Avevo da poco terminato il mio lavoro: ascoltare in cuffia il radiogiornale della Rai e trascrivere su una Olivetti Lettera 92 di colore rosso, le notizie più importanti. C’era un telegiornale da preparare e da mandare in onda. Il tempo scorreva inesorabilmente e la redazione di via Colombo, all’ultimo piano di un vecchio stabile da cui si osservavano i movimenti del mare, addolciti dalla nitidezza del tramonto d’autunno, era perennemente avvolta da una cappa di fumo sprigionata dai colleghi più anziani. Fumavano tutti, quasi fosse un obbligo morale. C’era pure chi riaccendeva la sigaretta nonostante ne avesse una ancora poggiata sul posacenere, inalata poco prima per pochi secondi e destinata ad un’agonia perenne, assieme a tutte le altre cicche lasciate in uno stato di abbandono. Come fossero candele, indirizzate al proprio destino.
Alla sigla del tg, mancavano pochi muniti. La telecamera era accesa, pronta. Come sempre. Le veline erano poggiate sulla scrivania. L’apertura era destinata alla pagina politica. Non mancavano le notizie di cronaca spicciola e quelle dedicate alla sanità. Normale amministrazione, si dice in questi casi. La scaletta dei servizi era stata consegnata ai tecnici della regia. Tutto pronto. Ore 20.30, si parte. Come ogni giorno, a volte con qualche minuto di ritardo per l’eccesso di combinazioni pubblicitarie. Partiti. Dal benvenuto della giornalista in studio ai telespettatori, sono passati poco meno di cinque minuti quando in lontananza sentiamo un suono inequivocabile, purtroppo familiare per i costanti avvenimenti delittuosi: sono sirene della polizia o dei carabinieri, forse di un’ambulanza. Le sentiamo sempre più vicine ma non le vediamo.
Potrebbero essere ovunque. Ci si precipita a telefonare. In redazione erano presenti quattro Sip sirio di colore bianco, uno per ogni postazione di lavoro. Non risponde nessuno tra le forze dell’ordine. Era già un indizio. Preoccupante. Poggiata sul davanzale di una finestra, per catturare meglio la ricezione, avevamo una radio ricetrasmittente portatile collegata sulle frequenze delle forze di polizia. In quel tempo, anche se tassativamente vietato, ogni redazione ne era dotata. La si usava all’occorrenza. Silenzio, qualcuno parla. Nonostante il fruscio imperante, riusciamo a capire due parole: via Verga. E poi ancora fruscio interrotto dal silenzio, quasi assordante. L’ossimoro è servito. E poi niente più. Si parte a bordo di una Fiat Panda con quasi 100 mila chilometri di onorata carriera alle spalle e con le sospensioni agonizzanti. Si perde solo qualche istante per sistemare la telecamera per le riprese esterne, accompagnata dal faro in dotazione, da un’enorme batteria di alimentazione e dal registratore in vhs a cui è collegato il microfono, reduce da mille battaglie ma sempre funzionante. A volte. Via Verga: ore 20.45. Non si passa. Dall’angolo di via Giacomo Matteotti, nei pressi della scuola Santa Maria di Gesù, all’angolo opposto di via Ierone, la zona è presidiata. Tutte le auto incolonnate quasi a rappresentare un serpentone d’acciaio. Immobile. Qualcuno prova a divincolarsi, ma senza successo. Qualcun’altro prova ad affacciarsi dai balconi per capire cosa è accaduto. Alla vista della telecamera, tornano indietro. E si barricano, spegnendo perfino le luci domestiche. Calano le tenebre. Si scorge nei pressi del marciapiede, a pochi passi dal civico 98, una macchina, crivellata di colpi. C’è del sangue. Qualcuno è stato colpito. Si riesce ad immortalare la scena. E’ un agguato. E non si tratta di faide tra clan rivali, cosi come funestamente e costantemente ci si era abituati dal 23 dicembre del 1987, dal duplice omicidio di Salvatore Lauretta ed Orazio Coccomini, che – di fatto – inaugurò la guerra di mafia tra Cosa Nostra e Stidda per il predomino totale del territorio. “Qui – sussurrò un carabiniere visibilmente affranto – non si sono sparati tra di loro”. La mafia aveva alzato il tiro. Era stato colpito a morte un commerciante. In quel preciso momento, si era spenta anche la speranza della gente per bene. Flebile ma ancora esistente e che aveva assistito, inerme ed impotente, ai numerosi morti ammazzati per le vie cittadine, in una sorta di Far West autoctono, tra i sodali di Giuseppe Piddu Madonia e gli acerrimi nemici del clan di Salvatore Iocolano, culminata nel massacro della famiglia Polara del 22 dicembre del 1988 (morti il capomafia Salvatore, la moglie e i due figli di 16 e 17 anni) e la strage della sala giochi del 27 novembre del 1990 (8 morti e 7 feriti in quattro agguati simultanei). Gela aveva pianto anche una vittima innocente: la casalinga Grazia Scimè, il 12 settembre del 1988, in piazza Salandra, fu assassinata da killer senza scrupoli che spararono all’impazzata per colpire un loro nemico, che riuscì a salvarsi. Un bollettino di guerra con cadenza giornaliera. “Gela, l’anticamera dell’inferno”, si leggeva sui quotidiani, a nove colonne. Il nero dell’inchiostro intriso del rosso sangue, in una miscela esplosiva che aveva reso la città insicura, afflitta, sgomenta. Impaurita ancora di più: perché quella sera, in via Verga, nei pressi dell’ex carcere, avevano ucciso il profumiere Gaetano Giordano. Di brigatista memoria, “colpiscine uno per educarne cento”. Il telegiornale fu stravolto. Le immagini erano forti, crude, reali nella loro essenza. Il servizio fu affidato al collega Gianni Licitra. La sua voce era vacillante, come se non credesse a quanto accaduto.“Giordano e figlio stavano scendendo dalla Panda Fire 750 di colore blu quando due sconosciuti in sella ad un vespino e con i volti scoperti li hanno affrontati sparando una decina di colpi di pistola calibro 9 corto. Cinque hanno raggiunto il commerciante al petto, uno dei quali molto probabilmente gli ha trafitto il cuore. Uno ha colpito il figlio ad un gluteo con foro di uscita all’inguine. Quattro invece sono andati a vuoto. L’agguato pare non abbia avuto testimoni. I sicari sono stati aiutati dalla scarsa illuminazione della strada di via Verga, garantita solo da piccole lampade al neon e interessata da qualche giorno ai lavori della posa in opera di tubazioni e rifacimento del manto stradale…” Giordano aveva pagato con la morte perché si era ribellato al pizzo, assai dilagante in città. Soldi che facevano gola ai clan. In quel periodo tutti erano sottomessi ai soprusi della mafia. E dinanzi alle investigazioni, alle prove provate, ai loro nomi scritti sul libro mastro rivenuto nel quartiere Bronx, con tanto di uscite da elargire ai boss, tutti negavano. Per il quieto vivere – diranno successivamente -. In pochi (contati sulle dite di una mano) ebbero il coraggio di denunciare. Era troppa la paura per le ritorsioni che si potevano subire. “E’ troppo grande per noi la mafia, è troppo grande. Queste sono le nostre armi, speriamo di potercela fare, ma la mafia è troppo grande” disse, singhiozzando, una studentessa collocando un mazzo di fiori sulla saracinesca del negozio di Giordano, in corso Vittorio Emanuele, giorni dopo l’assassinio. “Le nostre armi”, in quella circostanza, erano rappresentate dalla voglia di cambiare, nel segno della legalità, una città che stava sprofondando sempre più nel baratro, abbandonata anche dallo Stato e dalle sue massime espressioni istituzionali. “Quel commerciante aveva il diritto di essere tutelato. E’ stato forse uno dei pochi che è riuscito ad abbattere il muro dell’omertà. Dobbiamo cambiare, questo è l’inizio di una lotta”. L’esortazione di un altro studente, divenne quasi uno slogan, condiviso da tutti gli altri. Adesso quei ragazzi (sono passati trent’anni), sono padri, madri di una nuova generazione che si affaccia al mondo e di cui conosceranno tutte le insidie che sono nascoste. I giovani di oggi lo hanno capito ed ampiamente dimostrato giorni addietro, scendendo in piazza per dire no alla spirale di violenza che ultimamente si è consumata a Gela. Il procuratore Fernando Asaro si è pubblicamente complimentato con loro, definendo il corteo che si è snodato per le vie cittadine, “un esempio per tutti noi” e ribadendo che “bisogna allontanare i tentacoli della criminalità, percorrendo l’autostrada che conduce alla denuncia e non più il viottolo di campagna che non porta da nessuna parte. Lo stato c’è!” “Lo Stato c’è!”. L’imperativo avremmo voluto toccarlo con mano anche noi trent’anni fa e non solo sentirlo e strombazzare a fatti avvenuti, come fosse un ritornello imparato a memoria, da eminenti rappresentanti istituzionali. Grati alle forze di polizia che in quegli anni di piombo hanno svolto un lavoro egregio, in un contesto altamente inquinato dalla presenza mafiosa ma senza le dovute e necessarie risorse (uomini e mezzi) hanno dovuto combattere una guerra impari, persa in partenza. E delle lacune accusate dallo Stato, la mafia ci ha sguazzato, impadronendosi del vasto territorio e imponendo la forza del più forte. Colpiti ed affondati. Quando e come decidevano i capi. “A Gela si deve pagare! L’omicidio di Giordano è stata la risposta che ha voluto dare la Stidda…” sentenziò il collaboratore di giustizia, Emanuele Celona, personalmente intervistato anni fa anche sull’efferato delitto del commerciante. Purtroppo si decideva e si agiva nell’immediato e non c’era niente e nessuno che potesse fermarli. Erano pronti a tutto. Gela era diventata cosa loro. Negli anni a seguire, numerose sono state le battaglie vinte dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, che hanno inchiodato alle loro responsabilità mandanti ed esecutori di fatti datati, in quelle che potremmo definire a tutti gli effetti dei veri e propri “Cold case”. Qualcuno si chiederà come mai prima no e dopo si. La risposta è insita: perché è cambiata la percezione di cosa è il fenomeno mafioso, di come si combatte, quali strumenti usare e soprattutto perché lo Stato è attento e in determinati casi scrupoloso. L’invito alla denuncia del malaffare è una costante, sta soltanto alla popolazione seguirlo. In ogni campo. Privare la libertà di qualcuno è da rappresentare a chi è deputato a garantirla. E’ assolutamente vero (lo raccontano le cronache quotidiane) che c’è ancora tanto da fare perché insiste ancora una subcultura criminale da fare rabbrividire, quasi un’isteria collettiva del crimine, ma la strada è stata tracciata. Le convocazioni quasi mensili del comitato provinciale per l’ordine pubblico, da parte del Prefetto, dimostrano un’attenzione particolare sul territorio. Tra poco saranno installate nuove telecamere di videosorveglianza, un grande occhio sulla città. Funzionanti, perché quelle attualmente presenti dormono dalla loro collocazione. I vertici locali della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, sono sempre presenti e non demandano, accogliendo tutti nei loro presidi, perché quello stesso presidio di legalità è anche del gelese. Le porte del tribunale sono aperte, i magistrati sono sempre vigili ad ogni reato che si configura. Però bisogna stabilire se realmente si vuole cambiare lo stato delle cose. Perché un conto è gridarlo in piazza, un altro è consolidarlo nelle sedi opportune, in fase di denuncia. Per una Gela che non deve più piangere un altro Gaetano Giordano. “Vogliamo un futuro migliore per i figli”, c’era scritto su uno dei tanti cartelloni di denuncia (contro uno Stato assente) in occasione dei funerali del commerciante in una chiesa Madre gremita. Lo vogliamo tutti, oggi più che mai. Con forza. La stessa che ha avuto la vedova Giordano, che nel ricordo del marito, ha scelto di rimanere a lavorare a Gela, riuscendo a trasformare il proprio immenso dolore in un impegno costante a favore della comunità gelese e non solo. ..