“In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A questo proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: ‘‘Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa’’. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.
»Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: ‘‘Paga quel che devi!’’. Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: ‘‘Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito’’. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
»Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: ‘‘Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?’’. E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.
–‐———————————————
Oggi nel Vangelo, Pietro consulta Gesù su di un tema assai concreto che persiste nel cuore di molte persone: domanda sul limite del perdono. La risposta è che non esiste tale limite: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,22). Per spiegare questa realtà, si serve di una parabola. La domanda del re costituisce il nocciolo della parabola: «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Mt 18,33).
Il perdono è un dono, una grazia che procede dall’amore e dalla misericordia di Dio. Per Gesù, il perdono non ha limiti, se il pentimento è sincero e verace. Esige, però, di aprire il cuore alla conversione, cioè, di trattare gli altri secondo i criteri di Dio.
Il peccato grave ci allontana da Dio (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1470). Il mezzo ordinario per ricevere da Dio il perdono del peccato grave è il sacramento della Penitenza, e l’atto del penitente che la completa è la riparazione. Le opere proprie che manifestano la soddisfazione sono il segno dell’impegno personale –che il cristiano ha assunto davanti a Dio- di cominciare un’esistenza nuova, riparando, nei limiti del possibile, i danni causati al prossimo
dell’impegno personale –che il cristiano ha assunto davanti a Dio- di cominciare un’esistenza nuova, riparando, nei limiti del possibile, i danni causati al prossimo.
Non ci può essere perdono del peccato senza una qualche riparazione, che ha per finalità: 1. Evitare di cadere in altri peccati più gravi; 2. Allontanare il peccato (giacché le penitenze riparatrici servono da freno e rendono il penitente più cauto e vigilante); 3. Togliere con gli atti virtuosi le cattive abitudini contratti nel vivere male; 4. Rassomigliarci a Cristo.
Come spiegò san Tommaso D’Acquino, l’uomo è debitore di Dio per i benefici ricevuti e per i peccati commessi. Per i primi deve renderGli adorazione e gratitudine; e, per i secondi, Gli deve riparazione. L’uomo della parabola non volle riparare, per cui si rese incapace di ricevere il perdono.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
p. Ermes Ronchi
“Domenica scorsa Gesù aveva proiettato nel cielo di Galilea un sogno e un terremoto: beati voi poveri, guai a voi ricchi.Oggi sgrana un rosario di verbi esplosivi. Amate è il primo; e poi fate bene, benedite, pregate. E noi pensiamo: ci sta. Ma quello che mi scarnifica, i quattro chiodi della crocifissione, è l’elenco dei destinatari. Chi dobbiamo amare? Amate i vostri nemici, gli infamanti, gli sparlatori, coloro che vi pugnalano alle spalle.Gli inamabili.Poi Gesù mi guarda negli occhi e si rivolge proprio a me: tu porgi l’altra guancia, tu dai anche la camicia, tu non chiedere indietro. E ti costringe ad andare in cerca di quelli che vorresti invece perdere.Questo vangelo rischia di essere un supplizio, un martirio. Ci chiede cose impossibili, addirittura: Siate come Dio!Nessuno riuscirà a vivere così a colpi di volontà, neppure i più bravi tra noi. Ma i verbi impossibili di Gesù descrivono l’agire di Dio.Infatti: siate anche voi misericordiosi come il Padre.E poi: come volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. Una capriola che pare illogica: ritorna al cuore, misurati con ciò che desideri, accosta le labbra alla sorgente del cuore.Sappi che il cuore è buono. Che il tuo desiderio è buono. Abbiamo tutti un disperato bisogno di essere abbracciati e di essere perdonati.Tutti desideriamo qualcuno che ci benedica, una casa dove sentirci a casa, e poter contare sul mantello di un amico.Questo darò agli altri.Ciò che desideri per te, dallo all’altro. Altrimenti vi sbranerete per un pugno di euro, per una donna, per il petrolio, per un bonus, per un posto al parcheggio.L’unica strada per il sogno di cieli nuovi e terra nuova è Abele che diventa custode di Caino, la vittima che si prende cura del violento. Abele e Caino forzano insieme le porte del Regno.Perdonate:“Il perdono strappa dai circoli viziosi,spezza le coazioni a ripetere su altri ciò che hai subito,spezza la catena della colpa e della vendetta,spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt).Sì, io però sono un angelo imperfetto.E allora il Vangelo propone una strategia. Un primo passo è sempre possibile, a tutti: il vangelo è pieno di inizi, trabocca della teologia dei germogli e del seme che spunta.Basta il coraggio di un primo passo. Come Dio. Come il cuore. Sappi che sei buono!Questi grandi verbi di fuoco (amate, date, perdonate) cominciano sottovoce, in penombra, raso terra, nel sussurro di una voce che ha i colori dell’alba.“Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” (Gandhi). Cambia qualcosa di te, ma sulla misura alta del vivere”.
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
Padre Ermes Ronchi
Un vangelo potente e inarrivabile.Da oltre cinquant’anni lotto con questo vangelo, che mi sfugge sempreLe parole che cerco di allineare sono come uccellini che sbattono contro le pareti della gabbia, a dire poco più del nulla che capiamo di queste parole immense.“Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”, aveva detto nella sinagoga. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri.Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio sono le infinite croci degli uomini.E aggiunge alla fine un’antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi!Sillabe sospese tra sogno e miracolo, osate, prima ancora che da Gesù, da sua madre nel canto del Magnificat: “ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. (Lc 1,53).Questi oracoli profetici, anzi più-che-profetici, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, a disgraziati, ai bastonati dalla vita, ci obbliga a un capovolgimento di prospettiva, a guardare la storia con gli occhi dei poveri e dei piccoli, non con quelli dei ricchi e dei potenti, altrimenti non cambierà mai niente.E ci saremmo aspettati: “beati voi poveri perché ci sarà un capovolgimento, un’alternanza, diventerete voi i signori”.No. Il progetto di Dio è più profondo. C’è di mezzo il Regno dei cieli, che non è il paradiso o l’al di là, ma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani.Il mondo non appartiene a chi se ne impossessa o lo compra, ma a chi lo rende migliore. E non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro.Beati voi… Il vangelo più alternativo che si possa pensare, il manifesto più stravolgente e contromano. Eppure, al tempo stesso, senti che è amico della vita, vangelo amico.Perché le beatitudini non sono un comandamento, un ordine da eseguire, ma il cuore dell’annuncio di Gesù: la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace.In esse è l’inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l’inizio della guarigione del mondo.Guai a voi, ricchi, sazi, gaudenti, famosi. I quattro “guai” ci inquietano un po’, ma non sono delle maledizioni: Dio non maledice le sue creature, mai, la sua è la voce della tristezza del padre in pena per i figli che si stanno perdendo.“Guai” non suona come una minaccia, ma come il gemito dei lamenti funebri, il singhiozzo del pianto su chi appare come morto.“Guai”: e vi sento dentro il lamento di Gesù, che piange i ricchi e i sazi come coloro che si sono sbagliati su ciò che è vita e ciò che non lo è; e sono diventati gli idolatri del vuoto, gli amanti del nulla.E gli idoli sono crudeli, spietati: divorano i loro stessi adoratori.
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Le letture di oggi propongono uno dei temi più affascinanti dell’esperienza religiosa: quello del Dio trascendente e glorioso, tremendum et fascinans. Tremendum, perché dice santità e inaccessibilità. Dio non lo si può possedere. Al suo cospetto gli uomini avvertono un timore “numinoso”, come di fronte a qualcosa che si è indegni di avvicinare perché troppo piccoli e inadeguati. E tuttavia fascinans, perché il mistero attira e rapisce: la creatura sente, nonostante tutto, il bisogno di avvicinarsi. Questa esperienza “religiosa – sommariamente descritta – non è l’esperienza dell’uomo biblico, perché il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio di Gesù, non se ne sta racchiuso nella sua onnipotenza maestosa, incutendo paura e tremore, ma discende per entrare in relazione con l’essere umano. È Dio stesso che si china per abbracciare il limite umano in un amplesso di intimità salvifica. Di fronte al Santo l’uomo avverte rispetto, ma non paura, perché, come dice il cantico, Dio scende per «visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79)
Prima lettura: Is 6,1-2a-3-8
La visione di Isaia si apre con uno sguardo sulla corte celeste e sulla celebrazione della trascendenza e della santità divina. Dio appare attorniato dai serafini che cantano la sua santità, mentre il tempio si riempie di fumo. Gloria, santità, nube, fumo… sono tutte espressioni della trascendenza di Dio, dell’insondabile mistero che lo avvolge. Bisogna stare però attenti a non confondere il “mistero” divino con l’umiliazione della ragione umana, come se Dio, con la sua “lontananza”, volesse tenere l’uomo a distanza. No, Dio non mortifica l’uomo per ergersi su di lui. La Bibbia non parla mai della paura di Dio, ma del timore di Dio, che è altra cosa. Temere Dio significa “prenderlo sul serio”! Il mistero divino dice alterità e libertà, gratuità e grazia. Il mistero di Dio dice che quanto di lui sappiamo è un dono, una promessa e che noi non siamo in grado di comprendere tutto, perché non siamo neppure capaci di comprendere noi stessi. Dio va preso sul serio e amato anche se rimane il nostro «immenso enigma, il nostro grande amore, l’infinito dolore della nostra vita» (Lippert). Lo sappiamo tutti: il più grande dei misteri non è la persona più lontana, ma la più prossima, la più vicina.
Eppure Isaia, di fronte a lui, si sente indegno: «Ohimé, sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono!». Un profeta, chiamato ad annunciare la Parola con le sue labbra contaminate, confessa la sua indegnità proprio nel compito che gli è stato affidato. Non si tratta tanto di una confessione di peccato, quanto di una distanza incolmabile che separa ogni uomo da Dio. «Domine non sum dignus / Signore non sono degno» esclamano tanti uomini di Dio davanti al mistero ineffabile della chiamata: lo esprime Geremia, un altro profeta di Dio, avvertendo l’abisso della propria inadeguatezza davanti al mistero di Dio e lo pronuncia un centurione davanti a Gesù (Mt 8,8).
A questi uomini Dio stesso risponde, non per sottolineare la distanza, ma per far sì che si cambi la prospettiva. Il simbolo del fuoco che purifica o della parola divina che invia nonostante le obiezioni degli inviati dicono sostanzialmente una cosa: non è l’uomo a dover scalare il monte santo, perché non ne è capace; Dio stesso varcherà l’abisso.
Ed ecco il prodigio: alla richiesta di chi debba annunciare a tutti la salvezza e il giudizio, Isaia risponde con prontezza: «Eccomi! Manda me». È la fiducia totale di chi si getta interamente nelle braccia di Dio. Che cosa importano indegnità, paura, fallimento e peccato? Eccomi è la gioiosa certezza che sulla nostra debolezza si riversa la misericordia divina.
Il Vangelo: Lc 5,1-11
Il racconto sobrio e un po’ schematico della chiamata dei primi discepoli nel vangelo di Marco diventa, in Luca, un racconto emozionante e denso che, in analogia al racconto della vocazione di Isaia, insiste sulla percezione che l’uomo ha di se stesso e di Dio, quando le loro strade s’incontrano.
Le figure dominanti sono Gesù e Pietro, con un evidente rimando alla situazione ecclesiale. I discepoli di ogni tempo sono invitati così a rileggere questo racconto come una storia che riguarda la loro identità di chiamati e il fondamento stesso del loro essere chiesa alla sequela di Cristo. La folla «che premeva su di lui per ascoltare la parola di Dio» lungo il lago di Genezareth è un segno evidente della fame della Parola di cui parlava il profeta Amos: «Ecco: giorni stanno arrivando, oracolo del Signore Dio, in cui manderò la fame sulla terra: non fame di pane né sete di acqua, bensì di ascoltare le parole del Signore» (Am 8,11).
Questa Parola si rivolge a Simone intimandogli di gettare le reti, dopo una notte di vana fatica. Un ordine paradossale, contro ogni logica umana. La disponibilità di Pietro non è solo un atto di rispetto e di prontezza di fronte al comando del Signore. «Sulla tua parola calerò le reti» rivela un atteggiamento molto più profondo: è la stessa scommessa di Abramo che, nella notte, «non indugiò a lungo, non discusse con se stesso, né chiese come Adamo nel paradiso terrestre: perché Dio mi ordina di far questo? Non ubbidì alla sua propria carne… che anzi di questa cosa non parlò nemmeno con la sua Sara, né le disse qualcosa; avendo udito l’ordine, non dubitò, ma si affrettò ad eseguirlo» (Von Rad). È la fede che rischia, consapevole che Dio, sia quando parla sia quando tace, lo fa per amore: ci guida con la sua voce, ci educa col suo silenzio.
La pesca viene descritta da Luca con molti dettagli, a sottolineare che Dio non solo risponde alle attese umane, ma le esalta. Di fronte alla potenza divina, tuttavia, Pietro ripercorre la stessa esperienza di Isaia e di ogni uomo religioso: «Allontanati da me Signore, perché sono un peccatore!». Abbiamo qui – ancora una volta – ben più di una semplice qualifica morale; si tratta di una percezione di inadeguatezza: chiedendo a Gesù di allontanarsi, Pietro lo riconosce santo e incomparabile, radicalmente diverso da tutto ciò che egli potesse conoscere o immaginare.
Eppure il Signore, inavvicinabile e inenarrabile, sceglie proprio Pietro “il peccatore” per appartenergli. Dio pronuncia davanti a lui il suo sì definitivo, il suo Amen, ed è su questo Amen, su questo sì di Dio che riposa la missione della chiesa: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Da quel momento l’essere e l’agire di Pietro riposano esclusivamente sull’azione di grazia del Signore. A significare che gli uomini vanno a Dio con la loro debolezza, la loro indegnità e il loro peccato; pensano di non farcela, ma proprio quando «uno si immagina di non essere più in grado di proseguire il cammino con Dio, perché è troppo difficile, ecco che la vicinanza di Dio, la fedeltà di Dio, la forza di Dio diventano la sua consolazione e il suo soccorso. Solo allora sappiamo chi è Dio e qual è il senso della nostra vita» (Bonhoeffer).
Don Massimo Grilli, Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano