Ipse Dixit
Parla il Questore: “Impegno costante contro la criminalità. A Gela, poca collaborazione sul fronte antiracket”
Pubblicato
3 anni fail

Schietto, diretto; assolutamente poco incline al contorto. E all’artificioso. Il suo ragionamento è limpido. Con stile e garbo. Parlare col Questore di Caltanissetta, è un vero piacere. Perché quando ti trovi a conversare con un servitore dello Stato, analizzi in fondo quello che dice, frutto di innumerevoli interventi sul campo a combattere l’illegalità, purtroppo ampiamente diffusa dalle nostre parti. E non solo. Emanuele Ricifari scatta una foto limpida delle sue esperienze, entrando nel particolare, attraverso un’accurata esposizione di fatti, numeri, nomi e circostanze.
Partiamo proprio dalle radici. Lei catanese doc, finalmente è ritornato in Sicilia, dopo avere attraversato l’Italia in lungo e in largo. Possiamo definirlo il coronamento di un sogno?
“Per me, siciliano, oltre che una soddisfazione è una “restituzione” che dovevo alla mia gente e alla mia terra. Misurarmi con i problemi e le emergenze e farlo dove sono nato e cresciuto era dovuto”
Penultima tappa, è stata la Questura di Cuneo
“L’esperienza a Cuneo è stata la prima da Questore “titolare”. Si tratta di una provincia molto estesa – più della Liguria – con 247 comuni con un contesto socio economico tra i più ricchi e ben amministrati d’Italia. La disoccupazione in tempi di crisi supera di poco il 3%. Gode di un territorio molto bello. Le Alpi marittime gestite con cura dall’ente Parco, le colline delle Langhe e del Roero… terre di vini – i piemontesi – tra i più celebrati. Paesi con rocche medioevali custoditi come bomboniere. Clima temperato dalla poca distanza dal mare. Un’industria meccanica e robotica di livello internazionale e soprattutto un settore agroalimentare d’eccellenza. Il dolciario (Ferrero, Balocco, Maina, Venchi, tanto per citarne alcuni) e la produzione casearia; l’allevamento della razza fassone, la coltura e la cultura del tartufo bianco di Alba.
Insomma, un contesto ritrovatosi poverissimo e devastato nel dopoguerra e che grazie a generazioni illuminate votate alla fatica e all’impresa familiare e di comunità hanno fatto un vero miracolo per la propria terra, rendendola una delle aree più floride del mondo. Ed in questo quadro vi è una profonda coscienza civile e senso del bene comune che di per se concorrono a realizzare sicurezza. Eppure ci sono dati che ci dicono che questo benessere attrae il malaffare. Furti in ville o aziende, truffe e tentativi di infiltrazione di consorterie criminali (soprattutto calabresi, di etnie nomadi o di origini dell’est Europa)”
Ha lavorato anche a Roma alla Direzione Centrale Anticrimine. Se non sbaglio, è un posto a cui tutti ambiscono…
“In effetti il primo incarico da dirigente superiore (è il grado per fare il Questore in una provincia) è stato di fondare il servizio anticrimine della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato. Un servizio che da un lato svolge analisi sui vari fenomeni criminali in ambito nazionale e provinciale in ausilio e indirizzo delle questure e dall’altro sviluppa un’attività di indirizzo e impulso per le misure di prevenzione personali e patrimoniali e di contrasto e prevenzione della violenza di genere e domestica. Il tutto all’interno della Direzione Centrale che, tramite il Servizio Centrale Operativo, coordina le squadre mobili e le attività investigative più rilevanti a livello interprovinciale e nazionale e il servizio controllo del territorio che fa da impulso e coordinamento agli uffici di prevenzione generale e soccorso pubblico: in una parola, alle volanti”.
E’ stato anche a capo della squadra mobile di Piacenza, la città più lombarda dell’Emilia Romagna così come viene definita dagli stessi piacentini. Cosa porta in sé di quel periodo?
“Ho trascorso a Piacenza ed in Emilia Romagna, tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000, uno dei periodi più emozionanti ed impegnativi della mia carriera. Indagini su consorterie albanesi che gestivano la tratta e il racket della prostituzione, indagini su infiltrazioni e traffico di stupefacenti sui cutresi e sul gruppo di Grande Aracri (broker internazionali degli stupefacenti) oggi in carcere e da me arrestato la prima volta a Piacenza nel 1996. Poi ricordo le diverse indagini su omicidi, sempre coronate con l’arresto dei responsabili ed un primato della quasi totalità delle rapine in banche e uffici postali, che in quell’epoca erano molto frequenti. Infine e con grande partecipazione, rievoco le indagini sui casi di violenza sessuale anche di gruppo e su quelli di gravi violenze domestiche nei quali, tra i primi, rivolgemmo un’attenzione mirata e di sostegno personale alle vittime che, considerati i successi ottenuti, furono determinanti per le successive modifiche legislative e la logica di rete di sostegno che si è affermata negli ultimi anni con la normativa sul codice rosso”.
Dicevamo che ha girato lo Stivale, da Nord a Sud. Tappe importanti sono state anche Catania e Reggio Calabria, zone caldissime in ambito criminale….
“Catania in realtà è stata un’esperienza brevissima e legata al X reparto mobile (ex celere) dove fui assegnato appena terminato il corso di formazione dopo il concorso nel giugno del 1989.
Fui infatti subito mandato in missione a Reggio Calabria, che era nell’occhio del ciclone per la triste stagione dei sequestri di persona e per la guerra di ‘ndrangheta che in un bagno di sangue vide consumarsi centinaia di omicidi in pochi anni. Lavorai alle volanti e non smettevo mai. Il mio entusiasmo e quello di diversi giovani colleghi, ci portava a staccare dalla direzione del turno e a continuare mettendoci a disposizione della Squadra Mobile per ogni attività operativa che ci consentisse di fare esperienza e acquisire sul campo le competenze. Fu un’esperienza ricchissima e determinante”.
A Brescia, per 9 anni consecutivi, ha ricoperto l’incarico di vice questore. Le cronache raccontano di momenti di tensione e violenza, nel 2010, a seguito della protesta di alcuni extracomunitari che avevano occupato una gru in piazzale Battisti, spalleggiati dai centri sociali della sinistra antagonista. Lei fu minacciato e diffamato e per oltre dieci mesi (assieme alla sua famiglia) fu scortato dai suoi colleghi.
“Brescia è anche la città dove poi mi sono stabilito e ho preso casa. Segno che tra la gente del capoluogo lombardo mi sono trovato bene. Paradossalmente proprio gli eventi cui conseguirono le minacce da parte della galassia anarco autonoma e dei centri sociali e delle frange più violente e pericolose dell’anarco insurrezionalismo, rese pubbliche sui social, determinarono la reazione di tutto il mondo politico democratico e liberale, di centinaia di cittadini, studenti, stranieri, dei sindacati solidali con me e i miei familiari. Questo mi ha dato la sensazione di avere la gente e le istituzioni vicine e che la campagna di fake anche violenta contro di me era un boomerang”.
Facciamo un ulteriore passo indietro: nel 94/95 ha fatto parte del gruppo di lavoro sui delitti della Uno bianca, presieduta dal Prefetto Achille Serra. Avere poi scoperto che gli esecutori dei numerosi delitti, erano dei poliziotti, cosa le ha provocato?
“Quella di Bologna fu un’esperienza molto formativa e triste allo stesso tempo. Io arrivai subito dopo gli arresti per integrare la commissione d’inchiesta interna presieduta dal Prefetto Serra e lavoravamo in parallelo al gruppo investigativo che svolgeva l’indagine giudiziaria. Capimmo nel tempo e nell’approfondimento dell’inchiesta, che non c’erano misteri o grandi vecchi dietro, solo una personalità – quella di Fabio Savi – molto forte e capace di influenzare quella degli altri, viziata dal mito della “volontà di potenza” e da una spregiudicatezza che li fece sentire invincibili. Erano soggetti con personalità devianti e violente. Purtroppo nelle indagini delle diverse procure romagnole e marchigiane vi furono scarso coordinamento e forti contrasti tra organi inquirenti … L’inchiesta amministrativa le mise in luce chiarendo fatti e contesti. Una sequenza e una somma di inefficienze e di inutili concorrenze”.
Accendiamo i fari sulla nostra provincia. Sono ben quattro i mandamenti presenti. Come si adopera la Polizia per contrastarli?
“L’impegno nel contrasto alla presenza delle organizzazioni malavitose specie di stampo mafioso è sempre intenso. La Direzione distrettuale antimafia della Procura di Caltanissetta segue le nostre attività investigative con attenzione e coordina le indagini dei diversi organismi di polizia, guardia di finanza e carabinieri che non interrompono mai il monitoraggio e l’analisi informativa e investigativa sui diversi gruppi. Non parliamo solo dei quattro storici mandamenti di Cosa nostra (Gela, Vallelunga Pratameno, Riesi e Mussomeli, ndr) ma anche di gruppi di stiddari o di malavitosi appartenenti a gruppi di altre province che operano soprattutto nel traffico e spaccio di stupefacenti e reinvestimento dei capitali illeciti.
Alta l’attenzione anche sui fenomeni estorsivi o sul tentativo di condizionare i mercati agricoli e la distribuzione delle risorse idriche. Purtroppo anche l’insufficiente organizzazione o talvolta l’inefficienza di alcune pubbliche amministrazioni ed enti pubblici favoriscono deviazioni che alimentano il malaffare”.
A Gela, Cosa Nostra e Stidda si sono fatte la guerra per anni (con tantissimi morti ammazzati e numerosi tentati omicidi) per poi siglare una pax mafiosa che tuttora regge. Non si spara più (fortunatamente) come una volta, ma gli episodi criminosi non mancano, purtroppo. Come e dove bisogna intervenire?
“I tempi ed il contesto della guerra dei bambini dell’assalto della Stidda a Cosa Nostra sono mutati.
Innanzitutto per la risposta forte e determinata dello Stato. Per la meritoria reazione di forze di polizia e magistratura che hanno segnato un percorso poi seguito da altre generazioni di uomini di legge.
Purtroppo i segnali degli ultimi anni, danno l’impressione di parte consistente della società civile che talvolta sembra rinunciare a produrre gli anticorpi alla illegalità e al modo “settario e familista” di gestire ciò che è comune.
Bisogna insistere nella formazione e informazione dei cittadini e dei bambini. Da piccoli si maturano valori e comportamenti fondamentali. Vedere un mondo adulto che cerca prevaricazioni o scorciatoie illecite o comunque pratiche scorrette, non educa ai valori costituzionali”.
Gela è stata definita la capitale degli incendi dolosi di auto. In tante occasioni, è stato detto che si tratta (nella maggior parte dei casi) di diatribe sfociate nel fuoco. E’ solo questo o c’è dell’altro?
“Quella degli incendi dolosi su auto, moto, porte di casa ed altro ancora, è una piaga nota e tanto datata da potere essere definita “tradizione locale”. Non è una battuta e neanche una provocazione: si tratta di un fatto che osservo con amarezza. Purtroppo, nonostante vengano individuati e condannati gli autori, il buon esito delle indagini e le condanne non sono un deterrente sufficiente. Nella maggior parte dei casi si tratta di dispute e contrasti di vicinato, passionali, gelosie e diatribe sul lavoro … Solo occasionalmente i fini sono estorsivi. Questo ci dice di un malinteso bisogno di farsi giustizia da se, della mancanza assoluta di senso della legalità e anche, duole osservarlo, di assenza di tolleranza per questioni private. L’impegno dello Stato, magistratura e forze dell’ordine è grande anche in questo caso e lo testimonia il fatto che sono alte le percentuali di responsabili individuati, ma non è sufficiente. Ci vuole un risveglio del senso civico, del bene comune e del rispetto delle leggi anche di fronte a pretesi o presunti torti. Questo spiega anche il perché non c’è collaborazione alcuna nelle indagini da parte dei testimoni e spesso neanche delle vittime. Insomma non vediamo file di cittadini di buona volontà davanti agli uffici di polizia e carabinieri e alla procura per denunciare o testimoniare circa questi fatti. E quando riusciamo a ricostruirli, scopriamo che in diversi hanno visto o che la vittima era ben consapevole di chi poteva essere l’autore, ma non ne ha fatto alcun cenno formale o informale agli inquirenti”.
In città è presente un fiorente spaccio di droga e sono stante tante le operazioni di polizia giudiziaria per contrastare il fenomeno. Però se ancora se ne parla, vuol dire che c’è ancora tanto da fare….
“La vitalità del settore dello spaccio e del consumo di stupefacenti è purtroppo uno dei fenomeni che più risalta agli occhi. Esso è spesso esercitato da appartenenti a organizzazioni mafiose e talvolta anche in modo diretto. Vale ciò che ho detto prima per l’impegno nel contrasto al fenomeno mafioso”.
Ci sono commercianti ed imprenditori che fanno nomi e cognomi degli estorsori, altri invece no. Cosa si deve fare per portarli sulla strada della denuncia?
“Come evidenziato per gli incendi, anche per altre forme delittuose come le estorsioni o anche i reati di violenza domestica o di genere non registriamo forme di collaborazione spontanee e spesso asserite vittime di fatti reato diventano favoreggiatori, attese le coperture omertose che offrono ai colpevoli. Addirittura durante indagini su fenomeni estorsivi, si assiste a dichiarati estorti che invece chiedevano spontaneamente loro protezione o copertura per azioni di concorrenza più o meno sleale a soggetti appartenenti a gruppi criminali. Vero è tuttavia che a Gela è operante e attiva con entusiasmo, pur nelle difficoltà di indurre alla collaborazione, la Fai Antiracket ed in particolare l’associazione Antiracket “Gaetano Giordano” che conducono una battaglia sia di sostegno alle vittime che di animazione sociale ed educativa molto importante. Spero che nella costante collaborazione con la Polizia, l’associazione riesca non solo a promuovere la legalità ma a tornare ad indurre le vittime di estorsioni, usura e reati connessi alle attività delle cosche, a denunciare. Da qualche tempo, infatti, registriamo minori o quasi nulli casi di collaborazione nonostante la stessa Associazione si sia meglio organizzata e abbia costituito, anche grazie a finanziamenti Pon, una struttura di assistenza legale, fiscale, aziendale e psicologica. Per indurre più persone alla denuncia, credo dobbiamo insistere nell’opera informativa ed educativa a sostegno delle vittime e rendere ancora più efficiente la rete di sostegno pubblica. Nonostante a Gela i processi vengano celebrati con celerità, poi le funzioni di sostegno alle vittime subiscono talvolta rallentamenti. Per fortuna oggi possiamo dire che se c’è collaborazione, la macchina dello Stato dà forza, sostegno e copertura”.
A Gela si chiede più presenza dello Stato. C’è chi invoca anche l’Esercito. Cosa ci dice in merito?
“L’Esercito – molti fanno finta di dimenticarlo – è stato costantemente presente nei servizi coordinati dall’Autorità di Pubblica Sicurezza sia nelle funzioni di controllo e vigilanza sul territorio che nell’ultimo biennio per i servizi di prevenzione alla diffusione epidemica. Poi bisogna ricordare che nelle funzioni di pubblica sicurezza, i militari dell’Esercito non possono operare senza avere accanto o essere comunque coadiuvati e coperti da poliziotti, carabinieri o finanzieri. In realtà sarebbe opportuno tornare a ricostituire corpi di polizia municipale con numeri congrui di operatori e con formazione adeguata. A Gela ciò sarebbe determinante per consentire a Polizia di Stato, Arma e Guardia di Finanza di essere liberate da funzioni di supplenza delle polizie municipali, nel controllo amministrativo, nella rilevazione di sinistri ed altro; funzioni che la Polizia Municipale gelese, per il numero esiguo degli operatori, non riesce a svolgere da sola.
Poi si pone anche un problema di consapevolezza del ruolo da parte delle polizie locali che spesso in altri territori travalicano le proprie funzioni e dalle nostre parti, invece, dimenticano di avere funzioni di polizia amministrativa, di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria”.
Sono tanti i ragazzi che vengono attratti e ammaliati dal crimine e dal guadagno facile. Come bisogna intervenire?
“Sui giovani bisogna poter contare ma per farlo si pone un’emergenza nazionale che a Gela è ancora più evidente: quella educativa. Le scuole e la società civile devono essere più attive laddove si registra un’assenza, quando non anche una complicità delle famiglie nella trasmissione di valori negativi: facile guadagno, potere dimostrativo, uso della forza e della prepotenza per affermarsi … Oggi anche le donne invece di essere valorizzate per le loro qualità di persone vengono indotte a fondare la propria immagine su aspetto e facilità di approccio. Credo che il riscatto di questa terra passi per un riscatto del “femminile”. Quando le donne troveranno forza e modo di svolgere appieno il proprio ruolo pubblico ed educativo, secondo i valori costituzionali, sarà stato fatto un passo decisivo. Ogni deviante, ogni delinquente, ogni mafioso, ogni violento, ogni oppressore dei più deboli, in famiglia o nella vita sociale ha ricevuto un “imprinting” materno”.
Cosa si sente di dire ai giovani gelesi?
“I giovani gelesi li ho incontrati in diverse occasioni e devono sentirsi ciò che sono: il presente della nostra società. Dobbiamo essere accanto a loro per sostenerli e condurre per loro e con loro la battaglia per la bellezza di questa terra che non può prescindere dal rispetto delle regole, degli altri e dell’ambiente. Il valore fondante deve essere quello di declinare ogni proprio comportamento nel rispetto del bene comune”.
Il prossimo 19 luglio ricorrerà il trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, tra cui la poliziotta Emanuela Loi alla cui memoria è dedicata la sala conferenze della Questura di Caltanissetta. Cosa ha lasciato in lei quel tragico episodio, avvenuto 53 giorni dopo la strage di Capaci?
“I morti delle stragi, le vittime della stagione stragista mafiosa e prima terroristica, poi della mafia che ha usato metodi terroristici, sono uno sprone. I colleghi, i magistrati, tutti coloro che sono stati vittime di mafia con il loro sangue e sacrificio, ci hanno lasciato un esempio straordinario: non sono eroi e non aspiravano ad esserlo. Sono persone per bene che hanno deciso di fare il proprio dovere con onore e disciplina, così come recita l’articolo 54 della costituzione. La strage di via D’Amelio è innanzitutto un impegno investigativo ancora in corso. Molto è stato chiarito nonostante i depistaggi, ma altro deve ancora essere accertato e posto al giudizio dei cittadini”.
Perché ha scelto di intraprendere questa professione?
“Ho scelto di fare il poliziotto per via della mia formazione negli anni dell’adolescenza e giovanili. Studiavo giurisprudenza e facevo volontariato ed ero molto attivo, a Catania, nella comunità parrocchiale e tra i gruppi giovanili cattolici e non. L’uccisione prima del Generale Dalla Chiesa e poi di Montana e Cassarà e di Pippo Fava ci colpirono molto e cominciammo a rivolgere l’attenzione all’azione di contrasto civile alla mafia e all’illegalità. Quindi appena laureato feci il concorso da commissario di Polizia e lo vinsi subito. Ero già in servizio a 26 anni”.
Ritorniamo alle origini. Adesso che è ritornato in Sicilia, può nuovamente parlare in dialetto…
“Tornare a sentirmi immerso nel dialetto siciliano è una sensazione bellissima. Per trent’anni, avendo lavorato soprattutto al Nord, era occasionale trovare con chi usarlo ed era quasi un divertimento osservare chi non lo conosce, guardarci con occhi interrogativi. Il siciliano è una lingua considerata tale e non per nulla viene valutato siciliano quello in uso anche in gran parte della Calabria e nelle province di Taranto e Lecce che poi si divide in forme locali di dialetto. È stato il siciliano volgare (grazie a Federico II e ai poeti di corte) a far nascere e diffondere il volgare toscano da cui scaturì l’Italiano immortalato da Dante. Amo la Sicilia e la sua storia, in particolare la figura di Federico II cui credo si debba il primo vero concetto di amministrazione moderna e di Regno attento alle esigenze popolari e non solo delle aristocrazie”.
Notizie simili
-
Fucile e munizioni fuorilegge, un arresto a Butera
-
Oggi incontro tra il sindaco e Totò Scerra
-
Parte il Bonus ZES per le Aziende del Mezzogiorno
-
Va avanti bene il progetto di PeR e Sinistra futura per costruire l’alternativa al centrodestra di Schifani
-
L’Albert Nuova Città di Gela domani sul campo dell’Original Kondor: è big match
-
Elezioni provinciali, Pd e M5S chiamano a raccolta sindaci e consiglieri comunali. “Fronte alternativo a Schifani e al centro-destra”
Ipse Dixit
Contro ogni barriera e pregiudizio, la mission di Sophia Giacchi per cambiare il futuro
Pubblicato
3 settimane fail
1 Febbraio 2025
Aperta ed emotiva, esprime i suoi sentimenti sinceri ed autentici catturando l’attenzione di chi le sta accanto, mostrando il vero significato dell’amore e dell’amicizia. Il suo sorriso è contagioso; l’intelligenza, la saggezza e la generosità, sono ammirevoli. La gelese Sophia Giacchi ha un cuore d’oro e si preoccupa, sinceramente, per il benessere degli altri. Tra le 99 donne che stanno cambiando il futuro nel progetto “Changed by Women” dell’Università Bocconi di Milano, c’è anche il suo nome.
“Sapere di aver generato valore positivo che non si rifletta solo su di me ma anche su terze persone, è sicuramente fonte di orgoglio. Il mondo lo creiamo e lo cambiamo ogni giorno con le nostre azioni e le nostre parole, che le mie siano riconosciute essere fonte di cambiamento positivo é stato un bel momento…”
Sophia, parlavamo di 99 donne. Credi che il numero sia in crescita o dobbiamo affidarci soltanto alle statistiche?
“Credo e spero che di donne ce ne siano già molte più di 99. Ma anche di uomini. Ognuno di noi è agente del cambiamento anche nella più banale delle situazioni, la responsabilità di far sempre la propria parte é di tutti”.
Nello specifico, il progetto che ti ha visto selezionata assieme, tra le altre, a Emma Bonino, a Sabina Nuti (rettrice della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa) e a Monica Possa (group Chief Hr e Organization di Generali), cosa si prefigge di realizzare nell’immediato?
“Di supportare economicamente delle ragazze affinché abbiano pari opportunità di studio”.
Per tanti sei un esempio da seguire per i tuoi brillanti studi, condotti tra Italia e Spagna, la tua determinazione e il tuo carisma. Si tratta di una grossa responsabilità, non credi?
“Essere d’esempio è sempre stato per me fonte di tanto orgoglio ma anche un peso importante: ho sempre sognato in grande per me e se questo è fonte di ispirazione, sono molto contenta che gli altri seguano la propria stella con lo stesso ardore con cui io seguo la mia. Spesso mi viene riconosciuta tanta determinazione nel farlo: é vero, soprattutto perché per realizzare sogni assolutamente comuni, ho spesso dovuto combattere battaglie non comuni. Quando l’ammirazione e l’essere di esempio toccano questo tema ecco che per me ha una ambivalenza importante: se da un lato sono contenta che i miei sforzi siano riconosciuti e apprezzati, dall’altro mi arrabbio con un sistema di normalizzazione di un mondo inaccessibile come quello in cui viviamo. Infatti dare la connotazione di straordinario a qualcosa di ordinario, reso spesso impossibile da politiche sistemiche che non pensano alle minoranze, non è altro che confermare la normalità di questo sistema escludente”.
In più di un’occasione, hai detto che dentro di te porti il fuoco della nostra terra.
“Sento che il pathos della nostra terra, il sole e il mare, la tradizione e la poesia, le nostre origini fondamentalmente greche hanno forgiato la mia forma mentis e il mio approccio al percepire il mondo attorno a me. L’ostinazione alla ricerca del senso, la felicità di non trovarlo. Questo mi ha insegnato la mia Sicilia”.
Riporto una tua citazione: “Non voglio passare per la ragazza in sedia a rotelle. Piuttosto raccontiamo tutto quello che ho fatto per cambiare un sistema che spesso rende impossibili anche cose semplici a chi vive una disabilità”. Raccontiamo…
“Immagino che sia ben chiaro a tutti in quale sistema viviamo: barriere architettoniche, barriere economiche, barriere sociali che comportano esclusione e preclusione da molteplici contesti che toccano tutte le sfere dell’identità: diritto allo studio, sviluppo relazionale con amici e/o partners, affermazione lavorativa, esplorazione delle proprie passioni ed altro ancora…”
Oltre alle barriere architettoniche insistono, purtroppo, anche delle vere e proprie discriminazioni. Tutto ciò non è più tollerabile. Quali sono gli strumenti adeguati per estirpare definitivamente queste “gabbie mentali”?
“Un cambio radicale di come viene percepita la disabilità nella società é sicuramente il primo passo per la costruzione di politiche inclusive. Non ci sono persone disabili ma contesti disabilitanti. La disabilità non è un problema, un mondo costruito sulla “norma” é un problema”.

Qual è stata la reazione dei tuoi genitori, quando hai detto di volere andare via da Gela, dopo avere conseguito il diploma al Liceo Classico?
“All’inizio erano molto scettici e preoccupati perché le alternative erano che io fossi andata da sola con delle assistenti personali o che tutta la famiglia si spostasse. Entrambe le alternative, al tempo, erano una novità e quindi destavano preoccupazione. Da subito, quando ci siamo spostati tutti insieme, però hanno capito fosse la scelta giusta, non solo per me ma per tutta la famiglia!”
Andare via da Gela per approdare a Milano, possiamo definirlo “coraggio incosciente”?
“Per certi versi si, per i miei genitori ha significato lasciare i propri impieghi per reinventarsi una vita, avendo la responsabilità di una famiglia intera. In questo senso si”.
Cosa ricordi delle numerose lotte burocratiche e delle regole da riscrivere all’Università Bocconi, per consentirti di ricevere assistenza al fine di seguire le lezioni?
“Scrivere qualcosa che non è stato ancora scritto è sempre un’impresa difficile: non sai con chi confrontarti, non sai a chi rivolgerti, non sai come farti ascoltare. All’inizio mi dava molta frustrazione dover essere io a pensare alla soluzione per ottenere dei diritti che la maggior parte delle persone hanno già garantiti. Pian piano ho trovato le persone giuste che facessero da cassa di risonanza dei miei bisogni e quando a combattere si è insieme, allora diventa più facile”.
Nessun limite ti ha mai fermato, anzi ti ha reso più consapevole. Altri ed altre, invece, si arrendono. Qual è il suggerimento che vuoi dare?
“Il suggerimento è di non accontentarsi mai delle briciole, di pretendere l’attenzione, la rilevanza, l’importanza ed il diritto che abbiamo ad essere noi stessi”.
Come mai hai deciso di volare prima a Barcellona e poi a Singapore?
“Mi è sempre piaciuto conoscere nuovi paesi, nuove culture, nuovi orizzonti. Andare a Barcellona però non ha significato solo nuova scoperta in questo senso, ma anche scoperta di una nuova dimensione di libertà ed autonomia. Se infatti a Milano mi sono spostata con tutta la famiglia, a Barcellona prima e a Singapore poi sono andata da sola. Questo ha significato fare i conti con nuovi limiti e nuove possibilità che mi hanno permesso di conoscere meglio me stessa”.
Dopo aver conseguito la laurea magistrale in economia e gestione per le arti, la cultura e la comunicazione hai iniziato ad esplorare il mondo del lavoro. E’ stato facile o hai riscontrato difficoltà?
“Grazie ad uno stage svolto durante gli anni accademici e al network costruito in quell’occasione, il mondo del lavoro è stata un’evoluzione naturale del mio percorso di studi”.
Attualmente stai lavorando come Talent Acquisition Partner di uno dei più importanti gruppi della cosmetica: L’Oréal. In cosa consiste?
“Mi occupo di reclutamento di profili dai tre anni di esperienza in su e gestisco un progetto chiamato L’Oréal for youth che ha l’obiettivo di aiutare giovani under 30 nello sviluppo delle competenze per essere più preparati al mercato del lavoro. Due delle iniziative di cui vado più fiera sono il supporto concreto che diamo al target dei migranti e il progetto “Così come sei” che vuole normalizzare la disabilità all’interno dell’azienda e si propone di stilare una policy di supporto a dipendenti con disabilità e caregivers”.
Quando ritorni a Gela, qual è la prima cosa che fai appena arrivata?
“Abbracciare mia nonna”.
Cosa ti manca della tua terra?
“Sicuramente la prossimità con i miei affetti, ma anche il mare”.
Per rendere la nostra Gela accogliente, ben servita, una città modello, dove e come bisogna intervenire?
“Una buona rete di servizi pubblici potrebbe essere una buona base di partenza: un sistema di trasporto pubblico che funzioni bene, assieme a spiagge e servizi commerciali accessibili tramite strumenti di abbattimento delle barriere architettoniche”.
Credi in Dio?
“Si!”.
Qual è il tuo sogno?
“Di sogni ne ho tanti e ne sopraggiungono sempre di nuovi, quello che posso generalizzare è che sogno di essere sempre circondata da tutto l’amore che ho e di rendere felici le persone che amo”.
Cosa ti auguri per quest’anno?
“Di riposare, di prendermi del tempo per me stessa e di dedicarmi di più alle mie passioni come il teatro ed il cinema”.
Cosa ti senti di dire ai tuoi genitori?
“Che senza tutto l’amore e la fiducia che mi danno, non riuscirei a fare neanche il 10% di tutto quello che faccio. Il loro amore mi rassicura e la loro fiducia in me mi dà coraggio. È la combinazione perfetta che mi ha sempre permesso di tentare, dandomi la forza di volare in alto anche con il rischio di cadere, forte della consapevolezza che ci sono sempre le loro braccia ad aspettarmi”.
Sophia ogni giorno prova ad abbattere tutti gli ostacoli che impediscono di muoversi liberamente e autonomamente e di eliminare quelle stupide barriere culturali che discriminano e impediscono alle persone con disabilità la partecipazione alla vita sociale. Continua cosi, non arrenderti mai!
E’ proprio vero quello che scriveva Cesare Pavese…”Le belle persone si distinguono, non si mettono in mostra. Semplicemente, si vestono ed escono. Chi può, le riconosce”.
Ipse Dixit
“Creare posti di lavoro in Sicilia per evitare che il crimine dilaghi”
Pubblicato
2 mesi fail
1 Gennaio 2025
“Ho un solo augurio per l’anno nuovo: Pace. Pace nel nostro pianeta, sempre più sanguinante…”L’auspicio, legittimo e condiviso, porta la firma della dottoressa Lia Sava, attuale procuratrice generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Sempre disponibile al dialogo con gli organi di informazione, si contraddistingue per la sua pacatezza nell’affrontare qualsiasi problema, riuscendoci col giusto equilibrio. Pugliese di Carbonara (nato come paese e successivamente trasformatosi in un quartiere di Bari), Lia Sava è entrata in magistratura nel 1991. Dal 1992 al 1995, ha svolto le funzioni di pretore civile a Roma e, nei tre anni a seguire, è stata pubblico ministero alla procura di Brindisi applicata alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Il suo arrivo in Sicilia è datato 1998. Fino al 2013 è stata pubblico ministero a Palermo e dal 2001 al 2011 ha fatto parte della locale Dda.
Dottoressa, partiamo dalla sua esperienza nella nostra provincia. Lei conosce bene lo spaccato criminale gelese, per essere stata Procuratrice aggiunta presso la Dda di Caltanissetta (dal 2013 al 2018) e procuratrice generale nella stessa sede nissena (dal 2018 al 2022). Cosa ci dice in merito?
“Gela ed il suo circondario scontano problemi simili ad altri territori della nostra Sicilia e, più in generale, del nostro sud. Povertà, crisi occupazionale in prima battuta. Ed è chiaro che in questo contesto il crimine organizzato e comune, in forme anche assai spregiudicate, prospera e si rinvigorisce. Ma io vedo nel territorio gelese anche molteplici prospettive di sviluppo e di crescita. Penso, ad esempio, al settore del turismo. Che potrebbe essere una carta vincente per il futuro di molti giovani”.
C’è un episodio che l’ha profondamente colpita della sua esperienza nel Nisseno?
“Non c’è un episodio particolare. Ma c’è un ricordo che mi lega a Gela. Anzi, una serie di ricordi, non professionali ma umanamente forti. Qualche passeggiata sulla spiaggia, dopo una giornata di lavoro in Tribunale a Gela. Tramonti rigeneranti, dune di sabbia con i gigli selvatici. Bellezza semplice mozzafiato, che contrastava fino ad annientare la fatica di tante ore di lavoro”.
“Dovete armarvi con spade e scudi cioè studiare, leggere, farvi apprezzare per le vostre qualità. Fare le scelte giuste non quelle comode. Solo così potete entrare nei gruppi seri, quelli di gente che persegue gli stessi obiettivi e lì la leadership si conquista con l’esempio”. Sono le parole pronunciate ultimamente dal procuratore di Gela, Salvatore Vella, rivolgendosi ai giovani. E’ anche il suo pensiero?
“Condivido. Lo studio serio ed attento è il solo strumento valido che hanno i giovani per diventare adulti consapevoli. La lettura di buoni libri e l’amore per l’arte sono i più potenti antidoti al male”.
Quanto è importante che la politica sostenga la legalità e adotti scelte che promuovano l’educazione e la consapevolezza sul fenomeno mafioso?
“Credo che l’educazione alla legalità debba essere una priorità di tutti. Di ogni settore della società ed ogni sua articolazione. Quindi anche della politica. Ma non solo”.
Per una donna raggiungere il titolo di “giudice” può, ancora oggi, essere più difficile rispetto a un uomo?
“Se si studia con serietà e con metodo, si diventa magistrati senza differenza fra uomini e donne. Oggi poi le giovani donne magistrato sono più degli uomini”.

Papa Francesco ha più volte sottolineato che la nostra terra ha bellezze naturali e artistiche meravigliose, purtroppo minacciate dalla speculazione mafiosa e dalla corruzione, che frenano lo sviluppo e impoveriscono le risorse, condannando soprattutto le aree interne all’emigrazione dei giovani. D’accordo anche lei?
“Certo, non si può non essere d’accordo. Sono convinta, inoltre, che la sinergia fra le istituzioni può essere risolutiva ad arginare anche il fenomeno della “ fuga” dalle nostre terre. Ho fiducia che possa invertirsi la rotta. Restare e far prosperare il nostro sud non deve essere un sogno ma una possibilità concreta e realizzabile”.
La terra siciliana però continua a fare emergere (purtroppo) due elementi devastanti: l’oppressione del fenomeno mafioso e il dilagante flusso della povertà. Quali sono gli strumenti per fronteggiarli?
“Il crimine organizzato si contrasta con la diffusione della cultura della legalità. Famiglie, scuole, luoghi di lavoro, parrocchie devono essere centri propulsori di regole semplici da rispettare. Insegnarle e fare in modo che vengano osservate è obiettivo primario. Prima fra tutte: il rispetto dell’altro. La mafia è sopraffazione: antitesi del rispetto dell’altro. La miseria crescente, di contro, è un problema strutturale che richiede strategie di ampio respiro. Creare posti di lavoro è, in particolare, fondamentale per evitare che quelli che non hanno da mangiare accettino “l’offerta deviante” del crimine comune ed organizzato, innescando una spirale perversa”.
Qual è il compito dei magistrati per dare una dignità giuridica nel rispetto della Costituzione, delle leggi e delle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito al crescente tasso di miseria che accomuna tante famiglie?
“I magistrati devono fare il loro dovere, con impegno e dedizione, consapevoli che dietro ogni fascicolo c’è, frequentemente, il dolore di persone che cercano una risposta dallo Stato ai loro drammi e problemi. Sia nel civile che nel penale occorre che i magistrati diano risposte rapide e attente, consapevoli che la tutela dei diritti è centrale per la salvaguardia della democrazia. La nostra efficienza professionale è il solo modo che abbiamo, da un lato, per rendere migliore il servizio giustizia e, dall’altro, per contrastare il malaffare. Per la soluzione strutturale del problema della miseria, ovviamente, noi magistrati non possiamo fare nulla. Ma se svolgiamo nel miglior modo possibile il nostro lavoro possiamo rendere più sereni animi inquieti e sofferenti e non è poco”.
La mafia non spara più come una volta, è in atto una vera e propria metamorfosi?
“La mafia non spara perché per realizzare i suoi affari non ne ha bisogno. La strategia (ormai collaudata) della sommersione è funzionale a non scatenare la reazione forte delle istituzioni, come quella che ci fu dopo le stragi e che ha determinato la sconfitta dei “corleonesi”. A Cosa Nostra conviene non dare nell’occhio con atti eclatanti per proteggere i suoi affari più loschi. Ma attenzione, se occorre, la mafia è capace di uccidere come prima. La disponibilità di armi che hanno i clan è la prova più tangibile di questo”.
Tantissimi ragazzi si avvicinano ai clan, ringiovanendo le “famiglie”. Come legge questo dato?
“I giovani se non hanno prospettive, se passano le loro giornate con una bottiglia in mano, se non hanno modelli positivi di riferimento, diventano più facilmente preda di chi offre loro il miraggio di facili guadagni. Peraltro, giovanissimi assuntori di sostanza stupefacente, vengono frequentemente assoldati dai clan per spacciare. E sembra che la spirale del crimine si nutra di giovanissimi per distruggerne l’essenza vitale”.
Numerose inchieste hanno fatto emergere che gli stessi clan mafiosi puntano al dark web per riciclare le risorse finanziarie, approfittando della potenzialità dell’intelligenza artificiale. Quali sono gli strumenti che mettete in campo per contrastare questa nuova forma di illegalità?
“Dark web, intelligenza artificiale, utilizzo sfacciato delle cripto valute costituiscono la nuova frontiera delle strategie della criminalità organizzata. Occorre puntare su strumenti investigativi sofisticati dal punto di vista tecnico e investire sul potenziamento delle forme di cooperazione internazionale. Il dark web e l’intelligenza artificiale, nelle mani delle organizzazioni di stampo mafioso, possono agevolare grandemente la realizzazione di crimini transnazionali che devono essere contrastati in maniera efficace attraverso strategie comuni e condivise. Penso, ovviamente, in prima battuta, al narco traffico che è un’emergenza globale e che genera una spirale di morte inquietante a fronte di enormi guadagni spesso facilitati dall’utilizzo delle monete virtuali negoziate sul dark web. Il 23 maggio scorso, a Palermo, il Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, il dott. Melillo, ha organizzato uno straordinario momento di riflessione, a cuihanno partecipato magistrati ed investigatori di diverse parti del mondo, proprio su queste tematiche. Ed è stato il modo migliore, secondo me, per onorare il sacrificio di Falcone e Borsellino e degli altri nostri martiri. Il futuro delle investigazioni deve andare in questa direzione”.
La magistratura fa fronte a molteplici istanze da quello – che lei in più di un’occasione – ha definito gusto amarissimo della contraddizione. Ci vuole spiegare meglio?
“La magistratura è chiamata a dare risposte ai bisogni delle parti. I magistrati devono essere tecnicamente attrezzati, devono essere attentissimi e scrupolosi nello studio delle carte processuali. Ma non possono fare di più. Le risposte di sistema alla miseria, ad esempio, spettano alla politica e all’alta amministrazione”.
Se nella stessa magistratura si registrano numerosi problemi (interni ed esterni), tutto ciò non scoraggia il cittadino onesto e i suoi diritti?
“Se i magistrati adempiono seriamente ai loro doveri la fiducia dei cittadini ne deriva come conseguenza immediata e diretta. Ritengo che fornire con pacatezza, equilibrio, tempestività un servizio giustizia efficiente e rapido sia la chiave di volta per recuperare spazi di più ampia credibilità per noi magistrati. Non ci sono altre strade”.
Più volte lei ha riferito che “crescono le imposizioni del pizzo mascherate”. In che senso?
“In passato le mafie “chiedevano il pizzo”, magari mettendo una bottiglietta incendiaria sul cantiere. Adesso, a volte, dalle intercettazioni emerge che è lo stesso imprenditore che, prima di iniziare un lavoro, cerca il mafioso per “mettersi a posto”. Quindi abbiamo estorsioni mascherate ed il pizzo diventa “costo di Impresa”. Assolutamente inquietante ed indice di un abisso anche etico nel quale si rischia di precipitare”.
Ha mai avuto dubbi sulla sua scelta di diventare magistrato?
“Mai. È un lavoro bellissimo, che ti consente di crescere ogni giorno. Anche coltivando i valori della pazienza, dell’umiltà e della consapevolezza dei propri limiti”.
Nel corso della sua carriera, ha vissuto momenti di paura?”
“Non per me. Solo per i miei figli. Quando erano piccoli temevo per loro. Per me non ho mai avuto nessuna forma di timore. Chi fa il proprio dovere deve essere sereno”.
Chi sono stati per lei Falcone e Borsellino?
“Modelli ineguagliabili. Per intelligenza investigativa, per visione prospettica, per capacità straordinaria di indicare un percorso logico efficace nel contrasto al crimine organizzato”.
Non sarebbe opportuno che si investisse nella scuola con l’introduzione di materie specifiche e l’offerta di attività extrascolastiche come il teatro o lo sport che possono contribuire a spiegare cos’è la mafia e perché è importante contrastarla?
“Lo sport, il teatro, la musica: sono attività che, se inserite con sistematicità nei programmi scolastici, potrebbero, nelle ore pomeridiane, essere un validissimo strumento per offrire ai giovani prospettive di socializzazione e di crescita. Oltre ad essere la più costruttiva alternativa alla noia, e quindi all’abuso di alcool e droghe”.
Ad inizio intervista le abbiamo chiesto del suo personale augurio per l’anno che è appena iniziato. Le chiediamo, in chiusura, il suo auspicio per i nostri lettori.
“Salute. Serenità. E ritrovata e rafforzata fiducia nel servizio giustizia…”
Ipse Dixit
“Valorizzare ogni progresso dei detenuti, per una vita migliore”
Pubblicato
3 mesi fail
1 Dicembre 2024
Il suo ufficio raramente ha la porta chiusa. In casi estremi, solo socchiusa. Perché la stanza del direttore è la stanza di tutti, nel rispetto reciproco dei ruoli. E delle direttive. Aprirsi al confronto con il proprio gruppo di lavoro è quotidiano, sviscerane i problemi e cercarne le soluzioni, è l’obiettivo comune. Lei ascolta, chiede, incoraggia, dice “noi”, dà meriti. Gabriella Di Franco, dirigente penitenziario, è il direttore della casa circondariale di Enna, intitolata a Luigi Bodenza, l’assistente capo del corpo della Polizia Penitenziaria, assassinato nel 1994 dalla mafia. L’ingresso nella carriera dell’Amministrazione Penitenziaria per la dottoressa Di Franco, nata e cresciuta a Catania, è datato 8 Settembre 1997 come collaboratore di istituto penitenziario. Poi è stato un susseguirsi di incarichi importanti, perfettamente portati a compimento. Come nel suo costume.
Come è cambiata (se è cambiata) la sua umanità in tutti questi anni alla direzione di diversi istituti penitenziari?
“Devo ammettere che il mio percorso come direttore di varie strutture penitenziarie ha avuto un impatto significativo sulla mia “umanità”. Da 28 anni ormai, ogni giorno mi sono confrontata con storie di vita, di sofferenza, ma anche di resilienza. Ho imparato a guardare oltre le etichette e a vedere le persone con le loro fragilità e le loro potenzialità. Noi penitenziari “dimentichiamo”, in un certo senso, il reato. Questo lavoro richiede una dose di empatia e comprensione che si affina col tempo. Le sfide quotidiane mi hanno insegnato l’importanza della pazienza e della comunicazione; ho imparato a valorizzare ogni piccolo progresso e a celebrare ogni passo verso il reinserimento. Devo dire che ogni interazione, ogni storia condivisa ha arricchito la mia vita, rendendomi più consapevole e aperta. Quindi, sì, la mia umanità è cambiata: è diventata più profonda e più complessa, e credo che questo mi renda una persona migliore”.
Come interpreta il ruolo di direttore del carcere?
“Come una responsabilità straordinaria e un’opportunità unica. In primo luogo, sono consapevole che il mio compito va oltre la semplice gestione della sicurezza e della disciplina. È fondamentale creare un ambiente che favorisca la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti”.
Qual è la missione che porta avanti?
“Cerco di essere un “mediatore” tra diverse esigenze: quelle della sicurezza, del personale, dei detenuti e della comunità esterna. Questo richiede un equilibrio delicato, ma credo fermamente che il rispetto e la comprensione reciproca possano portare a risultati positivi. La mia missione è contribuire a creare un ambiente in cui le persone possano riflettere sulle proprie azioni, apprendere e, infine, reintegrarsi nella società con una nuova prospettiva”.
Quali sono gli aspetti centrali di cui un direttore del carcere deve occuparsi in particolar modo?
“Oltre che essere mediatore vedo il mio ruolo come quello di un “facilitatore”: promuovo l’accesso a progetti rieducativi, ad attività lavorative anche in collegamento con la realtà imprenditoriale esterna, progetti di supporto alla genitorialità ed alle affettività perché sono convinta che ogni persona abbia il potenziale per cambiare. Il direttore deve essere il leader che guida con empatia e determinazione, un leader orientato verso un futuro in cui la giustizia e il reinserimento in società possano andare di pari passo, in attuazione dell’art.27 della Costituzione”.
Dal suo primo incarico datato 2001 al carcere di Piazza Armerina ad oggi, cosa è cambiato?
“Il ruolo del direttore del carcere ha subito notevoli evoluzioni dagli anni 2000 ad oggi, riflettendo cambiamenti sociali, politici e culturali. Stiamo assistendo ad una sempre crescente consapevolezza dell’importanza del reinserimento e l’Amministrazione Penitenziaria tutta, pur garantendo sicurezza sociale, ha un ruolo sempre più attivo nel promuovere progetti educativi e di reinserimento, cercando di ridurre il tasso di recidiva. Il ruolo del direttore del carcere si è evoluto verso una figura più complessa e multifunzionale, che deve bilanciare la sicurezza con il reinserimento, la gestione delle risorse umane con il benessere dei detenuti e l’innovazione con le pratiche tradizionali”.
La dottoressa Di Franco, negli anni, ha diretto anche le carceri di Nicosia, Castelvetrano e Gela. Nella nostra città ha operato dal 13 ottobre del 2014 al 22 febbraio 2019.
“Il mio incarico a Gela doveva essere temporaneo (in qualità di reggente in attesa di altro direttore ed avendo io altro incarico) ma sono rimasta alla direzione di Gela per ben 5 anni!”
Cosa ricorda di quell’esperienza?
“Ricordare anni di lavoro intensi con un gruppo di lavoro straordinario è come sfogliare un album di ricordi preziosi. Ricorderò sempre le riunioni con il Comandante Francesco Salemi, gli ispettori di Polizia Penitenziaria e i capi area Contabile ed Educativa, riunioni intense in cui le idee si mescolavano, si creavano soluzioni, si trovavano rimedi e si rideva anche delle difficoltà. La sinergia ha reso ogni obiettivo più leggero. Le sfide non sono mancate, ma affrontarle insieme ha creato legami indissolubili che coltivo tuttora. Non posso dimenticare il pranzo organizzato a sostegno dell’Airc, promosso dall’Associazione Antifemo ed Entimo, i laboratori teatrali della Croce Rossa di Gela, i tanti progetti portati avanti con la scuola che hanno ha reso il lavoro più significativo. Abbiamo ripreso tante vite di persone detenute e ridato loro dignità e speranza. Non dimenticherò mai la gioia e il senso di “profonda misericordia” provato quando abbiamo portato dal Papa in visita a Piazza Armerina alcuni detenuti grazie ai preziosi volontari della Caritas diocesana. Quegli anni trascorsi a Gela hanno lasciato un’impronta indelebile. Ogni ricordo, ogni insegnamento e ogni obiettivo raggiunto hanno contribuito a rendere il mio cammino professionale e personale ancora più ricco e significativo”.
Della sua permanenza a Gela, cosa avrebbe voluto portare a compimento ed invece non è riuscita?
“Il carcere si trova in Contrada Balate e viene così indicato anche giornalisticamente. Assieme al Sindaco dell’epoca avevamo avviato un lavoro per intitolare la strada. Dal carcere avevamo proposto “via Alberto Sordi”, il celebre attore e regista italiano noto per il suo stile comico e le sue interpretazioni che spesso riflettevano le sfide sociali e culturali dell’Italia: il suo lavoro nel cinema ha influenzato la percezione del pubblico su vari aspetti della vita italiana, inclusa la giustizia e il sistema carcerario. Purtroppo la nuova denominazione della strada non fu possibile perché la strada di accesso al carcere presentava, all’epoca (e non credo si sia superato l’ostacolo), delle difficoltà burocratiche anche per la toponomastica in quanto strada interpoderale consortile non comunale. Altra cosa avviata, ma solo in una fase ideativa, e non realizzata fu quella di adottare il fontanone situato all’ingresso della via di accesso al carcere. La immaginavamo in funzione, piena di fiori e costantemente manutenzionata dai detenuti in lavoro di pubblica utilità. Un Welcome penitenziario alla città di Gela”.
Cosa invece le è riuscito?
“Ho contribuito a creare e strutturare un gruppo di lavoro apprezzato, entusiasta e motivato, incoraggiando collaborazione e lavoro di squadra. Abbiamo realizzato tantissimi progetti musicali, teatrali con la scuola e i volontari a beneficio dei detenuti. Creato un gruppo di manutentori della struttura con i quali abbiamo realizzato – ottenuti appositi finanziamenti da Cassa delle Ammende – l’area verde per i colloqui con i familiari, una nuova apertura della sala teatro, altri miglioramenti interni per gli uffici del personale e per gli spazi di vita dei detenuti, come le aule scolastiche”.
Ci racconti un particolare aneddoto della sua esperienza gelese
“In congedo ordinario, io e la meravigliosa capo area educativa Viviana Savarino, oggi attuale direttore dell’Istituto Minorile di Caltanissetta, assieme a due straordinari volontari Francesco Città e Graziella Condello, ci siamo recati da Ikea a Catania per acquistare il primo contenuto della “credenza” della Casa Circondariale: piatti, bicchieri, posate ed altro ancora. Acquisto reso possibile grazie al contributo economico della Procura di Gela, all’epoca guidata dal Procuratore Fernando Asaro, uomo che stimo profondamente e di cui ho potuto apprezzare elevatissime doti umane e professionali. Abbiamo dopo qualche giorno realizzato con i detenuti e l’Associazione Antifemo ed Entimo il pranzo di beneficenza i cui ricavati sono stati devoluti all’Airc. All’ iniziativa parteciparono Procura, Tribunale di Sorveglianza, Prefetto e le più alte cariche delle forze dell’Ordine realizzando una inedita rete di solidarietà e di vicinanza al mondo penitenziario”.
C’è stato un episodio che invece l’ha turbata?
“Non mi viene in mente un episodio in particolare. Ho il ricordo di situazioni difficili e di alta tensione affrontate insieme al gruppo di lavoro ed ai miei superiori con responsabilità mantenendo, soprattutto, la calma”.
Perché il carcere viene definito luogo di penitenza?
“Tra le tante definizioni il carcere viene definito anche “luogo di penitenza” perché rappresenta uno spazio in cui gli individui hanno l’opportunità di riflettere sulle proprie azioni e sulle conseguenze che queste hanno avuto, sia per loro stessi che per la società. In questo contesto, la “penitenza” non si limita a una punizione, ma si trasforma in un momento di crescita personale e di riabilitazione. È un luogo dove si può lavorare su sé stessi, confrontarsi con le proprie scelte e, auspicabilmente, trovare la strada verso un futuro migliore. Quindi, in un certo senso, il carcere è anche un’opportunità per rinascere e ricominciare, un aspetto che spesso viene trascurato. È un concetto che invita a riflettere sul valore della “seconda chance” e sull’importanza della responsabilità personale”.
Quanto conta nella vita dei detenuti, purtroppo, la violenza prima della carcerazione?
“Molti detenuti hanno avuto esperienze pregresse di violenza fisica, emotiva o sessuale. Le persone che hanno vissuto violenza possono essere più inclini a comportamenti antisociali o criminali, non solo come risposta alle esperienze traumatiche, ma anche come modo per affrontare o riprodurre dinamiche familiari o sociali in cui sono cresciute”.
I numeri in continuo aggiornamento, certificano in Italia l’aumento di tanta violenza, dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria. Dati sicuramente allarmanti. Come li legge e come bisogna prevenirli?
“L’aumento dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria rappresenta una questione complessa e preoccupante. Questi dati non solo evidenziano la fragilità del sistema penitenziario, ma pongono anche interrogativi sulla salute mentale dei detenuti e sul benessere del personale. Le condizioni di vita in carcere, spesso caratterizzate da isolamento, stress e mancanza di attività significative, possono esacerbare questi problemi. L’amministrazione penitenziaria e il Sistema Sanitario Nazionale collaborano ad ogni livello per garantire l’accesso a supporti adeguati. L’amministrazione penitenziaria sta investendo moltissimo nel fornire formazione al personale penitenziario su come riconoscere i segnali di disagio mentale nei detenuti e su come gestire situazioni di crisi. La situazione attuale richiede un approccio globale e multidisciplinare che consideri non solo il benessere dei detenuti, ma anche quello del personale di polizia penitenziaria”.
Ci auguriamo che ci sia un modo per far percepire il valore dell’agire responsabile, per avvicinare i detenuti alla società, per portarli a scegliere il bello della regola, a non contrapporsi allo Stato. Per rendere meno pesante la permanenza in carcere, quali sono le iniziative che mettete in campo?
“Certo, c’è un modo! Innanzitutto, è fondamentale creare un ambiente in cui i detenuti possano comprendere il valore dell’agire responsabile. Questo può essere fatto attraverso programmi di educazione e formazione che non solo insegnano abilità pratiche, ma anche valori come il rispetto e la collaborazione. Un altro aspetto importante è il coinvolgimento della comunità esterna. Organizzare attività che permettano ai detenuti di interagire con le persone al di fuori del carcere, come laboratori, eventi artistici o sportivi, può aiutarli a vedere che ci sono opportunità positive nella società e che possono farne parte. Inoltre, è utile fornire modelli di comportamento. Coinvolgere ad esempio i volontari e la scuola può essere molto motivante. Le persone detenute possono condividere le loro esperienze e comprendere che, anche dopo aver commesso errori, è possibile ricostruirsi una vita seguendo le regole. E’ poi importante richiedere ai detenuti il senso di responsabilità. Quando si sentono parte di un processo, in cui le loro scelte hanno un impatto, sono più propensi a scegliere il “bello della regola”.
Se al detenuto non si offrono le stesse cose che può trovare fuori, non si alimenta la cultura dell’essere perdente, dell’essere sconfitto?
“È una domanda delicata. L’idea di non potere offrire ai detenuti opportunità simili a quelle che possono trovare fuori non significa certo alimentare una cultura di sconfitta. Al contrario, può essere un modo per prepararli a un reinserimento positivo nella società facendo loro comprendere che si sta operando facendo tutti gli sforzi possibili. Quando si offrono programmi educativi, corsi di formazione professionale e attività ricreative, non si sta semplicemente dando loro “le stesse cose”. Si sta creando un ambiente che incoraggia la crescita personale e lo sviluppo delle competenze. Queste esperienze aiutano i detenuti a sentirsi valorizzati e a riconoscere il loro potenziale, piuttosto che a sentirsi sconfitti”.
Quanti dei detenuti che ha personalmente conosciuto, hanno realmente intrapreso una nuova vita dopo il carcere?
“Non è una grande percentuale ma ho le prove che tanti sono riusciti. In ogni caso il nostro compito, quello di instillare speranza e dare fiducia, in tantissimi casi è stato raggiunto anche con effetti resisi evidenti un po’ dopo, nel tempo”.
Perché in tanti (troppi) non riescono a redimersi definitivamente?
“La questione della redenzione dei detenuti è complessa e multifattoriale. Dopo la dimissione dal carcere, molti ex detenuti affrontano pregiudizi e discriminazione nella società, avendo difficoltà a trovare lavoro, alloggio e reintegrarsi nella comunità. Questo stigma può portare a una sensazione di isolamento e impotenza. Spesso a causa di mancanza di risorse familiari i detenuti possono avere difficoltà a costruire una nuova vita e molti detenuti hanno alle spalle esperienze traumatiche e problemi di salute mentale non trattati. Alcuni ex detenuti tornano in ambienti familiari o sociali tossici, dove la criminalità e le cattive influenze sono prevalenti”.
Come avviene nelle carceri l’uso di internet?
“Sebbene sia riconosciuto come l’accesso a Internet possa offrire opportunità significative per l’istruzione, la formazione e il reinserimento sociale dei detenuti vi è da dire, tuttavia, che vi sono preoccupazioni legate alla sicurezza, alla gestione e all’abuso potenziale di questa tecnologia. Al momento l’uso di piattaforme informatiche come ad esempio WhatsApp e Teams è utilizzato, sotto il controllo della polizia penitenziaria, per facilitare la comunicazione tra i detenuti, le loro famiglie, i loro legali, riducendo l’isolamento e fornendo un supporto emotivo importante. Attraverso le video call, dunque, le persone detenute possono colloquiare in sicurezza con i familiari, sotto il controllo solo visivo e non auditivo del personale”.
La criminalità si è ingegnata: adesso usa i droni per consegnare in volo droga e telefoni cellulari all’interno delle carceri. Ultimamente stava per accadere anche nel penitenziario che lei dirige. Come siete riusciti a stroncare sul nascere lo stratagemma criminale?
“E’ certamente una sfida complessa, poiché i criminali spesso adottano metodi sempre più ingegnosi per eludere la sicurezza. La Casa Circondariale di Enna è dotata di un buon sistema di sicurezza perimetrale con telecamere di sorveglianza ad alta risoluzione e sensori di movimento che aiutano a monitorare attività sospette e prevenire l’ingresso di droni. Il personale di Polizia Penitenziaria agisce effettuando varie attività di controllo e lavora a stretto contatto con le altre forze dell’ordine migliorando la condivisione di informazioni e la capacità di risposta. Solo attraverso sforzi combinati è possibile mitigare efficacemente questa minaccia emergente”.
Quanto le piace il lavoro che svolge?
“Ah, quanto mi piace il mio lavoro? Beh, diciamo che è un po’ come una relazione a lungo termine: ci sono giorni in cui lo adoro follemente e altri in cui mi fa venir voglia di prendere una lunga vacanza… ! In ogni caso, amo le sfide che mi presenta e la possibilità di fare la differenza, anche se a volte mi sento un po’ come un acrobata che cerca di tenere in equilibrio tutto su un filo sottile. Quindi sì, direi che mi piace davvero tanto, anche quando le cose si fanno impegnative. Diciamo che soffro di “carcerite acuta!”.
Ha mai avuto paura per l’incarico che ricopre?
“Paura? Ci sono momenti in cui la responsabilità o le tensioni sembrano un po’ pesanti e non risolvibili. Tuttavia, è proprio in quei momenti che mi rendo conto di potere contare sul mio gruppo di lavoro e le difficoltà della vita lavorativa diventano un po’ più gestibili. Quindi, più che paura, direi che provo un sano rispetto per la complessità del mio incarico, sempre pronto a gestirla con professionalità e molta calma. Ripeto spesso la parola “Coraggio!”: è un’esortazione che rivolgo a me stessa e a ciascuno di noi”.

Fucile e munizioni fuorilegge, un arresto a Butera

Oggi incontro tra il sindaco e Totò Scerra

Parte il Bonus ZES per le Aziende del Mezzogiorno

Miracolo a Gela: durante la consacrazione si scolpisce il volto di Gesù

Sostiene l’esame di Terza media in divisa scout e parla dell’Agesci

L’Ugl Chimici interviene sul piano industriale di Versalis

La città dove tutto è in crisi. Ascolta #2minuti2 di Maria Concetta Goldini

Elezioni Amministrative: effetti collaterali un anno prima. Ascolta #2minuti2 di Maria Concetta Goldini

Il modo di fare le cose ( giuste) Ascolta #2minuti2 di Maria Concetta Goldini
Più letti
-
Attualità8 mesi fa
Sostiene l’esame di Terza media in divisa scout e parla dell’Agesci
-
Flash news4 mesi fa
L’Ugl Chimici interviene sul piano industriale di Versalis
-
Attualità7 mesi fa
In Sicilia i primi a conseguire le lauree professionalizzanti sono 9 studenti della Kore di Enna di cui 5 gelesi.Nel progetto c’è Eni
-
Flash news4 mesi fa
Toni Gangarossa è stato nominato reggente dell’Ugl metalmeccanici
-
Attualità8 mesi fa
“La migliore pizza del mondo” è made in Gela. Successo per Oreste Bonaiuto
-
Rubriche8 mesi fa
Un ‘tentatore’ gelese a Temptation Island 2024
-
Cronaca7 mesi fa
Fuggi fuggi dalle spiagge – video
-
Cronaca12 mesi fa
Maxi blitz della polizia con 55 arresti, manette per 32 gelesi. Fiumi di droga. Consolidato il patto tra Cosa Nostra e Stidda. I nomi