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Ipse Dixit

“Sempre legato a Gela e ai suoi splendidi tifosi”

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Fino a qualche decina di anni addietro, i suoi boccoli erano lunghi e neri. Riconoscibilissimi. Adesso (l’età avanza, anche per lui), il bianco ha preso il sopravvento. Tutto cambia col passare del tempo. E’ un esercizio naturale della vita. Così com’è naturale, per chi scrive, ricordarsi di un caro amico. E sentirlo parlare fa uno strano effetto, dopo parecchio tempo. Sorpreso della telefonata, non esita un attimo a rispondere alle domande. Lui è Carmine Donnarumma, campano di Castellamare di Stabia, calabrese d’adozione. Ha lavorato come direttore sportivo in tante piazze: da Ischia ad Acri, da Giarre a Lamezia, da Gela a Catanzaro. E’ stato osservatore anche per il Livorno e il Benevento. Adesso, assieme ad altri manager, opera per una società con sede a Londra. Si occupa di scouting a livello internazionale.
Tante tappe importanti. Quale la più rilevante?
“Lamezia e Gela. In questi due posti ho lavorato per circa vent’anni. Catanzaro mi ha affascinato e mi affascina ancora…”
Anni interessanti quelli vissuti a Gela. Nella stagione 1997/98 con Fabrizio Lisciandra presidente e Fofò Ammirata allenatore, in C2, con la Juveterannova, ribaltaste lo 0-3 di Chieti, salvandovi ai play-out, dinanzi ad un pubblico incredulo e festante. Fu una vera e propria impresa. Ce la ricordi?
“Certo che me la ricordo!!! Ho una vecchia videocassetta e ogni tanto me la rivedo e non ti nascondo che mi commuovo!!! Ti svelo un segreto: quella partita fu vinta dalla “gelesità” di quella squadra (Runza, Di Dio, Italiano, Comandatore, Conte, Ammirata ed altri ancora). Dall’amore dei gelesi, dalla passione di chi ha sofferto tanto e non può e vuole perdere una cosa bella che ha ottenuto. Ricordo un episodio per me determinate: arrivammo a Gela dall’Abruzzo il lunedì mattina; molti di noi andarono a dormire e si svegliarono nel tardo pomeriggio. Immaginate l’umore. Verso le 20 andai a cena in un ristorante che frequentavo spesso. Più per uscire che per cenare. Antonio, il proprietario del locale, si sedette al mio tavolo e mi disse: a duminica ni ’mangiammu!!! Non era solo il suo pensiero ma quello di tutta la città. Per tutta la settimana continui incitamenti: ce la facciamo, pacche sulle spalle, inviti a cena per starci vicino. Siamo arrivati carichi a molla. Questo è il vero segreto! Penso, anzi sono convinto, che in qualsiasi parte d’Italia non ci saremmo salvati, a Gela si!”
La stagione successiva, con Saro Foti allenatore, otteneste il nono posto e il campionato dopo, con il ritorno di Ammirata e con l’ingresso del presidente Arturo Carrabino, chiudeste al settimo posto. Si poteva fare di più?
“Si può sempre fare di più, ma bisogna accontentarsi di quello che si ha! Tante cose si apprezzano quando non ce le abbiamo più, chiaro no???”
Dopo quell’esperienza, sei ritornato a Gela nel 2009 (sempre in C2), dirigendo la squadra allenata da Nicola Provenza e presieduta dal compianto Angelo Tuccio. Settimo posto in graduatoria. Rimpianti?
“In questo caso ho rimpianti, è vero. Fummo chiamati dal grande Presidente Tuccio il 5 agosto e nonostante il grande ritardo mettemmo su un’ottima squadra. Eravamo primi in classifica alla decima giornata e tutti parlavano del “miracolo Gela”. Ad un certo punto si ruppe qualcosa. Mi riferisco all’aggressione subita dal nostro giocatore Rocco D’Aiello dopo la sconfitta a Vibo Valentia. Quell’episodio ha segnato una stagione intera. Non abbiamo avuto la personalità di assumere decisioni impopolari: mandare via qualche elemento destabilizzante all’interno del gruppo che però aveva credito nella tifoseria. Non volemmo creare ulteriori frizioni. A volte, però, bisogna prendere decisioni difficili e impopolari, ma bisogna farlo!”
L’anno dopo, in C1 (Lega Pro Prima Divisione), il Gela chiuse al dodicesimo posto. Si poteva fare di più?
“No, quell’anno abbiamo fatto il massimo! Alla fine del girone di andata, il presidente volle ridurre i costi perché erano sorti seri problemi con il Comune. Problemi che poi portarono alla non iscrizione di fine anno. Mandammo via oltre dieci giocatori importanti (Stamilla, Franciel, Piva, Cruciani, D’Amico tanto per fare qualche nome). Tutti ci davano per spacciati, già retrocessi. L’avvento di mister Ammirata, dopo le dimissioni di Provenza, portò serenità all’ambiente e riuscimmo, contro ogni previsione, a salvarci con un manipolo di giovani. Determinati furono i leader, a differenza di quelli dell’anno precedente. Gente come Nordi, Cardinale, Docente e altri furono dei veri e propri eroi!”
A Gela, qual è stato il giocatore che ti ha particolarmente colpito per la sua classe?
“Non ho piacere a parlare di qualcuno in particolare, farei un torto a tanti altri”.
Da quale giocatore avresti voluto di più’?
“Penso che Emilio Docente poteva fare una carriera ancora più importante di quella che ha fatto”.
Cosa ti ha dato Gela?
“Tanto anzi tantissimo. Ho passato anni meravigliosi sia dal punto di vista umano, sia professionale. Mi pregio di avere tanti amici con i quali mi sento periodicamente. Sono stato benissimo assieme alla mia famiglia. Dieci anni sono tanti, non si dimenticano, mai! Non vedo l’ora che riaprano i confini regionali. Devo assolvere ad un mio desiderio…”
Quale?
“Non sono riuscito a salutare come volevo Angelo Tuccio. Avverto l’esigenza di andare dove riposa e stare un po’ con lui. Ne ho proprio bisogno. Non sono riuscito a stargli vicino quando ne aveva bisogno. La sua assenza per me è un vuoto incolmabile!”
Il calcio locale (dopo l’esclusione dal professionismo) sta ripartendo dai bassifondi. Secondo te, ci sono i presupposti per riportare in alto il vessillo gelese?
“Non conosco le realtà attuali e quindi non posso dare alcun giudizio. Gela ha vissuto tanti momenti bui e poi improvvisamente si è risvegliata. Ritengo che la chiusura del petrolchimico abbia creato gravissime difficoltà economiche, la pandemia poi ha fato il resto. Riprendiamoci nella vita di tutti i giorni e di conseguenza si riprenderà anche il calcio.”
Hai accennato alla pandemia. Il calcio al tempo del Covid. Gli stadi sono chiusi al pubblico. Manca l’essenza principale: il tifo. Come vivi questo momento?
“Stiamo vivendo un momento terribile, probabilmente il più difficile dopo la Seconda guerra mondiale. Sicuramente il peggiore per le generazioni nate subito dopo gli anni ‘60. L’assenza dei tifosi dagli stadi è sicuramente una cosa molto negativa, ma penso che sia passata in secondo piano perché le preoccupazioni che attualmente viviamo hanno messo in secondo piano questa problematica. Del resto le pay tv, le dirette facebook e i vari canali streaming hanno sicuramente mitigato queste “privazioni” .
Al di là dell’aspetto prettamente sportivo, la pandemia ha stravolto le abitudini di ognuno di noi. Anche la tua? E in quale misura?
“Sono stato privato del “contatto” umano che per un meridionale come me, è una grande privazione. Non poter “abbracciare” le persone care, stringere la mano agli amici, stare insieme per un aperitivo o una cena, sono cose che mi mancano moltissimo. Ma quello che più mi manca è la “libertà” di viaggiare, muoversi liberamente. Quello che fino ad un anno fa era la normalità, adesso è diventato un sogno”.
Adesso l’unica speranza è rivolta al vaccino. Ce la faremo?
“Non ho dubbi: ce la faremo! Come popolo abbiamo nel Dna questa grande capacità di risorgere, di aguzzare l’ingegno, di rimboccarci le maniche nelle difficoltà. Lo faremo anche questa volta e ne usciremo più forti e più determinati”.
La Calabria, regione in cui vivi, è stata sovente al centro di indagini giudiziari per comprovati legami tra chi amministra la cosa pubblica e il malaffare. Come si potrebbe interrompere definitivamente questo scellerato binomio?
“Io penso di essere il “prototipo” dell’italiano del Sud: sono nato in provincia di Napoli, mi sono sposato e risiedo in Calabria e ho lavorato per oltre 10 anni in Sicilia! Penso che più terrone di me ce ne siano pochi! In Calabria mancano due cose: la presenza forte dello stato proprio a livello numerico (magistrati, polizia, Carabinieri, esercito) e una seria cultura della legalità. Cultura che non si infonde con i seminari o con i sermoni di presunti esperti, ma va ricercata tra le persone normali: gli impiegati pubblici, i funzionari, i burocrati. Purtroppo un tuo sacrosanto diritto lo fanno diventare “un favore”. Questo è il vero problema del meridione d’Italia. La cultura del “favore”, del “non ti preoccupare”, dello “stai tranquillo ci pensa l’amico”: questi sono i tumori che frenano le nostre regioni. Questa è la nostra cultura deviata! Le scuole saranno determinanti. Oltre alle lezioni di italiano, storia, matematica andrebbero inserite abbondanti ore di una nuova materia: cultura della legalità! Solo così tra una ventina di anni avremo una classe dirigente e politica degna di una nazione civile”.
Sicilia e Calabria divise dal mare. Sei d’accordo alla realizzazione del ponte sullo Stretto?
“Assolutamente si! Sarebbe un grande passo in avanti per tutta la Sicilia, avvicinarla all’Europa non solo all’Italia. Darebbe inoltre migliaia di posti di lavoro per una decina di anni. Basterebbe inserire all’interno delle stazioni appaltanti, non burocrati inutili, ma tecnici e pezzi dello stato di alto livello a garantire la “pulizia” dei lavori”.
Perché hai scelto la professione del direttore sportivo?
“Sono nato con questa passione, ho iniziato facendo il giornalista: sono stato per anni il più giovane giornalista/pubblicista della Campania e, penso, il più giovane d’Italia!. Poi sono passato dall’altra parte della barricata entrando nel cuore delle società. Da una decina di anni faccio il direttore generale, il manager di una squadra di calcio. Penso che la vecchia figura del direttore sportivo non sia più attuale. La presenza dei procuratori ha cambiato le carte in tavola. Una società di calcio ha bisogno di un manager che abbracci l’attività a 360 gradi, non solo dal punto di vista prettamente agonistico. Chi lo ha capito, ha fatto la differenza!”
Se non avessi fatto il direttore sportivo, cosa avresti voluto fare nella vita?
“Se mi facevi questa domanda dieci anni fa, ti avrei risposto nient’altro. Oggi ti dico che avrei voluto fare l’imprenditore, creare imprese innovative. E’ un’esperienza che sto facendo e mi sta dando grandi soddisfazioni. Forse è la vecchiaia che incombe …”
Palermo e Catania in C1; Messina (con ben due squadre) in serie D. Parliamo delle società delle tre città più grandi della Sicilia. Quest’anno possono ambire al salto di categoria?
“Sicuramente una delle due squadre di Messina ritornerà tra i professionisti. Per Palermo e Catania mi sembra molto più difficile quest’anno”.
Esterofilia perenne nel calcio italiano. Perché invece non si punta sul vivaio nostrano?
“Le società importanti puntano molto sui vivai, ma chiaramente la globalizzazione ha fatto si che nei settori vi siano sia italiani che stranieri. E’ un normale processo, l’importante è che tutto si svolga con il rispetto delle regole”.
Il calcio potrebbe rappresentare il volano per un’intera comunità (tra diretto ed indotto), ma in pochi investono. Qual è la tua personale spiegazione?
“Il calcio è una vera e propria azienda e deve essere gestita come tale. Bisogna gestirla come una normale attività, facendo molta attenzione ai conti senza farsi travolgere dall’umore della piazza. Budget, investimenti e risultati non sempre si allineano, pertanto la presenza di un manager è diventata fondamentale”.
Chi è stato Diego Armando Maradona?
“Per noi napoletani un mito, un’icona, colui che ci ha dato la possibilità di guardare le grandi potenze del nord senza paura, senza timore, sapendo che finalmente non eravamo inferiori. La cultura nella vita di Diego ha avuto un aspetto fondamentale, la sua assenza gli ha fatto commettere tanti errori. Era un uomo buono, umile e soprattutto generoso, ma come tutti gli uomini con tanti difetti. Penso che più di un suo amico, o presunto tale, dovrebbe vergognarsi per quello che gli ha tolto o non gli ha ridato”.
Il tuo ideale di società modello?
“L’Udinese. Ogni anno conti economici e obiettivi tecnici vengono centrati. Tifosi, stadio di proprietà, scouting d’avanguardia. I friulani hanno tutto. In ambito europeo, sotto quest’aspetto, l’Ajax non ha eguali”.
Per chi tifi?
“Il mio cuore batte per la Juve Stabia e il Napoli”.
Domanda di routine per un uomo che vive di calcio: chi vincerà lo scudetto?
“Senza ombra di dubbio l’Inter. E’ la squadra più completa, sia a livello tecnico che motivazionale”.
E se lo dice un napoletano, senza tentennamento alcuno, produce un certo clamore…

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Ipse Dixit

“Creare posti di lavoro in Sicilia per evitare che il crimine dilaghi”

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“Ho un solo augurio per l’anno nuovo: Pace. Pace nel nostro pianeta, sempre più sanguinante…”L’auspicio, legittimo e condiviso, porta la firma della dottoressa Lia Sava, attuale procuratrice generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Sempre disponibile al dialogo con gli organi di informazione, si contraddistingue per la sua pacatezza nell’affrontare qualsiasi problema, riuscendoci col giusto equilibrio. Pugliese di Carbonara (nato come paese e successivamente trasformatosi in un quartiere di Bari), Lia Sava è entrata in magistratura nel 1991. Dal 1992 al 1995, ha svolto le funzioni di pretore civile a Roma e, nei tre anni a seguire, è stata pubblico ministero alla procura di Brindisi applicata alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Il suo arrivo in Sicilia è datato 1998. Fino al 2013 è stata pubblico ministero a Palermo e dal 2001 al 2011 ha fatto parte della locale Dda.

Dottoressa, partiamo dalla sua esperienza nella nostra provincia. Lei conosce bene lo spaccato criminale gelese, per essere stata Procuratrice aggiunta presso la Dda di Caltanissetta (dal 2013 al 2018) e procuratrice generale nella stessa sede nissena (dal 2018 al 2022). Cosa ci dice in merito?

“Gela ed il suo circondario scontano problemi simili ad altri territori della nostra Sicilia e, più in generale, del nostro sud. Povertà, crisi occupazionale in prima battuta. Ed è chiaro che in questo contesto il crimine organizzato e comune, in forme anche assai spregiudicate, prospera e si rinvigorisce. Ma io vedo nel territorio gelese anche molteplici prospettive di sviluppo e di crescita. Penso, ad esempio, al settore del turismo. Che potrebbe essere una carta vincente per il futuro di molti giovani”.

C’è un episodio che l’ha profondamente colpita della sua esperienza nel Nisseno?

“Non c’è un episodio particolare. Ma c’è un ricordo che mi lega a Gela. Anzi, una serie di ricordi, non professionali ma umanamente forti. Qualche passeggiata sulla spiaggia, dopo una giornata di lavoro in Tribunale a Gela. Tramonti rigeneranti, dune di sabbia con i gigli selvatici. Bellezza semplice mozzafiato, che contrastava fino ad annientare la fatica di tante ore di lavoro”.

“Dovete armarvi con spade e scudi cioè studiare, leggere, farvi apprezzare per le vostre qualità. Fare le scelte giuste non quelle comode. Solo così potete entrare nei gruppi seri, quelli di gente che persegue gli stessi obiettivi e lì la leadership si conquista con l’esempio”. Sono le parole pronunciate ultimamente dal procuratore di Gela, Salvatore Vella, rivolgendosi ai giovani. E’ anche il suo pensiero?

“Condivido. Lo studio serio ed attento è il solo strumento valido che hanno i giovani per diventare adulti consapevoli. La lettura di buoni libri e l’amore per l’arte sono i più potenti antidoti al male”.

Quanto è importante che la politica sostenga la legalità e adotti scelte che promuovano l’educazione e la consapevolezza sul fenomeno mafioso?

“Credo che l’educazione alla legalità debba essere una priorità di tutti. Di ogni settore della società ed ogni sua articolazione. Quindi anche della politica. Ma non solo”.

Per una donna raggiungere il titolo di “giudice” può, ancora oggi, essere più difficile rispetto a un uomo?

“Se si studia con serietà e con metodo, si diventa magistrati senza differenza fra uomini e donne. Oggi poi le giovani donne magistrato sono più degli uomini”.

Papa Francesco ha più volte sottolineato che la nostra terra ha bellezze naturali e artistiche meravigliose, purtroppo minacciate dalla speculazione mafiosa e dalla corruzione, che frenano lo sviluppo e impoveriscono le risorse, condannando soprattutto le aree interne all’emigrazione dei giovani. D’accordo anche lei?

“Certo, non si può non essere d’accordo. Sono convinta, inoltre, che la sinergia fra le istituzioni può essere risolutiva ad arginare anche il fenomeno della “ fuga” dalle nostre terre. Ho fiducia che possa invertirsi la rotta. Restare e far prosperare il nostro sud non deve essere un sogno ma una possibilità concreta e realizzabile”.

La terra siciliana però continua a fare emergere (purtroppo) due elementi devastanti: l’oppressione del fenomeno mafioso e il dilagante flusso della povertà. Quali sono gli strumenti per fronteggiarli?

“Il crimine organizzato si contrasta con la diffusione della cultura della legalità. Famiglie, scuole, luoghi di lavoro, parrocchie devono essere centri propulsori di regole semplici da rispettare. Insegnarle e fare in modo che vengano osservate è obiettivo primario. Prima fra tutte: il rispetto dell’altro. La mafia è sopraffazione: antitesi del rispetto dell’altro. La miseria crescente, di contro, è un problema strutturale che richiede strategie di ampio respiro. Creare posti di lavoro è, in particolare, fondamentale per evitare che quelli che non hanno da mangiare accettino “l’offerta deviante” del crimine comune ed organizzato, innescando una spirale perversa”.

Qual è il compito dei magistrati per dare una dignità giuridica nel rispetto della Costituzione, delle leggi e delle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito al crescente tasso di miseria che accomuna tante famiglie?

“I magistrati devono fare il loro dovere, con impegno e dedizione, consapevoli che dietro ogni fascicolo c’è, frequentemente, il dolore di persone che cercano una risposta dallo Stato ai loro drammi e problemi. Sia nel civile che nel penale occorre che i magistrati diano risposte rapide e attente, consapevoli che la tutela dei diritti è centrale per la salvaguardia della democrazia. La nostra efficienza professionale è il solo modo che abbiamo, da un lato, per rendere migliore il servizio giustizia e, dall’altro, per contrastare il malaffare. Per la soluzione strutturale del problema della miseria, ovviamente, noi magistrati non possiamo fare nulla. Ma se svolgiamo nel miglior modo possibile il nostro lavoro possiamo rendere più sereni animi inquieti e sofferenti e non è poco”.

La mafia non spara più come una volta, è in atto una vera e propria metamorfosi?

“La mafia non spara perché per realizzare i suoi affari non ne ha bisogno. La strategia (ormai collaudata) della sommersione è funzionale a non scatenare la reazione forte delle istituzioni, come quella che ci fu dopo le stragi e che ha determinato la sconfitta dei “corleonesi”. A Cosa Nostra conviene non dare nell’occhio con atti eclatanti per proteggere i suoi affari più loschi. Ma attenzione, se occorre, la mafia è capace di uccidere come prima. La disponibilità di armi che hanno i clan è la prova più tangibile di questo”.

Tantissimi ragazzi si avvicinano ai clan, ringiovanendo le “famiglie”. Come legge questo dato?

“I giovani se non hanno prospettive, se passano le loro giornate con una bottiglia in mano, se non hanno modelli positivi di riferimento, diventano più facilmente preda di chi offre loro il miraggio di facili guadagni. Peraltro, giovanissimi assuntori di sostanza stupefacente, vengono frequentemente assoldati dai clan per spacciare. E sembra che la spirale del crimine si nutra di giovanissimi per distruggerne l’essenza vitale”.

Numerose inchieste hanno fatto emergere che gli stessi clan mafiosi puntano al dark web per riciclare le risorse finanziarie, approfittando della potenzialità dell’intelligenza artificiale. Quali sono gli strumenti che mettete in campo per contrastare questa nuova forma di illegalità?

“Dark web, intelligenza artificiale, utilizzo sfacciato delle cripto valute costituiscono la nuova frontiera delle strategie della criminalità organizzata. Occorre puntare su strumenti investigativi sofisticati dal punto di vista tecnico e investire sul potenziamento delle forme di cooperazione internazionale. Il dark web e l’intelligenza artificiale, nelle mani delle organizzazioni di stampo mafioso, possono agevolare grandemente la realizzazione di crimini transnazionali che devono essere contrastati in maniera efficace attraverso strategie comuni e condivise. Penso, ovviamente, in prima battuta, al narco traffico che è un’emergenza globale e che genera una spirale di morte inquietante a fronte di enormi guadagni spesso facilitati dall’utilizzo delle monete virtuali negoziate sul dark web. Il 23 maggio scorso, a Palermo, il Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, il dott. Melillo, ha organizzato uno straordinario momento di riflessione, a cuihanno partecipato magistrati ed investigatori di diverse parti del mondo, proprio su queste tematiche. Ed è stato il modo migliore, secondo me, per onorare il sacrificio di Falcone e Borsellino e degli altri nostri martiri. Il futuro delle investigazioni deve andare in questa direzione”.

La magistratura fa fronte a molteplici istanze da quello – che lei in più di un’occasione – ha definito gusto amarissimo della contraddizione. Ci vuole spiegare meglio?

“La magistratura è chiamata a dare risposte ai bisogni delle parti. I magistrati devono essere tecnicamente attrezzati, devono essere attentissimi e scrupolosi nello studio delle carte processuali. Ma non possono fare di più. Le risposte di sistema alla miseria, ad esempio, spettano alla politica e all’alta amministrazione”.

Se nella stessa magistratura si registrano numerosi problemi (interni ed esterni), tutto ciò non scoraggia il cittadino onesto e i suoi diritti?

“Se i magistrati adempiono seriamente ai loro doveri la fiducia dei cittadini ne deriva come conseguenza immediata e diretta. Ritengo che fornire con pacatezza, equilibrio, tempestività un servizio giustizia efficiente e rapido sia la chiave di volta per recuperare spazi di più ampia credibilità per noi magistrati. Non ci sono altre strade”.

Più volte lei ha riferito che “crescono le imposizioni del pizzo mascherate”. In che senso?

“In passato le mafie “chiedevano il pizzo”, magari mettendo una bottiglietta incendiaria sul cantiere. Adesso, a volte, dalle intercettazioni emerge che è lo stesso imprenditore che, prima di iniziare un lavoro, cerca il mafioso per “mettersi a posto”. Quindi abbiamo estorsioni mascherate ed il pizzo diventa “costo di Impresa”. Assolutamente inquietante ed indice di un abisso anche etico nel quale si rischia di precipitare”.

Ha mai avuto dubbi sulla sua scelta di diventare magistrato?

“Mai. È un lavoro bellissimo, che ti consente di crescere ogni giorno. Anche coltivando i valori della pazienza, dell’umiltà e della consapevolezza dei propri limiti”.

Nel corso della sua carriera, ha vissuto momenti di paura?”

“Non per me. Solo per i miei figli. Quando erano piccoli temevo per loro. Per me non ho mai avuto nessuna forma di timore. Chi fa il proprio dovere deve essere sereno”.

Chi sono stati per lei Falcone e Borsellino?

“Modelli ineguagliabili. Per intelligenza investigativa, per visione prospettica, per capacità straordinaria di indicare un percorso logico efficace nel contrasto al crimine organizzato”.

Non sarebbe opportuno che si investisse nella scuola con l’introduzione di materie specifiche e l’offerta di attività extrascolastiche come il teatro o lo sport che possono contribuire a spiegare cos’è la mafia e perché è importante contrastarla?

“Lo sport, il teatro, la musica: sono attività che, se inserite con sistematicità nei programmi scolastici, potrebbero, nelle ore pomeridiane, essere un validissimo strumento per offrire ai giovani prospettive di socializzazione e di crescita. Oltre ad essere la più costruttiva alternativa alla noia, e quindi all’abuso di alcool e droghe”.

Ad inizio intervista le abbiamo chiesto del suo personale augurio per l’anno che è appena iniziato. Le chiediamo, in chiusura, il suo auspicio per i nostri lettori.

“Salute. Serenità. E ritrovata e rafforzata fiducia nel servizio giustizia…”

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Ipse Dixit

“Valorizzare ogni progresso dei detenuti, per una vita migliore”

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Il suo ufficio raramente ha la porta chiusa. In casi estremi, solo socchiusa. Perché la stanza del direttore è la stanza di tutti, nel rispetto reciproco dei ruoli. E delle direttive. Aprirsi al confronto con il proprio gruppo di lavoro è quotidiano, sviscerane i problemi e cercarne le soluzioni, è l’obiettivo comune. Lei ascolta, chiede, incoraggia, dice “noi”, dà meriti. Gabriella Di Franco, dirigente penitenziario, è il direttore della casa circondariale di Enna, intitolata a Luigi Bodenza, l’assistente capo del corpo della Polizia Penitenziaria, assassinato nel 1994 dalla mafia. L’ingresso nella carriera dell’Amministrazione Penitenziaria per la dottoressa Di Franco, nata e cresciuta a Catania, è datato 8 Settembre 1997 come collaboratore di istituto penitenziario. Poi è stato un susseguirsi di incarichi importanti, perfettamente portati a compimento. Come nel suo costume.

Come è cambiata (se è cambiata) la sua umanità in tutti questi anni alla direzione di diversi istituti penitenziari?

“Devo ammettere che il mio percorso come direttore di varie strutture penitenziarie ha avuto un impatto significativo sulla mia “umanità”. Da 28 anni ormai, ogni giorno mi sono confrontata con storie di vita, di sofferenza, ma anche di resilienza. Ho imparato a guardare oltre le etichette e a vedere le persone con le loro fragilità e le loro potenzialità. Noi penitenziari “dimentichiamo”, in un certo senso, il reato. Questo lavoro richiede una dose di empatia e comprensione che si affina col tempo. Le sfide quotidiane mi hanno insegnato l’importanza della pazienza e della comunicazione; ho imparato a valorizzare ogni piccolo progresso e a celebrare ogni passo verso il reinserimento. Devo dire che ogni interazione, ogni storia condivisa ha arricchito la mia vita, rendendomi più consapevole e aperta. Quindi, sì, la mia umanità è cambiata: è diventata più profonda e più complessa, e credo che questo mi renda una persona migliore”.

Come interpreta il ruolo di direttore del carcere?

“Come una responsabilità straordinaria e un’opportunità unica. In primo luogo, sono consapevole che il mio compito va oltre la semplice gestione della sicurezza e della disciplina. È fondamentale creare un ambiente che favorisca la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti”.

Qual è la missione che porta avanti?

“Cerco di essere un “mediatore” tra diverse esigenze: quelle della sicurezza, del personale, dei detenuti e della comunità esterna. Questo richiede un equilibrio delicato, ma credo fermamente che il rispetto e la comprensione reciproca possano portare a risultati positivi. La mia missione è contribuire a creare un ambiente in cui le persone possano riflettere sulle proprie azioni, apprendere e, infine, reintegrarsi nella società con una nuova prospettiva”.

Quali sono gli aspetti centrali di cui un direttore del carcere deve occuparsi in particolar modo?

“Oltre che essere mediatore vedo il mio ruolo come quello di un “facilitatore”: promuovo l’accesso a progetti rieducativi, ad attività lavorative anche in collegamento con la realtà imprenditoriale esterna, progetti di supporto alla genitorialità ed alle affettività perché sono convinta che ogni persona abbia il potenziale per cambiare. Il direttore deve essere il leader che guida con empatia e determinazione, un leader orientato verso un futuro in cui la giustizia e il reinserimento in società possano andare di pari passo, in attuazione dell’art.27 della Costituzione”.

Dal suo primo incarico datato 2001 al carcere di Piazza Armerina ad oggi, cosa è cambiato?

“Il ruolo del direttore del carcere ha subito notevoli evoluzioni dagli anni 2000 ad oggi, riflettendo cambiamenti sociali, politici e culturali. Stiamo assistendo ad una sempre crescente consapevolezza dell’importanza del reinserimento e l’Amministrazione Penitenziaria tutta, pur garantendo sicurezza sociale, ha un ruolo sempre più attivo nel promuovere progetti educativi e di reinserimento, cercando di ridurre il tasso di recidiva. Il ruolo del direttore del carcere si è evoluto verso una figura più complessa e multifunzionale, che deve bilanciare la sicurezza con il reinserimento, la gestione delle risorse umane con il benessere dei detenuti e l’innovazione con le pratiche tradizionali”.

La dottoressa Di Franco, negli anni, ha diretto anche le carceri di Nicosia, Castelvetrano e Gela. Nella nostra città ha operato dal 13 ottobre del 2014 al 22 febbraio 2019.

“Il mio incarico a Gela doveva essere temporaneo (in qualità di reggente in attesa di altro direttore ed avendo io altro incarico) ma sono rimasta alla direzione di Gela per ben 5 anni!”

Cosa ricorda di quell’esperienza?

“Ricordare anni di lavoro intensi con un gruppo di lavoro straordinario è come sfogliare un album di ricordi preziosi. Ricorderò sempre le riunioni con il Comandante Francesco Salemi, gli ispettori di Polizia Penitenziaria e i capi area Contabile ed Educativa, riunioni intense in cui le idee si mescolavano, si creavano soluzioni, si trovavano rimedi e si rideva anche delle difficoltà. La sinergia ha reso ogni obiettivo più leggero. Le sfide non sono mancate, ma affrontarle insieme ha creato legami indissolubili che coltivo tuttora. Non posso dimenticare il pranzo organizzato a sostegno dell’Airc, promosso dall’Associazione Antifemo ed Entimo, i laboratori teatrali della Croce Rossa di Gela, i tanti progetti portati avanti con la scuola che hanno ha reso il lavoro più significativo. Abbiamo ripreso tante vite di persone detenute e ridato loro dignità e speranza. Non dimenticherò mai la gioia e il senso di “profonda misericordia” provato quando abbiamo portato dal Papa in visita a Piazza Armerina alcuni detenuti grazie ai preziosi volontari della Caritas diocesana. Quegli anni trascorsi a Gela hanno lasciato un’impronta indelebile. Ogni ricordo, ogni insegnamento e ogni obiettivo raggiunto hanno contribuito a rendere il mio cammino professionale e personale ancora più ricco e significativo”.

Della sua permanenza a Gela, cosa avrebbe voluto portare a compimento ed invece non è riuscita?

“Il carcere si trova in Contrada Balate e viene così indicato anche giornalisticamente. Assieme al Sindaco dell’epoca avevamo avviato un lavoro per intitolare la strada. Dal carcere avevamo proposto “via Alberto Sordi”, il celebre attore e regista italiano noto per il suo stile comico e le sue interpretazioni che spesso riflettevano le sfide sociali e culturali dell’Italia: il suo lavoro nel cinema ha influenzato la percezione del pubblico su vari aspetti della vita italiana, inclusa la giustizia e il sistema carcerario. Purtroppo la nuova denominazione della strada non fu possibile perché la strada di accesso al carcere presentava, all’epoca (e non credo si sia superato l’ostacolo), delle difficoltà burocratiche anche per la toponomastica in quanto strada interpoderale consortile non comunale. Altra cosa avviata, ma solo in una fase ideativa, e non realizzata fu quella di adottare il fontanone situato all’ingresso della via di accesso al carcere. La immaginavamo in funzione, piena di fiori e costantemente manutenzionata dai detenuti in lavoro di pubblica utilità. Un Welcome penitenziario alla città di Gela”.

Cosa invece le è riuscito?

“Ho contribuito a creare e strutturare un gruppo di lavoro apprezzato, entusiasta e motivato, incoraggiando collaborazione e lavoro di squadra. Abbiamo realizzato tantissimi progetti musicali, teatrali con la scuola e i volontari a beneficio dei detenuti. Creato un gruppo di manutentori della struttura con i quali abbiamo realizzato – ottenuti appositi finanziamenti da Cassa delle Ammende – l’area verde per i colloqui con i familiari, una nuova apertura della sala teatro, altri miglioramenti interni per gli uffici del personale e per gli spazi di vita dei detenuti, come le aule scolastiche”.

Ci racconti un particolare aneddoto della sua esperienza gelese

“In congedo ordinario, io e la meravigliosa capo area educativa Viviana Savarino, oggi attuale direttore dell’Istituto Minorile di Caltanissetta, assieme a due straordinari volontari Francesco Città e Graziella Condello, ci siamo recati da Ikea a Catania per acquistare il primo contenuto della “credenza” della Casa Circondariale: piatti, bicchieri, posate ed altro ancora. Acquisto reso possibile grazie al contributo economico della Procura di Gela, all’epoca guidata dal Procuratore Fernando Asaro, uomo che stimo profondamente e di cui ho potuto apprezzare elevatissime doti umane e professionali. Abbiamo dopo qualche giorno realizzato con i detenuti e l’Associazione Antifemo ed Entimo il pranzo di beneficenza i cui ricavati sono stati devoluti all’Airc. All’ iniziativa parteciparono Procura, Tribunale di Sorveglianza, Prefetto e le più alte cariche delle forze dell’Ordine realizzando una inedita rete di solidarietà e di vicinanza al mondo penitenziario”.

C’è stato un episodio che invece l’ha turbata?

“Non mi viene in mente un episodio in particolare. Ho il ricordo di situazioni difficili e di alta tensione affrontate insieme al gruppo di lavoro ed ai miei superiori con responsabilità mantenendo, soprattutto, la calma”.

Perché il carcere viene definito luogo di penitenza?

“Tra le tante definizioni il carcere viene definito anche “luogo di penitenza” perché rappresenta uno spazio in cui gli individui hanno l’opportunità di riflettere sulle proprie azioni e sulle conseguenze che queste hanno avuto, sia per loro stessi che per la società. In questo contesto, la “penitenza” non si limita a una punizione, ma si trasforma in un momento di crescita personale e di riabilitazione. È un luogo dove si può lavorare su sé stessi, confrontarsi con le proprie scelte e, auspicabilmente, trovare la strada verso un futuro migliore. Quindi, in un certo senso, il carcere è anche un’opportunità per rinascere e ricominciare, un aspetto che spesso viene trascurato. È un concetto che invita a riflettere sul valore della “seconda chance” e sull’importanza della responsabilità personale”.

Quanto conta nella vita dei detenuti, purtroppo, la violenza prima della carcerazione?

“Molti detenuti hanno avuto esperienze pregresse di violenza fisica, emotiva o sessuale. Le persone che hanno vissuto violenza possono essere più inclini a comportamenti antisociali o criminali, non solo come risposta alle esperienze traumatiche, ma anche come modo per affrontare o riprodurre dinamiche familiari o sociali in cui sono cresciute”.

I numeri in continuo aggiornamento, certificano in Italia l’aumento di tanta violenza, dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria. Dati sicuramente allarmanti. Come li legge e come bisogna prevenirli?

“L’aumento dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria rappresenta una questione complessa e preoccupante. Questi dati non solo evidenziano la fragilità del sistema penitenziario, ma pongono anche interrogativi sulla salute mentale dei detenuti e sul benessere del personale. Le condizioni di vita in carcere, spesso caratterizzate da isolamento, stress e mancanza di attività significative, possono esacerbare questi problemi. L’amministrazione penitenziaria e il Sistema Sanitario Nazionale collaborano ad ogni livello per garantire l’accesso a supporti adeguati. L’amministrazione penitenziaria sta investendo moltissimo nel fornire formazione al personale penitenziario su come riconoscere i segnali di disagio mentale nei detenuti e su come gestire situazioni di crisi. La situazione attuale richiede un approccio globale e multidisciplinare che consideri non solo il benessere dei detenuti, ma anche quello del personale di polizia penitenziaria”.

Ci auguriamo che ci sia un modo per far percepire il valore dell’agire responsabile, per avvicinare i detenuti alla società, per portarli a scegliere il bello della regola, a non contrapporsi allo Stato. Per rendere meno pesante la permanenza in carcere, quali sono le iniziative che mettete in campo?

“Certo, c’è un modo! Innanzitutto, è fondamentale creare un ambiente in cui i detenuti possano comprendere il valore dell’agire responsabile. Questo può essere fatto attraverso programmi di educazione e formazione che non solo insegnano abilità pratiche, ma anche valori come il rispetto e la collaborazione. Un altro aspetto importante è il coinvolgimento della comunità esterna. Organizzare attività che permettano ai detenuti di interagire con le persone al di fuori del carcere, come laboratori, eventi artistici o sportivi, può aiutarli a vedere che ci sono opportunità positive nella società e che possono farne parte. Inoltre, è utile fornire modelli di comportamento. Coinvolgere ad esempio i volontari e la scuola può essere molto motivante. Le persone detenute possono condividere le loro esperienze e comprendere che, anche dopo aver commesso errori, è possibile ricostruirsi una vita seguendo le regole. E’ poi importante richiedere ai detenuti il senso di responsabilità. Quando si sentono parte di un processo, in cui le loro scelte hanno un impatto, sono più propensi a scegliere il “bello della regola”.

Se al detenuto non si offrono le stesse cose che può trovare fuori, non si alimenta la cultura dell’essere perdente, dell’essere sconfitto?

“È una domanda delicata. L’idea di non potere offrire ai detenuti opportunità simili a quelle che possono trovare fuori non significa certo alimentare una cultura di sconfitta. Al contrario, può essere un modo per prepararli a un reinserimento positivo nella società facendo loro comprendere che si sta operando facendo tutti gli sforzi possibili. Quando si offrono programmi educativi, corsi di formazione professionale e attività ricreative, non si sta semplicemente dando loro “le stesse cose”. Si sta creando un ambiente che incoraggia la crescita personale e lo sviluppo delle competenze. Queste esperienze aiutano i detenuti a sentirsi valorizzati e a riconoscere il loro potenziale, piuttosto che a sentirsi sconfitti”.

Quanti dei detenuti che ha personalmente conosciuto, hanno realmente intrapreso una nuova vita dopo il carcere?

“Non è una grande percentuale ma ho le prove che tanti sono riusciti. In ogni caso il nostro compito, quello di instillare speranza e dare fiducia, in tantissimi casi è stato raggiunto anche con effetti resisi evidenti un po’ dopo, nel tempo”.

Perché in tanti (troppi) non riescono a redimersi definitivamente?

“La questione della redenzione dei detenuti è complessa e multifattoriale. Dopo la dimissione dal carcere, molti ex detenuti affrontano pregiudizi e discriminazione nella società, avendo difficoltà a trovare lavoro, alloggio e reintegrarsi nella comunità. Questo stigma può portare a una sensazione di isolamento e impotenza. Spesso a causa di mancanza di risorse familiari i detenuti possono avere difficoltà a costruire una nuova vita e molti detenuti hanno alle spalle esperienze traumatiche e problemi di salute mentale non trattati. Alcuni ex detenuti tornano in ambienti familiari o sociali tossici, dove la criminalità e le cattive influenze sono prevalenti”.

Come avviene nelle carceri l’uso di internet?

“Sebbene sia riconosciuto come l’accesso a Internet possa offrire opportunità significative per l’istruzione, la formazione e il reinserimento sociale dei detenuti vi è da dire, tuttavia, che vi sono preoccupazioni legate alla sicurezza, alla gestione e all’abuso potenziale di questa tecnologia. Al momento l’uso di piattaforme informatiche come ad esempio WhatsApp e Teams è utilizzato, sotto il controllo della polizia penitenziaria, per facilitare la comunicazione tra i detenuti, le loro famiglie, i loro legali, riducendo l’isolamento e fornendo un supporto emotivo importante. Attraverso le video call, dunque, le persone detenute possono colloquiare in sicurezza con i familiari, sotto il controllo solo visivo e non auditivo del personale”.

La criminalità si è ingegnata: adesso usa i droni per consegnare in volo droga e telefoni cellulari all’interno delle carceri. Ultimamente stava per accadere anche nel penitenziario che lei dirige. Come siete riusciti a stroncare sul nascere lo stratagemma criminale?

“E’ certamente una sfida complessa, poiché i criminali spesso adottano metodi sempre più ingegnosi per eludere la sicurezza. La Casa Circondariale di Enna è dotata di un buon sistema di sicurezza perimetrale con telecamere di sorveglianza ad alta risoluzione e sensori di movimento che aiutano a monitorare attività sospette e prevenire l’ingresso di droni. Il personale di Polizia Penitenziaria agisce effettuando varie attività di controllo e lavora a stretto contatto con le altre forze dell’ordine migliorando la condivisione di informazioni e la capacità di risposta. Solo attraverso sforzi combinati è possibile mitigare efficacemente questa minaccia emergente”.

Quanto le piace il lavoro che svolge?

“Ah, quanto mi piace il mio lavoro? Beh, diciamo che è un po’ come una relazione a lungo termine: ci sono giorni in cui lo adoro follemente e altri in cui mi fa venir voglia di prendere una lunga vacanza… ! In ogni caso, amo le sfide che mi presenta e la possibilità di fare la differenza, anche se a volte mi sento un po’ come un acrobata che cerca di tenere in equilibrio tutto su un filo sottile. Quindi sì, direi che mi piace davvero tanto, anche quando le cose si fanno impegnative. Diciamo che soffro di “carcerite acuta!”.

Ha mai avuto paura per l’incarico che ricopre?

“Paura? Ci sono momenti in cui la responsabilità o le tensioni sembrano un po’ pesanti e non risolvibili. Tuttavia, è proprio in quei momenti che mi rendo conto di potere contare sul mio gruppo di lavoro e le difficoltà della vita lavorativa diventano un po’ più gestibili. Quindi, più che paura, direi che provo un sano rispetto per la complessità del mio incarico, sempre pronto a gestirla con professionalità e molta calma. Ripeto spesso la parola “Coraggio!”: è un’esortazione che rivolgo a me stessa e a ciascuno di noi”.

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Ipse Dixit

L’amore per gli animali, nel lavoro di Angela Palumbo Piccionello

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Solare, disponibile al dialogo, sempre sorridente. Attenta e premurosa, non lascia nulla al caso. La dottoressa Angela Palumbo Piccionello, ama fortemente la sua professione a cui dedica anima e corpo. Negli anni ha conseguito straordinari risultati nel campo della medicina veterinaria. Attualmente ricopre il ruolo di direttore sanitario dell’Ospedale Veterinario Universitario Didattico dell’Università di Camerino e di direttore del Master Universitario di secondo livello in ortopedia e traumatologia ortopedica dei piccoli animali. Coordina inoltre la Commissione Interna per l’Eaeve (l’autorità ufficiale europea per l’accreditamento delle strutture che erogano corsi di studi in Medicina). Ha al suo attivo numerose esperienze in Florida che hanno arricchito il suo bagaglio di conoscenze in ambito sanitario. E’ stata responsabile del Comparto Operatorio dell’ospedale Veterinario didattico della scuola di Bioscienze e Medicina Veterinaria di Matelica. Diverse pubblicazioni su riviste specializzate, parlano dei suoi metodi di intervento. Lei è un’eccellenza tutta gelese. 

Quando tra i suoi colleghi parla della nostra città, cosa dice in particolar modo?

“Spiego sempre che ha avuto un passato illustre, dico anche che io ci sono cresciuta bene, circondata comunque da cultura e arte, avendo la possibilità di frequentare ottime scuole e anche ottime attività culturali extrascolastiche (danza classica, pittura, ed altro). Ammetto però, con dolore, che la città non è custodita amorevolmente dalla maggior parte dei suoi abitanti, tantomeno da chi la governa, e che purtroppo non si ha la cultura della cura della cosa comune”.

Nello specifico?

“Gli abitanti e le amministrazioni non sanno o non vogliono valorizzare tutto quello che di bello c’è a Gela. Sarebbe necessario diffondere una cultura del rispetto della cosa pubblica, stimolare e favorire la nascita di attività che investano sulle potenzialità della città: turismo, enogastronomia, natura e arte. Bisognerebbe avere dei progetti ad ampio respiro, che non guardino al profitto immediato ma poco duraturo come ad esempio pensare ancora che la raffineria possa portare benessere a lungo termine. Bisogna puntare al rilancio dell’economia green e culturale”.  

Diplomatasi al Liceo Scientifico Elio Vittorini e laureatasi in Medicina Veterinaria alla Facoltà di Parma, la dottoressa Palumbo Piccionello si è prevalentemente occupata di ortopedia veterinaria.

“L’ortopedia veterinaria, al pari di quella umana, si occupa delle malattie articolari, delle affezioni delle ossa, dei muscoli e dei tendini e legamenti. Trattiamo quindi osteoartriti/artrosi, malattie congenite, fratture, traumi dell’osso, come anche patologie tendinee, legamentose e muscolari. Da diversi anni abbiamo a disposizione mezzi diagnostici (come TC, RM e artroscopia) e terapeutici (placche standard e bloccate, protesi, mezzi di sintesi customizzati) molto avanzati e performanti”. 

Quali sono le precauzioni che i veterinari devono adottare nello svolgere le loro attività? 

“Il medico veterinario po’ svolgere diversi ruoli: la cura degli animali d’affezione come cani e gatti e cavalli, degli animali da reddito, ma anche la cura della salute pubblica attraverso il controllo igienico sanitario degli alimenti di origine animale destinati al consumo umano (latte, derivati, carne, pesce, miele). A seconda del lavoro che svolge, ovviamente, va incontro a dei rischi diversi: aggressioni da parte dei pazienti, rischi di infettarsi con malattie che rappresentano una zoonosi, cioè malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo come ad esempio la brucellosi, la leptospirosi ed altro. 

La professione del medico veterinario in Italia è generalmente svolta con passione e dedizione, ma è senza dubbio un lavoro complesso e faticoso, che presenta diversi rischi anche per la salute del professionista”. 

L’autunno è arrivato. Quali sono le raccomandazioni generali da dare ai proprietari di animali da compagnia per proteggerli dal cambiamento climatico?

“L’autunno è il preludio di piogge, venti e abbassamento delle temperature, è importante rendersi conto che alcuni animali, soprattutto quelli a pelo corto, non sono in grado di sopportare temperature rigide invernali; pertanto, è importante prevedere che essi possano, almeno la notte, essere riparati in cucce o ricoveri adeguatamente coibentati. In luoghi dove gli inverni sono particolarmente rigidi sarebbe opportuno ricoverare gli animali al chiuso. Si consideri inoltre che la termoregolazione prevede un dispendio di calorie e pertanto gli animali dovranno essere adeguatamente alimentati”. 

Si parla tanto di crisi climatica e di instabilità internazionale che incidono sull’approvvigionamento delle materie prime per l’alimentazione animale. Secondo lei potrebbero generare sulla salute degli animali zootecnici e dunque sull’approvvigionamento degli alimenti per l’uomo?

“L’argomento cambiamento climatico è piuttosto complesso, è dimostrato che l’eccessiva intensificazione degli allevamenti abbia causato, nei paesi occidentali, un aumento esponenziale della produzione di Co2 e dell’inquinamento in generale e questo incide negativamente sul cambiamento climatico, anche se non è ovviamente l’unico fattore incidente. Se poi, invece, parliamo degli effetti di questo cambiamento climatico, certamente, purtroppo, alluvioni o siccità prolungate distruggono i raccolti e di conseguenza gli approvvigionamenti di foraggi per gli animali da reddito. A cascata questo incide sulla salute degli animali ed anche sull’uomo stesso che avrà meno materie prime alimentari”.

Fino al 31 marzo del 2025, è in vigore l’ordinanza commissariale per il contrasto alla Peste Suina Africana. Di cosa si tratta nel dettaglio e perché crea tanto timore la Psa?

“La peste suina africana è una malattia indotta da un virus che colpisce i suini e cinghiali selvatici e causa un’elevata mortalità negli animali da essa infettati. Questo virus è innocuo per l’uomo, ma provoca notevoli danni socioeconomici. A causa del decesso degli animali si hanno perdite economiche anche ingenti ed inoltre le restrizioni agli spostamenti dei maiali e dei loro derivati e il costo delle misure di controllo, incidono ulteriormente sulla perdita economica che ne deriva. L’eradicazione della malattia è difficile e può richiedere diversi anni. Non ci sono vaccini né cure. La Psa è endemica in alcuni stati Africani, ed è in quei luoghi che è stata scoperta e per questo ne prende il nome. Fino al 2007, in Europa era confinata solo in Sardegna; tuttavia, nel 2007 si verificarono focolai in Georgia e la malattia si diffuse ai Paesi limitrofi, colpendo maiali e cinghiali selvatici. Nel 2014 vennero segnalati i primi focolai nell’Unione europea, tra i cinghiali selvatici degli Stati baltici e della Polonia. Da allora la malattia si è diffusa ad altri Paesi dell’Unione Europea e ai Paesi terzi confinanti e negli ultimi anni si sono verificati focolai anche in Asia, Oceania e in alcuni Paesi americani. Quest’anno sono stati rilevati focolai nel nord Italia, ecco perché le restrizioni sanitarie si sono inasprite”. 

E’ corretto se scriviamo che la medicina veterinaria funge da barriera sanitaria perché ha la prevenzione del rischio nel suo Dna professionale?

“Il medico veterinario è all’apice della scala di prevenzione delle malattie che si possono trasmettere da animale a uomo e viceversa (zoonosi).  Egli conosce le vie di trasmissione delle malattie, ha il compito di sorvegliare e monitorare gli allevamenti e gli stabilimenti che producono derivati animali, svolge anche informazione e prevenzione verso gli operatori del settore e segnala e denuncia le frodi e gli illeciti. Pertanto, certamente si può affermare che la salute dell’uomo dipende tantissimo dal medico veterinario”.

Quali sono gli elementi fondamentali al fine di garantire che gli animali da allevamento siano trattati in modo etico e rispettoso del loro benessere?

“La volontà di fare più profitto possibile con gli allevamenti di animali da reddito ha portato ad una intensificazione del numero dei capi detenuti in spazi molto limitati e quindi in condizioni igienico sanitarie precarie. A tutto ciò si aggiunge che lo stress dovuto alla poca possibilità di muoversi, alla presenza di deiezioni e sporco, alla impossibilità spesso di giacere e sdraiarsi in posti adeguati, induce una diminuzione delle difese immunitarie e quindi malattie, ma anche un calo delle produzioni. Questo, a cascata, porta all’utilizzo di farmaci e altri trattamenti sugli animali i cui residui possono essere presenti negli alimenti derivati che l’uomo ingerisce.  Negli ultimi anni si porge molta attenzione al benessere degli animali da reddito. Esistono leggi precise che regolamentano, ad esempio, quanto spazio deve avere ogni capo allevato, vietano determinate procedure cruente o che creano sofferenza all’animale.  Le condizioni quindi sono migliorate, ma c’è ancora molto da fare. Il progresso in questi termini dipende anche dalla sensibilità della società verso questo tema”.

Avere un amico a quattro zampe richiede una grande responsabilità per la cura, le sue esigenze e i suoi potenziali problemi di salute. Quali sono le malattie più frequenti tra gli animali domestici?

“Un animale domestico è prima di tutto un essere vivente e come tale può andare incontro a malattie e sofferenze. Chi decide di prendere un animale da compagnia deve essere consapevole che dovrà prendersi cura del suo benessere psico-fisico. E’ un impegno non da poco, poiché si deve fare in modo che stia in un ambiente adeguato, che non soffra per il freddo o per il caldo (chiuso in balcone d’estate), che possa muoversi, che abbia possibilità di interazione con simili e con l’uomo, che non abbia possibilità di farsi male ( se lasciato libero per strada), che venga alimentato adeguatamente e tanto altro. Se ci si prende cura con attenzione di questo essere vivente, le possibilità che si ammali si riducono, ma ovviamente come anche l’uomo, potrà ammalarsi di malattie infettive o anche congenite o di altra natura. E’ sempre bene, quando si prende un animale domestico, andare dal veterinario che saprà dare i giusti consigli sanitari e anche gestionali”.

Esistono condizioni patologiche talmente gravi e complesse che a volte la miglior soluzione è rappresentata da un immenso gesto di coraggio del proprietario: ovvero far sopprimere il proprio animale, ricorrendo all’eutanasia. L’animale cosa sente in quel momento e perché è consigliato farla?

“Al giorno d’oggi le procedure diagnostiche e mediche che si possono eseguire sugli animali sono tantissime ed estremamente performanti; esse consentono di poter trattare la maggior parte delle malattie che affliggono i nostri animali. Detto questo, ci sono però circostanze in cui la medicina non può arrivare; neoplasie incurabili, gravi insufficienze di organo, traumi estesi multipli, malattie infettive di cui non si conosce la terapia, portano sofferenza al paziente, dolore e frustrazione per il proprietario e a volte anche per il medico veterinario che sa di non poter far nulla per farlo stare meglio. Solo in questo caso, cioè quando non esiste cura o trattamenti che allievino la sofferenza del paziente, è consentito eseguire una eutanasia compassionevole. Il paziente viene messo in anestesia generale, prima di inoculare il farmaco che induce l’eutanasia; pertanto, esso non sente alcun dolore o sofferenza”. 

Soprattutto i cani amano esplorare, annusare e, talvolta, mangiare tutto quello che trovano durante una passeggiata o quando sono liberi all’aperto, così come quando si trovano in casa o in giardino. Purtroppo, però, può capitare che ingeriscano sostanze o prodotti per loro tossici e, per questa ragione, che vadano incontro ad un avvelenamento. Cosa bisogna fare nell’immediato?

L’ingestione di corpi estranei (spago dell’arrosto, calzini, palline, tappi di sughero, noccioli di frutta) o sostanze velenose (agenti chimici, grandi dosi di cioccolato, uva, piante velenose, ed altro ancora.) è una evenienza molto comune soprattutto nel cane, specialmente se cucciolo. Se ci si accorge che il proprio animale ha ingerito qualcosa di non edibile, si deve correre dal medico veterinario, che saprà farlo vomitare, estrarre il corpo estraneo e/o trattarlo dal punto di visto medico, fino anche ad inoculare l’antidoto qualora esista”.

Quali sono le sostanze velenose per gli animali domestici? 

“Le sostanze velenose sono tutte quelle che lo sarebbero anche per l’uomo, ma anche il cioccolato e l’uva”. 

Ha animali in casa?

“Io e mio marito siamo entrambi medici veterinari, dopo anni in giro per il mondo, abbiamo costruito una casa in campagna con un po’ di terreno. Abbiamo così diversi gatti, due cani, quattro pecore e quattro galline. Ognuno svolge un ruolo utile per la casa: i gatti tengono lontani i topi, le pecore mangiamo l’erba, le galline fanno le uova e i cani ovviamente fanno la guardia. Noi ci prendiamo cura di loro con dedizione e attenzione e riceviamo in cambio tanto affetto. Siamo riusciti ad ottenere una bella armonia e siamo tutti felici”. 

Ci racconta un aneddoto del suo lavoro?

“In 24 anni di professione avrei tantissimi aneddoti da raccontare, me ne viene uno in mente in particolare. Alcuni anni fa mi riferirono del caso di una volpe selvatica, raccolta dal personale autorizzato e condotta presso l’Ospedale Veterinario Universitario dove lavoro,  rinvenuta in fin di vita sul ciglio di una strada provinciale probabilmente investita. Prestate le prime cure di emergenza, bloccate le emorragie e stabilizzato il paziente, ci si accorse che un arto presentava diverse lesioni profonde, non aveva più sensibilità (aveva quindi una grave lesione neurologica) né mobilità e presentava diverse fratture. Attendemmo alcuni giorni, somministrando le adeguate terapie e medicazioni nella speranza che riprendesse la sensibilità dell’arto, alle fratture ci avrei pensato io successivamente. Purtroppo, le condizioni dell’arto peggiorarono, tanto che se avessimo aspettato ulteriormente si sarebbe potuto compromettere anche la vita del paziente. Alcuni colleghi, essendo quel paziente un animale selvatico e dovendo quindi per ragioni etiche essere rimesso in libertà, suggerirono di sopprimerlo e dare fine alle sue sofferenze. La volpe però era giovane, mangiava, era vigile, mostrava voglia di vivere e così decisi, insistendo anche con le autorità competenti, di amputare l’arto, argomentando che avevo avuto diversi pazienti (domestici) che per cause traumatiche avevano perso l’arto e che avevano ripreso a correre e alcuni anche a cacciare senza difficoltà. La amputai e la tenni ricoverata alcuni giorni al fine di monitorare il suo andamento clinico. La volpe si riprese benissimo, si rimise in forza. E ottenute le dovute autorizzazioni (gli animali selvatici sono dello Stato e ci sono degli enti preposti che li tutelano e che in caso di problematiche complesse li portano, nelle Marche, nel nostro Ospedale) la liberammo in un bosco non troppo lontano da dove io abito. Il luogo era nelle vicinanze di dove era stata trovata. Sentivo di aver fatto la cosa giusta, ma temevo che avrebbe potuto avere difficoltà a procacciarsi il cibo o a difendersi e scappare da potenziali predatori.  Come per magia, alcuni giorni dopo me la ritrovai dietro la recinsione di casa mia, come poteva sapere dove stessi? Eppure, era lei, impossibile non riconoscerla aveva solo tre zampe! Per anni ogni tanto mi veniva a trovare e io sapevo che lo faceva per segno di riconoscenza e per farmi stare tranquilla mostrandomi che stava bene. Non provai mai ad addomesticarla, non sarebbe stato giusto, avevo troppo rispetto di lei, della sua vita e del suo essere libero. Ci guardavamo, ci salutavamo e poi tornavamo alle nostre cose. Gli animali sono estremamente riconoscenti e riconoscono davvero le persone che vogliono aiutarle, tanto da affidarsi pienamente”.  

Perché ha scelto la medicina veterinaria? 

“Generalmente chi sceglie di studiare medicina veterinaria ha un grande amore per gli animali e il desiderio di curarli e farli star bene. Io, sin da bambina, ho avuto questo desiderio. E’ bene sapere, però, che è un percorso di studi faticoso e anche la professione richiede continui aggiornamenti e investimenti, nonché un impegno fisico e mentale elevato, poiché spesso si è chiamati a gestire anche emergenze durante i momenti liberi che si vorrebbe dedicare al riposo o alla famiglia”. 

Il consiglio che vuole dare a chi si affaccia al mondo della medicina veterinaria?

“Svolgere il lavoro di medico veterinario è bellissimo, curare gli animali che sono esseri semplici e sensibili è molto gratificante. Gli studi e il lavoro sono duri. I proprietari degli animali, involontariamente, riversano tantissime frustrazioni ed aspettative sul medico veterinario, che si trova sovraccaricato di responsabilità. E’ necessario quindi tanta dedizione e un carattere adeguato”. 

Riprendiamo da dove eravamo partiti, dalla nostra città. Quelle volte che torna a Gela, cosa fa?

“Amo sempre tornare a Gela che sento ancora, dopo più di 30 anni fuori, come casa. Purtroppo riesco a farlo sempre meno. Quando sono a Gela mi occupo primariamente di trascorrere del tempo con i miei cari (familiari e amici di lunga data) e nel tempo libero vado al mare”. 

Cosa le piace di Gela?

“Mi piacciono i suoi paesaggi, la spiaggia sconfinata, i meravigliosi tramonti, la forza e l’orgoglio di noi gelesi”. 

Cosa le manca di Gela? 

“I miei cari, il mare e quella spensieratezza che ha accompagnato la mia giovinezza…”

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
Testata giornalistica: G. R. EXPRESS - Tribunale di Gela n° 188 / 2018 R.G.V.G.
Publiedit di Mangione & C. Sas - P.iva: 01492930852
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