Trentasei tornanti per visitare un paziente, seicento euro di fattura per l’acquisto dei presidi sanitari indispensabili, una Mercedes usurata in pochi mesi, diciotto ore di lavoro al giorno e uno stipendio lordo di 2.100 euro. Sono questi i numeri che scandiscono le giornate del medico mazzarinese della Valseriana Riccardo Munda, 39 anni, da un anno a questa parte. C’è però anche un numero, o meglio una percentuale, di fronte alla quale questi numeri perdono il valore di ogni calcolo. E’ il 100% di guarigione dal Covid dei pazienti visitati a casa. Ci fosse una cura vera e propria per il virus 19, a distanza di un anno, non conteremmo di certo la media di 400 morti al giorno. Una cosa però è certa:ottenere il 100% di guarigione dal virus e mantenere questa percentuale fa un certo effetto. Ecco che, da Reuters al Guardian, da Repubblica alle Iene, la stampa nazionale e internazionale ha iniziato a indagare l’approccio terapeutico “do dutturi”che, da buon siciliano, ci ha rilasciato un’intervista “personale”, sulla sua diretta esperienza a contatto con il Covid. Si. Perché a differenza di molti, il medico in servizio fino a pochi giorni fa nell’epicentro della pandemia, tra i comuni di Selvino e Nembro, ha scelto di continuare a visitare i suoi pazienti a domicilio prevenendo, laddove possibile, il ricorso alle cure ospedaliere. Su 1.400 pazienti un centinaio hanno contratto il Covid e sono riusciti a guarire a casa. Come? Con una “semplice” terapia a base di antibiotici e ossigeno all’occorrenza. Ma, soprattutto, visitando i pazienti all’insorgere dei primi sintomi quando il panico aveva preso il sopravvento e a domicilio non si vedeva nessuno.
Dottore come ha individuato i benefici di questo apporto terapeutico?
“Non ho fatto studi a Oxford o scoperto chissà quale cura sperimentale, ho applicato semplicemente ciò che i miei studi mi hanno insegnato. Vengo da Mazzarino (Caltanissetta) e ho studiato a Catania, dapprima scienze biologiche e poi medicina. Durante le primissime visite, in presenza di polmoniti, ho usato due antibiotici in combinazione: un batteriostatico e un battericida. Il primo blocca la moltiplicazione dei virus e l’altro li uccide, in alcuni casi, per chi aveva la saturazione particolarmente bassa, ho fatto ricorso all’ ossigenoterapia , in altri ho proceduto con un normale mucolitico somministrato attraverso terapia con aerosol e ricorrendo all’idratazione del paziente.
Ho sconsigliato da subito di prendere antinfiammatori perché la febbre è un fondamentale indicatore della malattia e mi serviva per capire a che punto fosse l’infezione, calibrando l’intervento sul singolo paziente.Non ho mai somministrato il cortisone perché ho avuto evidenza che non occorre, anzi.
Assistenza domiciliare fornita da infermiere professionali e cooperative private accreditate hanno fatto il resto in mancanza di un approccio territoriale”.
Cosa è mancato nella prima fase della pandemia?
“E’ mancata l’assistenza e la presa in carico dei pazienti. C’è chi non è stato messo nelle condizioni minime di sicurezza, chi non ha potuto e chi non ha voluto intervenire. Il paziente è stato delegato a un sistema dove l’assistenza territoriale è mancata o è stata minima: un gap che personalmente ritengo imperdonabile, a causa del quale abbiamo perso tutti. Ma soprattutto in molti hanno perso la vita.”
Quale la colpa più grande nella gestione della prima ondata?
“La stessa di questa seconda e della terza. Non aver compreso che le primissime terapie Covid andavano fatte a casa, monitorando il paziente quotidianamente e intervenendo con visita domiciliare laddove necessario. Il gap del sistema sanitario nazionale è stato nell’assistenza primaria, quella locale e iperlocale, in mancanza della quale sono stati intasati gli ospedali e, conseguentemente, le terapie intensive dove i pazienti arrivavano quando era ormai troppo tardi.”
Perché nonostante le indicazioni della FIMMIG e l’istituzione delle USCA ha scelto di visitare a domicilio?
“L’ ho fatto per carità cristiana, né più né meno. Era un momento in cui nessuno voleva andare a visitare i pazienti e il medico di famiglia serve anche – e soprattutto – a questo. Mi trovavo in servizio a Selvino e Nembro, in sostituzione del medico di base dei due paesi, e le persone si sono aggrappate all’unica speranza che in quel momento avevano, il sostituto del loro dottore. Nonostante non tutti avessero fiducia in me – mi hanno permesso di curarli nelle loro case”.
Qual è il suo rammarico più grande?
“Il mio rammarico più grande è che la mia esperienza fatta sul campo non sia servita a nessuno:questo approccio terapeutico ha suscitato interesse anche all’estero ma qualcuno non ha gradito la mia presa di posizione netta e inequivocabile. Personalmente, dopo giorni di febbrone da parte del paziente, ho sentito la “normale” necessità di recarmi a casa per visitarlo direttamente e capire se mi trovavo di fronte a una polmonite da Covid o meno. Nel caso di contagio mi sarei curato, tutto qui”.
Si aspettava un riconoscimento ufficiale?
“No ma di certo mi aspettavo che in molti seguissero questa strada intrapresa già nel febbraio 2020 quando comparivano le prime polmoniti.
Non sogno di certo il Nobel per il Covid – c’è gente più qualificata di me e con curriculum di tutto rispetto – ma la mia intuizione, se non condivisa, andava quantomeno provata. Oggi visito a Partita Iva, ci sono pazienti che mi chiamano per visite domiciliari anche a Milano. Alcuni pagano anche per chi non può permetterselo”.
Ma in nessuno Stato normale le terapie dovrebbero essere somministrate privatamente -insistiamo – O NO?
Certo ma, ovviamente, c’è chi ha preferito curarsi affidandosi al medico di base e non se ne può fare una colpa al paziente se questi ultimi non sono stati messi nelle condizioni di intervenire.
Lei si è vaccinato? Cosa pensa della campagna di vaccinazione nazionale?
Non sono vaccinato e penso che l’Italia non sia partita bene perché i primi vaccini andavano sicuramente fatti ai più fragili. In questo momento non farò il vaccino e ritengo che il personale sanitario che ha già sviluppato anticorpi contro la malattia, debba lasciare la propria fiala innanzi tutto ai pazienti fragili. La storia mi darà conto di ciò che oggi affermo: chi ha sviluppato anticorpi – basta un semplice esame per verificarlo – deve dare precedenza a chi non ne ha.
Il suo attuale desiderio professionale?
“Lavorare all’interno di un reparto Covid provando ad applicare su larga scala questo approccio terapeutico. Dei cento pazienti curati durante la prima ondata, molti di più nella seconda, nessuno ha avuto bisogno di fare ricorso alle cure ospedaliere perché il virus è stato preso per tempo debito, anticipandone gli effetti devastanti che ha avuto su altri soggetti. Ribadisco che ho curato anche pazienti con patologie pregresse e tutti hanno risposto alla terapia in modo efficace e guarendo dal Covid con un normale decorso”.
Ha davvero acquistato a sue spese i primi presidi di protezione?
“Inizialmente era l’unica soluzione per non contagiarmi e non mi sento un eroe per questo. Ho fatto ciò che un medico fa semplicemente perché ha scelto di farlo. Inoltre sono un cristiano e questo mi ha spinto più di ogni altra cosa a recarmi dai malati in un primo momento abbandonati al loro destino nelle abitazioni, alcuni lasciati anche a morire soli. Fa male dirlo ma in qualsiasi parte del mondo, malati Covid muoiono annegati nei propri stessi liquidi come avviene ai migranti del canale di Sicilia, con gli occhi spalancati dal terrore. Forse mi sarei precipitato anche se avessi scelto un’altra professione, da medico ne ho sentito l’obbligo morale e professionale”.
A Mazzarino come hanno preso il suo “successo”?
“Inizialmente i miei piangevano: le notizie che si rincorrevano sui media non erano certo incoraggianti e, a distanza, tutto ha un effetto amplificato. Successivamente, ho deciso di tenere il massimo riserbo con amici e parenti evitando così preoccupazioni aggiuntive. Oggi in paese mi chiamano “il curatore” e mi contattano per seguire la terapia anche telefonicamente, dimostrando grande riconoscenza per il percorso intrapreso in Nord Italia. Non posso dire lo stesso di vari colleghi che hanno criticato il mio operato: io vado avanti a testa alta”.
Perché non sposta la sua missione al Sud?
“Perché tutte le vite hanno uguale importanza. Inserirmi in Sicilia lavorativamente è stato impossibile. E’ stato un caso che mi sia trovato nell’epicentro della pandemia, dove lavoravo già da quattro anni come sostituto presso l’ambulatorio di Selvino prima e Nembro poi. Africa, Nord Italia o Sicilia non importa: l’importante è non perdere mai di vista il contatto con il paziente, sono diventato medico per questo.Qui nessuno è un eroe”.