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L'uomo, il tempo, la memoria

Sergio Leone e la “trilogia del dollaro”

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L’avremo visto chissà quante volte, senza mai stancarci di gustarlo, nonostante siano trascorsi sessant’anni. E la televisione continua a riproporlo con regolarità almeno 4, 5 volte l’anno. Stiamo parlando del film di Sergio Leone “Per qualche dollaro in più”, uscito nelle sale nel 1965, ad appena un anno dal primo epico successo che il regista romano aveva colto con la pellicola “Per un pugno di dollari”. Ricalcando la stessa formula vincente fatta di pugni e pistolettate, Leone faceva nuovamente centro al botteghino, riproponendo come protagonisti due attori del calibro di Clint Eastwood e Gian Maria Volontè, ai quali si andava ad aggiungere Lee Van Cleef, altro straordinario interprete, che aveva mosso i primi passi nel genere western in un film mitico come “Mezzogiorno di fuoco”, interpretato da Gary Cooper e Grace Kelly e diretto nel 1952 da Fred Zinnemann.

E’ risaputo che buona parte del successo di questi film furono determinati dalle splendide colonne sonore di Ennio Morricone. E’ indubbio però che Leone con le sue pellicole e il suo stile “epico” di raccontare storie, seppe letteralmente reinventare un genere ormai quasi passato di moda. Lui, che nel 1948 a soli 19 anni aveva fatto una comparsata di lusso in “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica, fu l’inventore degli spaghetti western all’italiana, che segnarono una stagione felice del nostro cinema e fecero furore in tutto il mondo, tanto che gli stessi americani rispolverarono il filone che li aveva visti maestri indiscussi sin dalla nascita del cinematografo (“The Great Train Robbery” fu il primo western, girato da Edward Stanton Porter nel 1903!) grazie a registi come John Ford e Raoul Walsh, e attori mitici come John Wayne, James Stewart, Henry Fonda, Burt Lancaster, Richard Widmark e tanti altri. Nel 1966 Leone portò sul grande schermo “Il buono, il brutto e cattivo”, sempre con Clint Eastwood, Lee Van Cleff, e il contributo di un altro attore americano di spessore come Eli Wallace, che 6 anni prima era stato uno dei protagonisti de “Gli spostati” di John Huston, accanto a Marilyn Monroe e Clark Gable.

Quel terzo western del cineasta romano concludeva la cosiddetta “trilogia del dollaro” e consacrava definitivamente il cinema di Sergio Leone, facendo da traino ad una corposa produzione di film (oltre 350 i titoli di quegli anni) che condussero al successo anche altri interpreti del genere come Franco Nero, Terence Hill, Bud Spencer, Tomas Milian, e più di tutti Giuliano Gemma, che nei panni di ”Ringo” divenne il cow-boy più amato dal pubblico cinematografico italiano e non solo. Tornando invece a “Per qualche dollaro in più”, la scena che rimane più impressa nell’immaginario collettivo è certamente il duello finale fra Lee van Cleef e Gian Maria Volontè, dove ancora una volta le musiche immortali di Morricone contribuiscono a dare forza a quelle sequenze che, a buon diritto, fanno oramai parte della storia del cinema. Peccato che nel 1989 Sergio Leone, che era nato a due passi da Fontana di Trevi il 3 gennaio 1929 da Roberto Ruberti (regista del muto) e Bice Waleran (attrice di teatro), ci lasciava a soli 60 anni colpito da un infarto fulminante. C’è da chiedersi cosa avrebbe potuto ancora fare questo genio del cinema se la morte non l’avesse colto così prematuramente.

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Ginger e Fred, il film profetico di Fellini

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Nel 1985, esattamente quarant’anni fa, Federico Fellini girava al Teatro 5 di Cinecittà “Ginger e Fred”. Un film che ha avuto per me un notevole significato dal momento che per quattro settimane, fra giugno e luglio, fui uno degli assistenti alla regia del grande maestro riminese, e che di fatto quella pellicola segnò il mio esordio professionale nella cinematografia.

Un inizio carriera che un po’ tutti i ragazzi avrebbero sognato, se si considera che allora Fellini insieme ad Akira Kurosawa e Ingmar Bergman era considerato il cineasta più importante al mondo. Protagonisti del film furono Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, che interpretavano due vecchi ballerini, soprannominati appunto Ginger e Fred per il loro repertorio che si ispirava a Fred Astaire e Ginger Rogers, i quali venivano invitati dopo tanti anni dal loro ritiro delle scene ad uno show televisivo.

C’era in quel lavoro di Fellini una profetica anticipazione di quella che poi sarebbe divenuta la televisione “spazzatura” in Italia, fatta di show, quiz, turpitudini, grande fratello e chi più ne ha più ne metta. Qualcuno volle pure vederci la narrazione della nascita di Fininvest, l’azienda televisiva voluta da Silvio Berlusconi poi divenuta Mediaset. Un film pieno di ironia, sarcasmo, ma dove non mancava pure una vena di malinconia quando alla fine dell’esibizione, peraltro maldestra, i due anziani ballerini, anche amici (e forse un tempo anche amanti) si lasciano a Stazione Termini. Un saluto ultimo e struggente che faceva comprendere come i due non si sarebbero più rivisti.Musicato da Nicola Piovani, che ebbi modo di conoscere proprio sul quel set, il film fu pretesto per Fellini anche per attaccare l’uso massiccio e indiscriminato della pubblicità che interrompeva (e interrompe tutt’ora) il cinema in televisione. Una battaglia persa quella di Federico, nonostante anche altri autori negli anni abbiano sostenuto questa causa, compreso il nostro Giuseppe Tornatore. Ma la TV commerciale (e non solo quella) ha le sue regole, o forse regole non ne ha più, se quotidianamente a tutte le ore del giorno e della notte vediamo fiere della vanità, cruenti dibattiti, violenza e volgarità a go go. D’altronde, anche il dolore, la morte, le guerre sono stati spettacolarizzati. Quasi fossero videogames. E davanti a quel film di Fellini girato 40 anni fa, attraverso gli occhi ingenui di due vecchi artisti del Varietà, c’è tutto lo “sguardo lungo” del regista che fu sempre capace attraverso la fantasia e l’irrazionale di raccontare verità scomode.

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Donne eroine, martiri delle Foibe

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Lo scorso 10 febbraio si è svolta ai più alti livelli istituzionali “la giornata del ricordo” al fine di perpetuare la memoria sugli assassinii e le stragi che riguardarono le popolazioni istriane e giuliano-dalmate a cavallo fra il ’43 e la fine della Guerra, che poi determinarono l’esodo dalle terre natìe di 350.000 italiani sino a oltre la metà degli Anni ’50.

Molte quest’anno le iniziative, ma anche le novità editoriali che hanno riguardato l’argomento. Cito per tutti la pubblicazione “Donna, eroine, martiri delle foibe” (Editore Passaggio al Bosco) della professoressa Valentina Motta di origine messinese, scrittrice, studiosa e ricercatrice, e poi il libro “10 febbraio” del senatore di Fratelli d’Italia On. Giuseppe Menia, di origini istriane. Fra questi due interessanti volumi vorrei poggiare l’accento sul saggio della professoressa Motta per la capillare ricostruzione di fatti e eventi tragici che insanguinarono fra il 1943 e il 1945 la frontiera orientale italiana, con eccidi, torture ed esecuzioni da parte dei partigiani titini dell’Osna. Un racconto che riporta in superficie soprattutto le violenze e gli abusi perpetrati contro le donne, colpevoli di essere state compagne o parenti di uomini legati al regime, o esse stesse inquadrate nei reparti femminili della Repubblica Sociale Italiana o facenti parte di corpi volontaristici e di assistenza ai malati e ai feriti. Non mancarono poi abusi su ragazze, colpevoli solo di essere belle e quindi vittime spesso di gelosie, ricatti, vendette. Su queste donne vennero perpetrati ignominiosi stupri e orribili sevizie. E chi idealmente rappresenta e simboleggia tutte queste figure (mamme, spose, sorelle, di qualsiasi età e ceto sociale) è certamente Norma Cossetto (Visinada, 17 maggio 1920), che a 23 anni, fra la notte del 4 e 5 ottobre 1943 venne sequestrata, violentata da 17 titini e poi gettata viva nella Foiba di Villa Suriani.

Il cadavere sarebbe stato rinvenuto 2 mesi dopo, alla fine di dicembre, privo di indumenti e con un paletto di legno conficcato nella vagina. Una fine orribile quella della studentessa universitaria che stava preparando la sua tesi di laurea, e che venne descritta da chi la conobbe come una ragazza solare e piena di vita, certo ignara dal crudele destino che la condusse alla più spaventevole delle morti. L’8 maggio 1949 l’allora rettore dell’ Università di Padova, prof. Aldo Ferrabino, conferì la laurea ad honorem in lettere a Norma Cossetto, mentre nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi insignì alla ragazza istriana della Medaglia d’oro al merito civile. Precisa, puntigliosa e scrupolosa è stata la ricostruzione dell’esecuzione della Cossetto da parte di Valentina Motta, ma anche di tante altre donne coraggiose che vennero martirizzate in nome dell’ideologia comunista, dalle bande armate del Maresciallo Tito. Fra l’altro l’autrice nel riportare alla luce tanti di questi episodi non manca di sottolineare come comunque c’è ancora molto da ricercare, e molto da indagare per riesumare (proprio come si è fatto nel recuperare i corpi infoibati) altri casi nascosti e dare una maggiore completezza a quel “film dell’orrore” tenuto per decenni così vergognosamente nascosto e vilmente tacitato.

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Trump e Putin, due facce della stessa medaglia

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Sebbene già nella precedente amministrazione e durante questa sua ultima trionfale campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca, i comportamenti, le parole e le decisioni di Donald Trump avevano già fatto comprendere chiaramente con quale uomo avrebbe dovuto confrontarsi il mondo, adesso che dalla teoria si è passati alla pratica, è sconvolgente constatare come il nuovo Presidente degli Stati Uniti a poche settimane dalla sua rielezione abbia già destabilizzando i già precari equilibri del nostro pianeta. Le sue scelte, le sue decisioni, le sue sortite perentorie, che non ammettono dialogo o confronto perchè lui è “l’unto dal Signore”, ci dicono quanto siamo messi male se la nazione più potente del mondo è governata da un signore isterico e megalomane, irresponsabile e senza freni. D’altronde, l’altra superpotenza mondiale, ovvero la Russia, è nelle mani di un altro esaltato, il carnefice e sanguinario Vladmir Putin.

Ebbene, questi due uomini, secondo nuove logiche imperialistiche che sembravano morte e sepolte, vanno d’accordo e sembrano volersi spartire il mondo assicurandosi delle precise aeree di influenza. Così Trump, anche per avere poi dallo “zar” il via libera sui suoi progetti, sta cercando di chiudere in poche battute una pace fra la Russia e l’Ucraina, e non verrà difficile a Putin aderire a questo piano, che sembra condannare l’Ucraina a un triste destino di resa e capitolazione, nonostante il valore dei suoi generali, dei suoi soldati e del suo popolo. Non è infatti concepibile che si lavori ad un trattato di pace, unilateralmente, con una sola nazione che detta le condizioni, appoggiata da un arbitro fazioso, disposto a sacrificare Kiev, magari prendensosi poi il merito di pacificatore. E l’Unione Europea? Protesta timidamente. Non sa cosa fare e non ha personalità politiche capaci di spezzare questa diabolica intesa che sta venendosi a creare fra Stati Uniti e Russia. Lo stesso presidente francese Macron appare patetico nelle sue timide reazioni alle imprevedibili e perentorie scelte di Trump. E Giorgia Meloni? Donna intelligente e statista di razza, checché ne dicano gli avversari politici, cosa fa? La sua ostentata amicizia con Trump dovrebbe metterla in una posizione di privilegio rispetto agli altri partners europei, e quindi solo lei potrebbe fare ragionare il presidente degli USA sulle sue strategie. Qui allora si gioca tutta la credibilità della premier, non solo come Presidente del Consiglio, ma anche rispetto alle mire di divenire una leader indiscussa anche in Europa. Se la Meloni avrà coraggio e argomentazioni per opporsi a Trump (e Musk!), allora la sua leadership e la sua immagine ne usciranno potentemente rafforzate. Altrimenti, rimanendo zitta e supina davanti alle pericolose “devianze” di Trump, la Presidente del Consiglio finirà col bruciare tutta la credibilità e la stima che ha saputo conquistarsi negli anni con un puntiglioso e duro lavoro. D’altronde, la Meloni, che ha difeso a spada tratta e con i fatti il diritto ad esistere dell’Ucraina, come potrebbe accettare adesso che quella nazione, disarmata e mutilata in buona parte del suo territorio, divenisse un’ altra ragione satellite della Russia? Se Meloni ha riconosciuto la pericolosità di Putin dovrebbe pure comprendere che Trump in fondo non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia. La verità, senza girarci troppo intorno, è che Putin e Trump, diversi eppure uguali, sono una grave minaccia per il mondo. E ad opporsi a questi due pescecani non potrà essere la debole Europa e neppure la Gran Bretagna che ambiguamente davanti ad una situazione così esplosiva se ne sta zitta nel suo isolazionismo. ma paradossalmente potrà farlo la Repubblica Popolare Cinese, il cui presidente, Xi Jinping a confronto dello zar e del tycoon, sembra essere un vecchio grande saggio. E se è vero che tra i due litiganti il terzo gode, forse allora sarà proprio la Cina a vincere la grande partita politica, strategica ed economica che ormai si sta combattendo da anni senza esclusione di colpi. Ma neppure quest’ultima prospettiva al fine ci riempirebbe di gioia.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
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