, è dimostrato che l’eccessiva intensificazione degli allevamenti abbia causato, nei paesi occidentali, un aumento esponenziale della produzione di Co2 e dell’inquinamento in generale e questo incide negativamente sul cambiamento climatico, anche se non è ovviamente l’unico fattore incidente. Se poi, invece, parliamo degli effetti di questo cambiamento climatico, certamente, purtroppo, alluvioni o siccità prolungate distruggono i raccolti e di conseguenza gli approvvigionamenti di foraggi per gli animali da reddito. A cascata questo incide sulla salute degli animali ed anche sull’uomo stesso che avrà meno materie prime alimentari”.
Fino al 31 marzo del 2025, è in vigore l’ordinanza commissariale per il contrasto alla Peste Suina Africana. Di cosa si tratta nel dettaglio e perché crea tanto timore la Psa?
“La peste suina africana è una malattia indotta da un virus che colpisce i suini e cinghiali selvatici e causa un’elevata mortalità negli animali da essa infettati. Questo virus è innocuo per l’uomo, ma provoca notevoli danni socioeconomici. A causa del decesso degli animali si hanno perdite economiche anche ingenti ed inoltre le restrizioni agli spostamenti dei maiali e dei loro derivati e il costo delle misure di controllo, incidono ulteriormente sulla perdita economica che ne deriva. L’eradicazione della malattia è difficile e può richiedere diversi anni. Non ci sono vaccini né cure. La Psa è endemica in alcuni stati Africani, ed è in quei luoghi che è stata scoperta e per questo ne prende il nome. Fino al 2007, in Europa era confinata solo in Sardegna; tuttavia, nel 2007 si verificarono focolai in Georgia e la malattia si diffuse ai Paesi limitrofi, colpendo maiali e cinghiali selvatici. Nel 2014 vennero segnalati i primi focolai nell’Unione europea, tra i cinghiali selvatici degli Stati baltici e della Polonia. Da allora la malattia si è diffusa ad altri Paesi dell’Unione Europea e ai Paesi terzi confinanti e negli ultimi anni si sono verificati focolai anche in Asia, Oceania e in alcuni Paesi americani. Quest’anno sono stati rilevati focolai nel nord Italia, ecco perché le restrizioni sanitarie si sono inasprite”.
E’ corretto se scriviamo che la medicina veterinaria funge da barriera sanitaria perché ha la prevenzione del rischio nel suo Dna professionale?
“Il medico veterinario è all’apice della scala di prevenzione delle malattie che si possono trasmettere da animale a uomo e viceversa (zoonosi). Egli conosce le vie di trasmissione delle malattie, ha il compito di sorvegliare e monitorare gli allevamenti e gli stabilimenti che producono derivati animali, svolge anche informazione e prevenzione verso gli operatori del settore e segnala e denuncia le frodi e gli illeciti. Pertanto, certamente si può affermare che la salute dell’uomo dipende tantissimo dal medico veterinario”.
Quali sono gli elementi fondamentali al fine di garantire che gli animali da allevamento siano trattati in modo etico e rispettoso del loro benessere?
“La volontà di fare più profitto possibile con gli allevamenti di animali da reddito ha portato ad una intensificazione del numero dei capi detenuti in spazi molto limitati e quindi in condizioni igienico sanitarie precarie. A tutto ciò si aggiunge che lo stress dovuto alla poca possibilità di muoversi, alla presenza di deiezioni e sporco, alla impossibilità spesso di giacere e sdraiarsi in posti adeguati, induce una diminuzione delle difese immunitarie e quindi malattie, ma anche un calo delle produzioni. Questo, a cascata, porta all’utilizzo di farmaci e altri trattamenti sugli animali i cui residui possono essere presenti negli alimenti derivati che l’uomo ingerisce. Negli ultimi anni si porge molta attenzione al benessere degli animali da reddito. Esistono leggi precise che regolamentano, ad esempio, quanto spazio deve avere ogni capo allevato, vietano determinate procedure cruente o che creano sofferenza all’animale. Le condizioni quindi sono migliorate, ma c’è ancora molto da fare. Il progresso in questi termini dipende anche dalla sensibilità della società verso questo tema”.
Avere un amico a quattro zampe richiede una grande responsabilità per la cura, le sue esigenze e i suoi potenziali problemi di salute. Quali sono le malattie più frequenti tra gli animali domestici?
“Un animale domestico è prima di tutto un essere vivente e come tale può andare incontro a malattie e sofferenze. Chi decide di prendere un animale da compagnia deve essere consapevole che dovrà prendersi cura del suo benessere psico-fisico. E’ un impegno non da poco, poiché si deve fare in modo che stia in un ambiente adeguato, che non soffra per il freddo o per il caldo (chiuso in balcone d’estate), che possa muoversi, che abbia possibilità di interazione con simili e con l’uomo, che non abbia possibilità di farsi male ( se lasciato libero per strada), che venga alimentato adeguatamente e tanto altro. Se ci si prende cura con attenzione di questo essere vivente, le possibilità che si ammali si riducono, ma ovviamente come anche l’uomo, potrà ammalarsi di malattie infettive o anche congenite o di altra natura. E’ sempre bene, quando si prende un animale domestico, andare dal veterinario che saprà dare i giusti consigli sanitari e anche gestionali”.
Esistono condizioni patologiche talmente gravi e complesse che a volte la miglior soluzione è rappresentata da un immenso gesto di coraggio del proprietario: ovvero far sopprimere il proprio animale, ricorrendo all’eutanasia. L’animale cosa sente in quel momento e perché è consigliato farla?
“Al giorno d’oggi le procedure diagnostiche e mediche che si possono eseguire sugli animali sono tantissime ed estremamente performanti; esse consentono di poter trattare la maggior parte delle malattie che affliggono i nostri animali. Detto questo, ci sono però circostanze in cui la medicina non può arrivare; neoplasie incurabili, gravi insufficienze di organo, traumi estesi multipli, malattie infettive di cui non si conosce la terapia, portano sofferenza al paziente, dolore e frustrazione per il proprietario e a volte anche per il medico veterinario che sa di non poter far nulla per farlo stare meglio. Solo in questo caso, cioè quando non esiste cura o trattamenti che allievino la sofferenza del paziente, è consentito eseguire una eutanasia compassionevole. Il paziente viene messo in anestesia generale, prima di inoculare il farmaco che induce l’eutanasia; pertanto, esso non sente alcun dolore o sofferenza”.
Soprattutto i cani amano esplorare, annusare e, talvolta, mangiare tutto quello che trovano durante una passeggiata o quando sono liberi all’aperto, così come quando si trovano in casa o in giardino. Purtroppo, però, può capitare che ingeriscano sostanze o prodotti per loro tossici e, per questa ragione, che vadano incontro ad un avvelenamento. Cosa bisogna fare nell’immediato?
“L’ingestione di corpi estranei (spago dell’arrosto, calzini, palline, tappi di sughero, noccioli di frutta) o sostanze velenose (agenti chimici, grandi dosi di cioccolato, uva, piante velenose, ed altro ancora.) è una evenienza molto comune soprattutto nel cane, specialmente se cucciolo. Se ci si accorge che il proprio animale ha ingerito qualcosa di non edibile, si deve correre dal medico veterinario, che saprà farlo vomitare, estrarre il corpo estraneo e/o trattarlo dal punto di visto medico, fino anche ad inoculare l’antidoto qualora esista”.
Quali sono le sostanze velenose per gli animali domestici?
“Le sostanze velenose sono tutte quelle che lo sarebbero anche per l’uomo, ma anche il cioccolato e l’uva”.
Ha animali in casa?
“Io e mio marito siamo entrambi medici veterinari, dopo anni in giro per il mondo, abbiamo costruito una casa in campagna con un po’ di terreno. Abbiamo così diversi gatti, due cani, quattro pecore e quattro galline. Ognuno svolge un ruolo utile per la casa: i gatti tengono lontani i topi, le pecore mangiamo l’erba, le galline fanno le uova e i cani ovviamente fanno la guardia. Noi ci prendiamo cura di loro con dedizione e attenzione e riceviamo in cambio tanto affetto. Siamo riusciti ad ottenere una bella armonia e siamo tutti felici”.
Ci racconta un aneddoto del suo lavoro?
“In 24 anni di professione avrei tantissimi aneddoti da raccontare, me ne viene uno in mente in particolare. Alcuni anni fa mi riferirono del caso di una volpe selvatica, raccolta dal personale autorizzato e condotta presso l’Ospedale Veterinario Universitario dove lavoro, rinvenuta in fin di vita sul ciglio di una strada provinciale probabilmente investita. Prestate le prime cure di emergenza, bloccate le emorragie e stabilizzato il paziente, ci si accorse che un arto presentava diverse lesioni profonde, non aveva più sensibilità (aveva quindi una grave lesione neurologica) né mobilità e presentava diverse fratture. Attendemmo alcuni giorni, somministrando le adeguate terapie e medicazioni nella speranza che riprendesse la sensibilità dell’arto, alle fratture ci avrei pensato io successivamente. Purtroppo, le condizioni dell’arto peggiorarono, tanto che se avessimo aspettato ulteriormente si sarebbe potuto compromettere anche la vita del paziente. Alcuni colleghi, essendo quel paziente un animale selvatico e dovendo quindi per ragioni etiche essere rimesso in libertà, suggerirono di sopprimerlo e dare fine alle sue sofferenze. La volpe però era giovane, mangiava, era vigile, mostrava voglia di vivere e così decisi, insistendo anche con le autorità competenti, di amputare l’arto, argomentando che avevo avuto diversi pazienti (domestici) che per cause traumatiche avevano perso l’arto e che avevano ripreso a correre e alcuni anche a cacciare senza difficoltà. La amputai e la tenni ricoverata alcuni giorni al fine di monitorare il suo andamento clinico. La volpe si riprese benissimo, si rimise in forza. E ottenute le dovute autorizzazioni (gli animali selvatici sono dello Stato e ci sono degli enti preposti che li tutelano e che in caso di problematiche complesse li portano, nelle Marche, nel nostro Ospedale) la liberammo in un bosco non troppo lontano da dove io abito. Il luogo era nelle vicinanze di dove era stata trovata. Sentivo di aver fatto la cosa giusta, ma temevo che avrebbe potuto avere difficoltà a procacciarsi il cibo o a difendersi e scappare da potenziali predatori. Come per magia, alcuni giorni dopo me la ritrovai dietro la recinsione di casa mia, come poteva sapere dove stessi? Eppure, era lei, impossibile non riconoscerla aveva solo tre zampe! Per anni ogni tanto mi veniva a trovare e io sapevo che lo faceva per segno di riconoscenza e per farmi stare tranquilla mostrandomi che stava bene. Non provai mai ad addomesticarla, non sarebbe stato giusto, avevo troppo rispetto di lei, della sua vita e del suo essere libero. Ci guardavamo, ci salutavamo e poi tornavamo alle nostre cose. Gli animali sono estremamente riconoscenti e riconoscono davvero le persone che vogliono aiutarle, tanto da affidarsi pienamente”.
Perché ha scelto la medicina veterinaria?
“Generalmente chi sceglie di studiare medicina veterinaria ha un grande amore per gli animali e il desiderio di curarli e farli star bene. Io, sin da bambina, ho avuto questo desiderio. E’ bene sapere, però, che è un percorso di studi faticoso e anche la professione richiede continui aggiornamenti e investimenti, nonché un impegno fisico e mentale elevato, poiché spesso si è chiamati a gestire anche emergenze durante i momenti liberi che si vorrebbe dedicare al riposo o alla famiglia”.
Il consiglio che vuole dare a chi si affaccia al mondo della medicina veterinaria?
“Svolgere il lavoro di medico veterinario è bellissimo, curare gli animali che sono esseri semplici e sensibili è molto gratificante. Gli studi e il lavoro sono duri. I proprietari degli animali, involontariamente, riversano tantissime frustrazioni ed aspettative sul medico veterinario, che si trova sovraccaricato di responsabilità. E’ necessario quindi tanta dedizione e un carattere adeguato”.
Riprendiamo da dove eravamo partiti, dalla nostra città. Quelle volte che torna a Gela, cosa fa?
“Amo sempre tornare a Gela che sento ancora, dopo più di 30 anni fuori, come casa. Purtroppo riesco a farlo sempre meno. Quando sono a Gela mi occupo primariamente di trascorrere del tempo con i miei cari (familiari e amici di lunga data) e nel tempo libero vado al mare”.
Cosa le piace di Gela?
“Mi piacciono i suoi paesaggi, la spiaggia sconfinata, i meravigliosi tramonti, la forza e l’orgoglio di noi gelesi”.
Cosa le manca di Gela?
“I miei cari, il mare e quella spensieratezza che ha accompagnato la mia giovinezza…”
Ipse Dixit
Dal campo di calcio agli studi Rai, Righetti e il suo amore per Gela
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3 mesi fail
1 Ottobre 2024Sorpreso dalla mia telefonata, mi risponde provando a masticare il dialetto siciliano ma con scarsi risultati. Riesce solo nell’intento di pronunciare il termine “caruso”, dopodiché la sua cadenza laziale prende il sopravvento. Ed è un piacere ascoltarlo.
Nato a Sermoneta (Latina), Ubaldo Righetti lo vediamo sovente in tv: è tra gli opinionisti di 90’ minuto di sabato e prima ancora di Notti europee su Rai 1.
Nel 2010 è stato ospite di Jacopo Volpi a Notti Mondiali, dove ha analizzato le azioni delle partite. Ha commentato inoltre con Gianni Bezzi alcune gare dei mondiali in Sudafrica.
L’estate del 2023 ha affiancato Dario Di Gennaro nella telecronaca di alcune partite dell’Europeo Under 21 per Rai Sport e ha uno spazio tutto suo in studio nel corso delle qualificazioni agli europei Under 21 del 2025 e della fase finale dell’Europa League 2023-2024 su Rai 1. Lo abbiamo ascoltato, assieme a Giacomo Capuano, nelle telecronache delle partite dell’Europeo Under 17. Tre anni fa, ha superato un delicatissimo momento, dopo il doppio infarto che lo ha colpito mentre giocava a padel. Ricoverato in terapia intensiva, con grande forza di volontà e con il prezioso intervento dei medici, ha vinto anche questa battaglia. La più dura.
Nella sua schiettezza, Ubaldo (zio della showgirl Elena Santarelli) dice quello che pensa e pensa quello che dice, senza tentennamenti. E lo fa con estrema eleganza. Nella stagione 2000-2001, ha allenato il Gela Jt in serie C2.
Ci racconti, a distanza di tanti anni, com’è nata la tua collaborazione con il club gelese?
“Fui scelto perché avevo da poco preso il patentino dall’allenatore e quindi stavo aspettando un’opportunità. Mi si è presentato il Gela e non ci ho pensato minimamente, non ho avuto dubbi sulla scelta. E’ stata un’esperienza unica che mi porto dietro, la più bella in assoluto da allenatore. Ho conosciuto gente importante, un popolo, una piazza, un tifo incredibile. La passione si avvertiva ogni giorno e per me – ribadisco – è stata un’esperienza positiva, molto positiva”.
Nonostante il settimo posto raggiunto in classifica, perché non sei rimasto a Gela?
“Perché si erano decisi altri programmi e quindi il nostro rapporto non aveva motivo di andare avanti. Quando parlo di rapporto mi riferisco al lato calcistico. Con tanti ragazzi tutt’ora ci sentiamo…”
Con chi in particolare?
“Beh, con tanti. In particolar modo con Gianluca Procopio…”
Cosa ti ha colpito della nostra città?
“Mi è piaciuta la voglia di emergere da una situazione particolare, la grande disponibilità, la grande accoglienza e il grande supporto. Bella gente. Gela la porterò sempre nel mio cuore”.
Il tuo rapporto con i tifosi gelesi?
“All’inizio c’è stato qualche problema, soprattutto con la società, ma la situazione è durata fortunatamente poco. I tifosi con me sono stati straordinari. Ci siamo divertiti assieme. Ogni giorno avvertivo il loro appoggio. Ci si allenava, si giocava e si cercava di ottenere risultati anche per loro”.
Ubaldo Righetti, nato come centrale difensivo, ha iniziato nelle giovanili del Latina e nel 1980 è stato acquistato dalla Roma con cui ha esordito in serie A nel campionato 1981-1982. Aveva 18 anni. Dopo è stato un crescendo.
Ti faccio tre nomi: Nils Liedholm, Carlo Mazzone, Giovanni Galeone. Chi dei tre mostri sacri ti ha dato di più, valorizzando le tue capacità?
“Mazzone e Galeone sono stati molto importanti ma devo essere riconoscente a Liedholm che mi ha fatto esordire, mi ha dato fiducia, appena giovanissimo. Subentrai a Spinosi, Vincemmo a Cagliari. Con Carlo Mazzone avevo instaurato un ottimo rapporto. In campo si giocava anche per lui. Ho provato una sensazione bellissima, così come i miei compagni. Giovanni Galeone mi ha fatto vivere un’esperienza straordinaria a Pescara, arrivando alla conquista della promozione in Serie A, attraverso la libertà di espressione del calcio, del puro divertimento. Con tutti e tre sono cresciuto in ogni ambito e mi sono formato anche fuori dal campo”.
Lo scudetto del 1983 rimane tuttora impresso nella tua mente?
“Assolutamente sì, non è che ne abbiamo vinti tantissimi a Roma…Ogni tanto, con i vecchi compagni, a cena, ricordiamo i nostri trascorsi in giallorosso, quello che abbiamo conquistato. E a distanza di anni da quel trionfo, senti ancora la riconoscenza dei tifosi. Il popolo romanista è semplicemente straordinario!”
Se pensi alla finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool, persa ai calci di rigore, ti monta ancora la rabbia?
“Rabbia no ma tanta amarezza. Era una grande opportunità che purtroppo non siamo riusciti a sfruttare. La posta in palio era altissima, una finale all’Olimpico, in casa nostra ci ha pesato. Non eravamo tanto esperti sotto questo aspetto. Abbiamo affrontato la squadra più forte a livello mondiale, portandola alla lotteria dei rigori. Sappiamo tutti com’è andata, purtroppo. Una grande occasione persa…”
Con la Roma hai vinto per due volte la Coppa Italia. Possiamo dire che giocavi in una squadra che non temeva nessuno?
“Giocavo in una squadra straordinaria che offriva un calcio all’avanguardia, un calcio totale, di grande partecipazione, di grande coinvolgimento. Eravamo apprezzati non solo in Italia, ma anche in Europa”.
Hai realizzato un solo gol in campionato. Come mai? Le aspettative erano altre…
“Ma io non ero un bomber, ero un difensore, quindi dovevo prima pensare a difendere e poi se si presentava la possibilità, cercavo di attaccare. Oltre all’unica marcatura contro l’Ascoli, ci sono andato vicino a segnare altre volte. Sono comunque soddisfatto perché in parecchie occasioni, sono stato un vero uomo assist”.
Dalla serie A ai cadetti: cosa ti hanno lasciato le esperienze vissute con l’Udinese e con il Pescara?
“Importanti e formative per una crescita personale. Ho conosciuto realtà diverse a cui sono tuttora legato. Diciamo che da una situazione agiata che vivevo a Roma, in quanto Capitale, avere cambiato aria mi ha fortificato. Ho giocato anche a Lecce, in serie A, e nel Salento ho coltivato tantissime amicizie”.
Che sensazione si prova quando si è convocati in Nazionale?
“È straordinaria, unica. Hai una grossa responsabilità. Sentire l’inno è qualcosa di irripetibile. Quando sono stato convocato, c’erano i più forti giocatori: Bruno Conti, Marco Tardelli, Antonio Cabrini, Gaetano Scirea, Dino Zoff, Paolo Rossi…Giocatori di assoluto livello. Allenarmi con loro e condividere la maglia azzurra, ti provoca forti vibrazioni”.
Ancora arrabbiato per l’eliminazione dell’Italia dagli ultimi Europei?
“Molto deluso. Era una vetrina importante che coinvolge tutti. Abbiamo offerto una brutta immagine. L’Italia non ha giocato assolutamente. Ha regnato la confusione più totale. La squadra non era libera mentalmente, anzi molto contratta”.
Ci rifaremo in National League?
“Finalmente si è ritornato a giocare. Spalletti ha ammesso di avere sbagliato agli Europei in alcune situazioni, soprattutto nelle scelte tattiche, e adesso ha aggiustato il tiro. In queste prime due gare, abbiamo visto la migliore espressione dell’Italia che gioca un calcio di alto livello. Ribadisco: finalmente si è ritornato a giocare”.
Rimaniamo in tema di allenatori. Ubaldo Righetti ha intrapreso la carriera di tecnico, guidando la formazione abruzzese della Renato Curi Angolana in Serie D nel 1999-2000 e, dopo l’esperienza di Gela, la Lodigiani in C1 dove è stato esonerato a campionato in corso. Ha chiuso la sua esperienza a Vittoria, dopo avere diretto il Fano e il Tivoli, entrambe in C2.
In serie A non è presente alcuna squadra siciliana. Come leggi questo dato?
“Dispiace, c’è un enorme potenziale. Evidentemente si va a periodi e questo è uno di quelli che servirà per riorganizzarsi. L’importante è mettere in sesto determinate situazioni, ricreare un giusto potenziale ed investire”.
Chi vincerà il campionato di serie A?
“Credo ancora l’Inter. E’ la squadra più forte”
E la “tua” Roma, dove si piazzerà?
“Spero in posizioni alte e mi auguro meglio del sesto posto che negli ultimi anni sembra essere fisso lì. Bisogna migliorare questa classifica”.
Chi è stato il giocatore più forte degli ultimi anni?
“Ci sono tanti giocatori bravi. Tra i forti dico Lautaro Martinez e Osimhen”
E l’allenatore?
“Simone Inzaghi. Ha dimostrato di essere veramente bravo”.
Hai provato anche l’esperienza in politica, candidandoti alle comunali di Roma tra le file del Partito Democratico a sostegno di Roberto Gualtieri e ottenendo 1376 preferenze tuttavia senza essere eletto. Meglio il calcio?
“Ho voluto provare perché c’era una possibilità di occuparmi di sport, che è la cosa che conosco meglio della politica in generale. Posso dire che è stata una bella esperienza”
In casa Righetti si tifa tassativamente per la “Magica” o c’è qualche infiltrato?
“A casa mia tifo solo io Roma. Solo io seguo con grande passione il calcio e nessun altro. Alla mia compagna non interessa proprio. A conti fatti gioisco e mi deprimo da solo…”
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