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Cronaca

“Siate uomini liberi, no al racket!”

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Preferisce mantenere l’anonimato e rispettiamo la sua decisione ma ciò non frena la sua voglia di parlare col cronista. Protagonista della vicenda che vi raccontiamo, è un commerciante di Gela, costretto a scappare dalla sua terra natia, assieme alla moglie e ai suoi piccoli bimbi (uno dei quali appena nato), dopo che la criminalità organizzata, imperterrita e senza scrupoli, gli ha tolto la dignità di lavoratore. Siamo a metà degli anni novanta. Sono passati più di sei lustri dalla sua decisione irremovibile “presa – ci tiene a sottolineare – dopo avere guardato negli occhi i miei cari, ai quali non potevo garantire alcun futuro rimanendo a Gela. L’ho fatto per loro, l’ho fatto per me. Non era accettabile quanto stava accadendo…” Titolare di un’avviata attività commerciale, che sorgeva in uno dei quartieri in cui la delinquenza aveva il monopolio assoluto sui loschi traffici, il nostro interlocutore ci parla a cuore aperto e a stento trattiene la commozione, ripercorrendo le tappe, tutte in salita, di quello che riteneva il suo lavoro. Per sempre. Adesso fa tutt’altro. Ha dovuto bussare tante porte, fin quando ha trovato quella giusta. E non è stato semplice. “Mi dicevano lasci il curriculum e le faremo sapere. Se poi notavano che arrivavo da Gela, manco a parlarne…” Un giorno però, la telefonata inaspettata. Un’azienda del Nord Italia, leader nella metalmeccanica,  lo chiama e gli propone un contratto a tempo determinato per 6 mesi. “Tanti gelesi – gli dicono dall’ufficio risorse umane – sono persone perbene”. Il prossimo settembre, saranno 20 anni che lavora con loro. Il suo sguardo, intriso di rabbia per quello che ha perduto, dopo averlo costruito mattone su mattone, ci colpisce e non poco. “Stavo benissimo a Gela. Non mi mancava nulla. Avevo un lavoro che mi piaceva e che piaceva anche a mia moglie.  Avevo una vasta clientela. Con alcuni di loro, avevo allacciato anche una bella amicizia. Ogni sabato sera (è quasi un rituale in città, ndr) andavamo in pizzeria. Si faceva tardi tra un bicchiere e l’altro e non aspettavamo altro che aprisse il centro colazione per i cornetti caldi….” Ma in quel gruppo di amici, si nascondeva quello che il nostro interlocutore definisce “il demonio con la faccia d’angelo”. “Un giorno – dice – quello che ritenevo un caro amico, si presenta in negozio con una persona che non avevo mai visto fino ad allora. Si affretta a dire: stai tranquillo, lui è la tua garanzia per la vita. Intuisco subito che c’è qualcosa che non quadra…” In che senso? “L’atteggiamento del tizio presentatomi era inequivocabile. Mi disse: passeranno a trovarti dei miei amici. Verranno a nome mio. Ogni fine mese. Noi staremo bene e tu farai altrettanto…” La classica messa a posto? “Purtroppo si. Ed è stata pesante. Ho pagato regolarmente. Ogni mese. E per le feste comandate (Natale e Pasqua), anche il doppio”. Per quanti anni ha pagato il pizzo? “Tantissimi. Non riesco più a contarli”. Quanto pagava? “500 mila lire al mese”. E come avveniva il pagamento? “Entravano in due, si presentavano a nome di….e pagavo. In poco meno di un minuto, ogni mese, e il gioco per loro era fatto”. Cosa Nostra o Stidda? “Non c’era alcuna distinzione. Stiamo parlando di criminali!”. Ma perché non ha denunciato alle forze dell’ordine? “Non denunciava nessuno e io mi sono allineato”. E chi gliel’ha detto che non denunciava nessuno? “A Gela anche i muri sapevano. Tutti pagavamo in silenzio per non avere problemi“. Ma non ha mai pensato che lo Stato potesse aiutarvi? “Lo Stato? A Gela in quel periodo era in corso una guerra di mafia senza esclusione di colpi, morti ammazzati ovunque. Approfondire una denuncia sarebbe stato l’ultimo dei pensieri per chi doveva garantire l’ordine pubblico”. In tutta sincerità la sua risposta mi lascia molti dubbi. E’ come se quanto accadeva fosse colpa dello Stato…”Allora aggiungo pure che non mi fidavo. A volte sono stato in procinto di presentare denuncia, ma poi in me subentrava la paura”. La paura di cosa? “Di ritrovare gli stessi aguzzini dinnanzi a me  dopo pochi giorni di carcere. E più malefici di prima!” E dunque ha continuato a pagare….“Purtroppo si”. In termini pratici la sua scelta (ed anche quella operata da altri) si chiama connivenza. “Ma cosa avrei dovuto fare? Cosa avremmo dovuto fare? Per il quieto vivere, ho pagato. Tutti hanno pagato. Una volta dissi – quasi implorandoli – di darmi qualche settimana di tempo in più per soddisfare le loro richieste. Ero in difficoltà. Il giorno dopo, dinnanzi alla saracinesca del mio locale rinvenni una tanica di benzina. L’avvertimento era eloquente. O paghi o bruciamo tutto. In un’altra occasione sono stato seguito fin sotto casa. E poi tante telefonate mute durante la notte. Un incubo!” Altri commercianti, in quel periodo, hanno invece denunciato. “Ma si contavano sulle dita di una mano. Ricordo Nino Miceli, il concessionario d’auto. Dopo le sue denunce e i relativi arresti, la sua vita è stata stravolta. Ha dovuto abbandonare tutto e ha lasciato Gela. Se non ricordo male ha cambiato pure identità”. ll 10 novembre del 1992, fu assassinato Gaetano Giordano. Disse no al racket e pagò con la vita. “Era quello che intendevo dirle quando parlavo di paura. La mia paura era anche quella di morire…Sono sincero: avrei voluto assistere ai funerali di Giordano ma sarebbe stata ipocrisia pura. Mi sono detto: piango pubblicamente un eroe quando personalmente pago ancora il pizzo?”. Non ha mai pensato di proporre, in quegli anni, la nascita di un’associazione antiracket? “Subito dopo l’omicidio di Giordano, si era pensato di costituirne una. Durò pochi giorni e si sciolse come neve al sole. Sono al corrente che l’attuale associazione antiracket di Renzo Caponetti ha numerosi iscritti. Avere un punto dove incontrarsi ed individuare le scelte migliori da operare in sede di denuncia,  é importante per i commercianti”. Diceva all’inizio che ha deciso di andare via da Gela guardando fisso negli occhi i suoi cari.  “Dopo l’ennesimo pagamento, arrivai a casa distrutto. La protervia criminale di cui ero succube non riuscivo più ad accettarla. In tv, quella sera, trasmettevano un documentario dedicato ai giudici Falcone e Borsellino, assassinati dalla mafia. Ad un tratto, mio figlio mi disse: papà, perché non andiamo via dalla Sicilia?  Uccidono anche i buoni. Il mio sguardo incrociò il suo e quello di mia moglie. Loro ignari di quello che avevo fatto per anni: avere alimentato mensilmente con i miei soldi la criminalità; avere tolto soldi alla mia famiglia. Non vivere più per la paura di morire. Basta! Dissi a mia moglie di preparare le valigie per una destinazione imprecisata. Partimmo in auto. Dormimmo in più alberghi. Mio figlio dovette lasciare la scuola. Il locale rimase chiuso e – a distanza –  cercai e trovai un acquirente”. Che giustificazione  ha dato ai parenti più stretti, agli amici, alla clientela dopo avere deciso di andare via da Gela? “Ho detto loro di avere trovato un nuovo lavoro più redditizio e che il bimbo più piccolo, su indicazione del pediatra,  aveva bisogno di respirare aria salubre e non quella dello stabilimento. Era una bugia…In pochi hanno saputo la verità”. Le stesse verità di quello che le è accaduto, mai raccontate in quel periodo a sua moglie. Non sarebbe stato meglio parlargliene? “Ho avuto timore di perderla se le avessi raccontato che pagavo. Lei non accetta le ingiustizie.”  Con quel suo amico (?) quello che lei ha definito il “demonio con la faccia d’angelo”, vi siete più visti? “Assolutamente no. Mi venne a trovare alcuni giorni dopo che mi presentò il tizio poco raccomandabile… Mi disse di non preoccuparmi, era la regola. Chi veniva ad estorcermi i soldi, credo sia in carcere probabilmente per lo stesso reato. Ho visto le loro foto sui giornali”.  Tornasse indietro, rifarebbe quello che ha fatto? “Ma manco per sogno. Denuncerei tutto, anche l’aria che respiro. Vedo molto fermento in questa direzione. Magistrati capaci ed integerrimi; forze di polizia sempre attenti e conoscitori del territorio ed un’associazione antiracket sempre pronta a sostenerti. Bisogna continuare su questa strada. Denunciare è l’unica via d’uscita…” Perché ha deciso (con tutta la riservatezza che il caso impone) di rilasciarci l’intervista? “Perché quello che ho passato io, non si ripeta mai più. Mi rivolgo soprattutto ai giovani che vogliono investire sul territorio: siate uomini liberi e non complici del sostentamento economico della criminalità. I delinquenti devono marcire!”. E’ mai tornato a Gela? “Solo in pochissime occasioni per le vicende dedicate alla vendita del negozio”. A distanza di tempo ha avuto modo di dire la verità ai suoi? “Si! E’ come se mi fossi tolto un peso enorme dallo stomaco”. E loro come l’hanno presa? I suoi occhi si incupiscono. Non parla più. Si chiude nel silenzio. Ma capiamo….

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Cronaca

M5S: Regione raddoppi i posti UTIN dividerli tra Gela e Caltanissetta

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Palermo – “Le indiscrezioni che circolano a proposito della bozza dell’Assessorato Regionale alla Salute di rimodulazione della Rete ospedaliera e dell’applicazione che la nuova direzione strategica dell’ASP 2 di Caltanissetta, lascia presagire che l’ASP nissena intenda dimezzarli, smembrando l’UTIN con la divisione dei posti letto tra Gela e Caltanissetta.

Una giravolta che creerebbe due reparti inefficienti e provocherebbe nei fatti lo sperpero di milioni di euro investiti fino ad oggi dall’ospedale Vittorio Emanuele per l’attivazione dell’Unità di Terapia Intensiva Neonatale. Non vorremmo che la salute dei nostri bambini e delle nostre partorienti possa dipendere da equilibri politici, considerando il totale cambio di rotta verso un ospedale piuttosto che un altro e contravvenendo ad un decreto regionale del 2010 che assegna chiaramente al Vittorio Emanuele di Gela l’Unità di Terapia Intensiva Neonatale.

Se ASP 2 e Regione vogliono dare risposte alla cittadinanza, raddoppino i posti anziché dividerli, raddoppiando anche la pianta organica”. Lo dichiara la senatrice del Movimento 5 Stelle Ketty Damante che a proposito del dimezzamento dei posti letto del costituendo reparto di Terapia Intensiva Neonatale del Vittorio Emanuele di Gela.

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Tre arresti della Polizia

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Tre persone sono state arrestate dalla Polizia in esecuzione di provvedimenti emessi dall’Autorità Giudiziaria. A Gela un trentaseienne, che si trovava sottoposto agli arresti domiciliari, è stato condotto in carcere, su diposizione dell’Ufficio Esecuzioni Penali della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Gela, dopo esserne stato denunciato quattro volte dai poliziotti del Commissariato per il reato di evasione.

Sempre a Gela gli agenti hanno tratto in arresto un 46enne, indagato per il reato di maltrattamenti in famiglia, in esecuzione ad un ordinanza applicativa di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip presso il Tribunale di Gela su richiesta della Procura della Repubblica. A Niscemi, infine, un 36enne indagato per reati concernenti il traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, è stato condotto in carcere su diposizione dell’Ufficio Esecuzioni Penali della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Gela.

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Cronaca

Condotte illecite, emessi 6 provvedimenti di prevenzione

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Il Questore di Caltanissetta, Pinuccia Albertina Agnello, a seguito di un’istruttoria della Divisione Polizia Anticrimine della Questura, ha emesso sei provvedimenti applicativi di misure di prevenzione nei confronti di persone che si sono rese responsabili di condotte illecite e antisociali nel territorio della provincia.

Cinque provvedimenti riguardano l’ammonimento per violenza domestica o atti persecutori emessi nei confronti di un 26enne, sottoposto alla misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla vittima, per essersi reso autore, in seguito ad un litigio con la moglie, del reato di lesioni personali colpendo la coniuge con schiaffi al volto e con numerosi colpi di bastone alle spalle e alla testa. I comportamenti violenti si erano già verificati in precedenti occasioni, nel corso delle quali la donna aveva subito violente percosse; nei confronti di un 50enne, sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento alla vittima, per essersi reso autore di lesioni personali e minacce nei confronti dell’ex compagna alla presenza di minori; nei confronti di un altro 50enne per aver minacciato la moglie con un coltello, poiché la stessa aveva invitato dei parenti a lui sgraditi al matrimonio del figlio; nei confronti di un 32enne che, non accettando la fine della relazione con una donna, ha posto in essere reiterati comportamenti persecutori, con minacce e pedinamenti, fino a danneggiarle la porta dell’abitazione e, infine, nei confronti di un 30enne per aver stalkizzato la propria madre, con minacce e insulti, per futili motivi. Nei confronti di un 26enne, non residente in provincia, è stato, invece, emesso il provvedimento di foglio di via obbligatorio, dopo essere stato denunciato dalla Digos, per aver violato le prescrizioni imposte dal Questore nel corso di una manifestazione di attivisti No Muos svolta a Niscemi. L’uomo non potrà far ritorno nel comune di Niscemi per un periodo di due anni. Tutti i soggetti, con i provvedimenti di prevenzione, sono stati invitati a tenere una condotta conforme alla legge.

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