Un poeta non muore mai. I suoi versi lo tengono in vita. Le parole che irradiano sentimenti oltre il tempo. È passato un anno da quando un terrible ed inaspettato incidente lo ha strappato alla vita. La sua ultima opera incompiuta è stata recuperata dai suoi familiari fra le sue sudate e disordinate carte. Ed ecco un nuovo libro.
“Quest’opera nasce dal voler realizzare l’ultima volontà del nostro congiunto – dicono la moglie ed i figli – fino a qualche giorno prima della sua morte sistemavamo i file per un altro libro.
Non potevamo mai immaginare che dopo una settimana esatta andasse via da noi.
A distanza di un anno, pian piano, con un pò di pazienza e con l’aiuto di qualche amico, siamo riusciti a realizzare quello che era il suo desiderio.
Gli ultimi sonetti sono senza titolo, poichè ancora non lo aveva dato. È un’opera incompiuta da lui ma in sua memoria tradotta da Orazio Emanuele Fausciana e la Prof. Rosaria Catalano Rosaria”.
Col nuovo libro , ‘Sulu sunetti’ torna a far parlare di se’.
Rocco Vacca aveva la Sicilia nel cuore. E la decantava ad ogni pie’ sospinto. Con ogni descrizione, con ogni tramonto, con ogni tradizione, con le abitudini dei siciliani , con i ‘ linzola stinnuti’ e gli scorci di terra e le esortazioni forti ed attuali:
‘Rivigghiti gilisi, nesci l’ugna!/Ripigghiti l’amuri da to storia!
Lèvici u mazzu a cu cerca a gloria
Lassannu stu paisi ‘n-mezzu a rugna’.
Un uomo concreto con uno sguardo rivolto alle stelle. Alto, imponente, dinamico ma con il cuore tenero di un uomo di lettere che si esprime in versi. Ed il vernacolo era la sua lingua preferita per dare corpo ai suoi sentimenti. ‘Vulari senz’ali’ , ‘Cosi di Gela’, ‘Scruscu d’amuri’, ‘Cca’ nasciu’ sono le sue antologie di versi in vernacolo, un’ode alla terra di Sicilia di cui andava fiero. E ancora ‘Linzola stinnuti’ , ‘Amuri chi duna frutti’, il libro sul convitto Pignatelli. Attivo nel dopolavoro Eni , visto il suo impegno lavorativo nell’industria, Rocco si era ritagliato uno spazio nel mondo della cultura. Insieme ad Orazio Emanuele Fausciana aveva firmato ‘Sallabbariu’. Quattro anni di lavoro per raggruppare 3000 vocaboli gelesi tradotti in italiano accompagnati da proverbi, locuzioni e proverbi, che restituiscono, a volte l’etimologia. Negli ultimi anni aveva ricoperto la carica di Presidente dell’opera pia Principessa Pignatelli. La presentazione si terrà sabato 22 aprile alle 17.30 nella ex chiesa San Giovanni.
Ecco cosa scrive di lui, nella prefazione, il prof. Liborio Mingoia:
“Era una giornata come tante altre quando Rocco Vacca mi disse: da una settimana sono in dialisi.
Con tanta serenità, come se mi avesse comunicato di avere venduto la macchina, o un’altra cosa di pari importanza”.
“Oggi mi trovu beddu stinnicchiatu/Intra a nefrologia do spitali;/mi fànu stari megghiu, senza mali/e se mi viri, nun pàru malatu”
“Ci vedevamo con una certa frequenza, con Rocco, non spessissimo ma non rinunciavamo al nostro periodico caffè, sorbito di solito seduti a un tavolo dell’Auriga di Macchitella. Era l’occasione per raccontarci le “nostre cose”, ma forse soprattutto per il piacere di stare insieme: lui di solito parlava di più, era un chiacchierone!
Negli ultimi tempi mi parlava spesso delle sue condizioni di salute, aveva tanta fiducia nella cura che stava facendo, lasciando trasparire un certo fatalismo o meglio una sorta di “attiva rassegnazione” dettata forse dalla sua grande fede religiosa. E la religiosità, unitamente alla denunzia civile, è una importante componente della sua ispirazione poetica come è evidente in tante sue pubblicazioni, e in tanti suoi versi diventati più frequenti negli ultimi tempi”
“U suli fa ogni gghiornu nova a luci/dannu chiaruri o munnu ogni matina;/cco lustru èni chiù leggia la ma cruci/e sentu la sarvizza chiù vicina./Libiru, senza ruppa o mpidimenti/trovu jurnati sempri chiù splinnenti”.
“Versi in cui è evidente il forte significato simbolico del sole, spuntato dopo una “jurnata scurusa”, (che rende il poeta siddiateddu e gli fa battere il cuore come un martello) ad alleviare la sua sofferenza avviandolo verso la strada della salvezza.
Non avrei mai voluto scrivere queste righe se non su invito di Rocco. Che oggi non è più con noi.
E trovo una certa difficoltà anche ad articolare i pensieri e a dargli un ordine consequenziale e logico, ma contemporaneamente mi fa piacere perché in qualche modo è come se fossimo seduti al tavolo dell’Auriga: piacere da un lato, difficoltà dall’altro.
La raccolta si snoda tra affetti (la moglie, la cara signora Lucia, che apre la silloge con un bell’acrostico a lei dedicato, i figli, i nipoti, qualche amico….) e impegno civile. Ed è in questo ambito che la forza espressiva della sua ispirazione e della sua lingua riesce a realizzare pregevoli arazzi, i cui fili sono le parole, a volte gergali, o desuete espressioni dialettali, che realizzano l’ordito e la trama del quadretto.
La lingua di Rocco è la “lingua ddutata”, come lui la definisce (Cca’nasciu Rocco Vacca, Gela 2009) riecheggiando la nota definizione di Ignazio Buttitta”.
“Comu po’ diri d’essiri gilisi/se poi nun parri a lingua do paisi”, scrive Rocco nel 2014, a testimonianza del suo amore per Gela e per il suo dialetto che ritiene la cifra essenziale della cittadinanza, il segno distintivo dell’identità, quasi il suo DNA, più forte, forse, di qualunque condizionamento o influenza esterna.
Come infatti scriveva il filosofo e saggista Emile Cioran, “non si abita un Paese, si abita una lingua. Una patria è questo, e nient’altro”. E Rocco è su questa linea, intendendo le parole, la lingua anche (e forse soprattutto) nelle sue espressioni dialettali, come “supremo fattore di appartenenza”. Lo testimoniano le divisioni linguistiche (e i conseguenti scontri) interne all’Ucraina nel caso del conflitto in corso!
A testimonianza di questo amore per la “lingua ddutata”, nel 2014 pubblica, insieme con Orazio Emanuele Fausciana, “Salabbàriu, vocabolario storico culturale gelese-italiano”. L’opera, “realizzata con certosina pazienza, per più e più mesi” (F. Hoefer), ha raccolto 500 parole, per lo più desuete, dell’idioma gelese per impedire che se ne perdesse il ricordo o in ogni caso che se ne ignorasse il significato perché cadute in disuso o perché meticciate dalla parlata televisiva a cui con sempre maggiore frequenza gran parte dei parlanti fa riferimento come modello linguistico.
Ed è proprio questa lingua che, come detto prima, tesse preziosi arazzi in cui la parola disegna quadretti idilliaci (u castidduzzu chi talia i spichi/e a terra di Demetra, china i vita) o tuona minacciosa contro chi “chi mi parra mali/di stu paisi, riccu di cultura,/u scorciu vivu; e comu l’armali/cca peddi fazzu funna di tammura”.
Tra affetti e quadretti emerge il “poeta di Gela” che denunzia i guasti e i mali della sua città, ergendosi quasi a poeta vate.
“Rivigghiti gilisi, nesci l’ugna!/Ripigghiti l’amuri da to storia!/Lèvici u mazzu a cu cerca a gloria/Lassannu stu paisi ‘n-mezzu a rugna.”, un chiaro invito ai concittadini alla protesta, all’impegno civile a togliere il proprio appoggio elettorale a tutti coloro che (politici e amministratori) non pensano al bene della città.
E qua emerge l’altro amore di Rocco, la storia, che lo porta a individuare polemicamente una sorta di “peccato originale” di Gela nella sua rifondazione ad opera di Federico II (Quannu Filiricu/Pi sfiziu fici nasciri stu locu) che sceglie delinquenti e malfattori, li riabilita e li concentra nella “nuova” città dandogli facoltà di fare i propri affari, omettendo di vigilare (E cca nun vinni mai, su scurdàu), e lasciando la nuova terra nella più assoluta anarchia (Fu l’anarchia chi ni guvirnàu).
Rocco non si stanca mai di denunziare i mali che affliggono la sua città, nel disinteresse di politici e amministratori che lasciano Gela nell’incuria più totale, mostrando un disinteresse totale verso le condizioni del popolo arrivato ormai al limite della sopportazione (u populu è ncazzatu, è prontu o motu), consapevole che a lui non resta che la denunzia (Ju chistu sacciu fari, e chistu fazzu;/scrivu pi diri zoccu pensa a genti;), consapevole che questa ennesima denunzia non sarà ascoltata e, sconsolato, non gli resta altro che rivolgersi direttamente alla sua amata città: Caminu, ti taliu, mi sentu vivu:/nuddu mi duna cuntu e ju ti scrivu”.
Ha aleggiato nell’aria e nei cuori dei presenti lo spirito del fondatore del Museo civico di Niscemi Totò Ravalli che, dall’alto ha certamente benedetto la nuova èra che si è aperta con la direzione di Vincenzo Liardo.
Caparbio, determinato ha voluto realizzare un segno sotto l’egida del Lions Club il Museo e ci è riuscito, collaborato e seguito da Franco Mongelli e oggi da Enzo Liardo.
Nell’auditorium del museo civico di Niscemi si è svolta sabato sera in forma solenne la cerimonia del passaggio del mandato dei direttori del museo civico, da Franco Mongelli a Vincenzo Liardo.
“Genius loci… in divenire” è stato un momento particolare nel panorama della giovane vita culturale del Museo Civico di Niscemi. L’evento è stato unico nel suo genere per il suo carattere di “liturgia laica” con l’obiettivo di definire un protocollo in grado di storicizzare il cerimoniale del passaggio del mandato di Direttore del museo che, secondo il regolamento, va rinnovato ogni tre anni, con una possibilità di conferma non superiore a due cicli. La prima parte ha avuto una caratterizzazione epifanica, anche per via della imponente partecipazione di autorità istituzionali e della cultura locale e dell’interland.
L’apertura della serata in musica con “A Totò Ravalli e l’ esposizione del “Ravalli”, una statuetta raffigurante un’iconica immagine del primo e compianto Direttore del Museo, Totò Ravalli. L’opera scultorea, realizzata in argilla da Maurizio Vicari, è stata pensata come “testimone” del passaggio del mandato e va custodita dal Direttore incaricato per tutta la durata del suo servizio, a conclusione del quale il direttore uscente la rimetterà nelle mani del Sindaco pro-tempore che nella medesima cerimonia la riconsegnerà al nuovo Direttore.
Si è trattato della prima edizione di questo tipo di cerimonia che vuole storicizzare e scandire il “divenire” del Museo Civico attraverso la sua figura più rappresentativa: il Direttore.
I tre protagonisti della serata sono stati il Direttore uscente, Francesco Mongelli, che ha tentuto un dettagliato consuntivo della sua esperienza puntando sulla definizione ICOM di museo e ricordando le principali attività svolte durante gli anni appena trascorsi, una quantità di conferenze, rappresentazioni teatrali, concerti, presentazioni di libri.
Il Sindaco di Niscemi, Massimiliano Conti che, in qualità di Presidente del Direttivo del Museo Civico, ha assunto anche la figura di garante del cerimoniale.
La sala conferenze del Museo, gremita per tutta la durata dell’evento, è stata seguita dai familiari di Totò Ravalli e tante personalità della cultura locale e siciliana, degli studenti dell’I.I.S. “Leonardo Da Vinci” che al museo vivono l’esperienza di PCTO (ex alternanza scuola lavoro), di rappresentanti delle associazioni locali e di persone legate al museo per vario titolo e tutti hanno plaudito con gratitudine il servizio del Direttore uscente e augurato buon lavoro al nuovo Direttore.
I saluti istituzionali sono stati diversi , anche a distanza, come quelli della Soprintendente ai beni culturali di Caltanissetta Daniela Vullo e quelli del presidente del CEA Messina Francesco Cancellieri, e quelli del professor Vincenzo Piccione presidente del comitato dei promotori della Carta dei comuni Custodi della Macchia mediterranea, oltre i saluti del presidente del consiglio comunale di Niscemi, la dirigente scolastica del Liceo Leonardo da Vinci di Niscemi Viviana Morello e il direttore del museo Hoffmann di Caltagirone, Prof Antonio Navanzino, il direttore del teatro stabile di Catania, Graziano Piazza di origine niscemese, nella foto.
Particolarmente apprezzato l’intervento deldirigente del servizio turistico regionale di Caltanissetta Giuseppina Cigna che ha manifestato disponibilità alla collaborazione con l’ufficio da lui diretto. Non potevano mancare gli interventi dei presidenti delle due associazioni partner del museo il Lions e il Cea rispettivamente presieduti da Franco gioitta, (Lions) e dal Manuel Zafarana (CEA). Emozionante il momento in cui Giuseppe D’Alessandro, componente del comitato direttivo del museo, ha voluto ricordare il servizio di un anziano protagonista della vita del museo, emblematico per i suoi insegnamenti e saggezza, per tutti “lo zio Rocco di Stefano.
Il nuovo direttore professor Vincenzo Liardo ha ricordato la nascita dei due musei che per circa 40 anni sono stati fratelli gemelli e confluiti nel 2018 sotto lo stesso tetto del museo civico. “Un sogno si è avverato – ha detto – il sogno di Angela Marsiano di Totò Ravalli e di Franco Mongelli, il sogno di Totò Zaffarana di Nuccio D’Alessandro e anche il mio”. Nella disamina fatta dal nuovo direttore sul ruolo, sulle prospettive e sfide a cui deve mirare il museo civico, si evidenzia che il museo deve essere partecipativo non può essere autoreferenziale deve fare autocritica e non ci possono essere risposte semplici a fenomeni complessi. “Inoltre il museo oltre a essere custode della memoria deve creare la memoria in modo tale che poi si possono avere ricadute nella società – ha detto Liardo – Il museo oltre a creare la memoria deve creare l’interpretazione del passato e la comprensione della realtà. Il museo deve inoltre saper parlare al proprio visitatore attraverso diversi linguaggi con modalità e strategie accattivanti e deve attrezzarsi gli strumenti innovativi. Il museo deve fare anche ricerca e per questo si istituirà un centro di ricerca al suo interno che mette in raccordo i due dipartimenti di storia naturale ed etnoantropologia.
Il museo deve fare anche rete e lo deve fare con altri musei con le associazioni ma soprattutto con le scuole proponendo progetti didattici che ampliano l’offerta formativa attraverso laboratori didattici e manuali Infine auspicando di aver innescato la scintilla del cambiamento a tutti i presenti rivolge la domanda su quale potrebbe essere il contributo di ciascuno per rendere il museo civico partecipativo”.
In finale un altro pezzo musicale ‘Al Museo” che ha coinvolto il pubblico con l’invito a un piccolo momento conviviale che si è tenuto nella “Caffetteria”
Palermo – “Affermare che la costruzione degli inceneritori permetterà di abbassare la TARI è un falso colossale targato Schifani e centrodestra”.
A dirlo è il Vice presidente dell’ARS e Coordinatore del M5S Sicilia, Nuccio Di Paola, il quale in risposta alle dichiarazioni del presidente della Regione Siciliana Renato Schifani, chiarisce che il costo di smaltimento presso gli inceneritori rispetto alla discarica è più alto. “Questo valore – spiega Di Paola – tra l’altro è anche dichiarato nello stesso piano rifiuti firmato da Schifani: a parità di condizioni, considerando un livello determinato di raccolta differenziata, con gli impianti a regime ed eliminando le spedizioni dei rifiuti fuori regione, l’utilizzo degli inceneritori in luogo delle discariche comporterà un aggravio delle spese e quindi una TARI più alta”.
“Piuttosto che investire in inceneritori – prosegue – la Sicilia dovrebbe puntare su modelli più sostenibili, come il potenziamento della raccolta differenziata, la promozione del compostaggio e lo sviluppo delle piattaforme di recupero. In altre regioni Europa, questi sistemi hanno dimostrato di essere più efficienti nel ridurre la quantità di rifiuti destinati alle discariche e nel recuperare materiali preziosi, con un impatto ambientale notevolmente inferiore ed un risparmio evidente per le tasche dei cittadini.“Inoltre, dietro la realizzazione degli inceneritori in Sicilia – sottolinea ancora Di Paola – si intravedono logiche assolutamente fuori dalla portata degli interessi dei siciliani, perché saranno coinvolte aziende che non solo non sono del territorio, ma che al territorio non porteranno alcun beneficio economico.
Al contrario, la strategia che sosteniamo noi, imperniata sullo sviluppo di piccoli e medi impianti di recupero, favorisce l’imprenditoria locale facendo in modo che le ricadute economiche ed occupazionali rimangano all’interno della Sicilia” – conclude.
Scicli – «Povero bimbo, aveva numerose ferite in tutto il corpo. Abbiamo subito intuito che non erano state causate da una caduta dal letto, bensì da percosse».
Dalle parole di Giuseppe Piccione e Maria Cilia, soccorritori della Seus 118, è evidente l’angoscia causata da una terribile scoperta a inizio febbraio durante un intervento a Scicli, in provincia di Ragusa, dove poi- come riportano le cronache di queste ore- è stato arrestato un uomo con l’accusa di avere picchiato il proprio bambino.
Fondamentale, appunto, è stato l’intervento dell’equipaggio della postazione “Romeo Alfa 3” del 118 di Marina di Ragusa, composto da Piccione e Cilia. «A bordo dell’ambulanza siamo andati a Scicli in seguito a una richiesta di intervento per un bimbo caduto da un letto. Arrivati a casa sua lo abbiamo trovato in pessime condizioni: aveva infatti in tutto il corpo ematomi ed ecchimosi e pure evidenti fratture a una gamba e a un braccio, tutti chiari indizi di violenze subìte- raccontano i due soccorritori della Seus- Abbiamo quindi avvisato la centrale operativa del 118 che si trattava di un “codice rosa”. Dalla centrale hanno quindi avvisato sia i carabinieri che l’ospedale di Modica, dove nel giro di pochi minuti siamo giunti con il bimbo affidandolo alle cure degli operatori sanitari».
Il presidente della Seus, Riccardo Castro, sottolinea: «Giuseppe Piccione e Maria Cilia sono l’esempio perfetto dell’eccellenza dei soccorritori e di tutti gli operatori del 118 siciliano. Nonostante la comprensibile angoscia causata dalla vista di un bimbo sottoposto a violenze hanno mantenuto la lucidità necessaria per attivare la procedura prevista in questi casi. Siamo orgogliosi di loro e di aver contribuito alla scoperta di un terribile caso di percosse. Un grande e affettuoso abbraccio al bimbo, gli vogliamo bene».