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Leggende e cunti siciliani

Il Gigante Manfrino

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Nelle calde sere d’estate, quando il sole si spegneva dolcemente dietro l’orizzonte e le strade di Gela si svuotavano dei giochi e delle risate dei bambini, iniziava il vero incanto. I più piccoli, ormai stanchi dalle corse e dai giochi, si raccoglievano intorno alle ginocchia dei loro nonni, impazienti di ascoltare quei racconti che, come una magica filastrocca, venivano tramandati di generazione in generazione.
Erano storie che riecheggiavano di mistero e di magia, leggende che facevano rabbrividire e sognare.

Tra i “cunti” più amati e richiesti dai bambini c’era sempre la leggenda del Gigante Manfrino.
Il semplice nome evocava immagini grandiose e affascinanti, di un tempo lontano in cui uomini tanto grandi quanto buoni camminavano sulla terra. La storia di Manfrino veniva narrata con tale enfasi che sembrava quasi di poterlo vedere, quel gigante dal cuore d’oro, mentre si ergeva maestoso accanto alla sua torre, sorvegliando con affetto il golfo di Gela.

Manfrino, così lo chiamavano, era un gigante dal cuore gentile, ma dalla forza immensa.
Nessuno sapeva esattamente da dove venisse o quale fosse il suo vero nome, ma la sua fama lo precedeva in tutta la Sicilia.
Insieme a lui, nella sua torre che dominava l’orizzonte, viveva sua sorella, una giovane donna dalla bellezza inarrivabile, che tutti chiamavano “La Castellana”.
Riservata e misteriosa, la Castellana preferiva restare nelle sue terre, lontana dagli sguardi curiosi e dalle chiacchiere del mondo esterno.
Si diceva che la sua bellezza fosse tale da illuminare ogni angolo della torre, e che fosse così preziosa agli occhi del gigante da spingerlo a coltivare immensi giardini di fiori e frutti solo per lei.

Le terre del Manfrino, che si estendevano fino al confine con il castello di Falconara, erano un paradiso di prosperità. Campi rigogliosi di alberi da frutto, prati fioriti e ruscelli che scorrevano limpidi, disegnavano un quadro di abbondanza che incantava chiunque vi si trovasse.
La leggenda narra che questa ricchezza fosse un’eredità lasciata loro da un cavaliere di Malta, un tale Bertu di cui il cognome si era perso nella polvere del tempo, ma che aveva legato il suo destino a quello del Gigante e della sua sorella adorata.

Manfrino, però, non era un uomo che si accontentava di restare fermo.
Amava galoppare per le sue terre, osservando da vicino il suo regno, e nulla gli sfuggiva. Un giorno, mentre cavalcava attraverso i suoi campi, scorse da lontano una figura femminile che non aveva mai visto prima. Era una donna straordinaria, con lunghi capelli dorati che danzavano al vento e un portamento elegante che catturava ogni sguardo. La donna sembrava smarrita, come se cercasse qualcosa o qualcuno in quella distesa di fiori e alberi.

Il Gigante, incuriosito e affascinato, spronò il suo cavallo, ansioso di conoscerla.
Ma quando giunse nel punto esatto in cui l’aveva vista, la donna scomparve nel nulla, come un sogno dissolto all’alba. Solo l’impronta dello zoccolo del cavallo, incisa nel terreno, rimase a testimoniare il suo passaggio.
Fu lì che, col tempo, venne costruita una piccola fontanella, in ricordo di quell’incontro sfuggente.

Da quel giorno, Manfrino non trovò più pace. Ogni notte, sotto il chiarore della luna e il suono delle onde che lambivano la costa di Manfria, il Gigante restava sveglio, scrivendo poesie e intonando canti per quella donna misteriosa che aveva rapito il suo cuore.
Era come se il vento portasse con sé il suo volto, e ogni soffio d’aria gli sussurrasse il suo nome.
Sua sorella, la Castellana, preoccupata per il fratello che si consumava d’amore, decise di organizzare una grande festa. La sua speranza era che, tra i nobili e i principi invitati, la donna potesse tornare, e che finalmente il Gigante potesse confessare i suoi sentimenti.

E così fu. La festa si tenne nella grande torre di Manfria, e vi parteciparono ospiti da ogni angolo della Sicilia.
Ma quando la musica e i festeggiamenti erano ormai nel pieno, tra gli invitati apparve lei, la donna dei sogni del Gigante.
Manfrino la vide subito, e in un istante il mondo intorno a lui sembrò svanire. La seguì con lo sguardo, rapito dalla sua bellezza, finché la vide uscire dalla torre e dirigersi verso la spiaggia, come in cerca di quiete sotto il cielo stellato.

Il Gigante la seguì, ma mentre camminava sulla sabbia, il ricordo di una vecchia predizione tornò a tormentarlo.
Una strega gli aveva detto che nel giorno più felice della sua vita, avrebbe perso tutto: la sua amata terra si sarebbe inaridita, l’acqua che tanto abbondava sarebbe scomparsa, e persino la sua adorata sorella avrebbe trovato la morte. Manfrino scacciò quei pensieri funesti, deciso a confessare il suo amore, ma il destino aveva altri piani.

La donna, come spinta da una forza invisibile, si immerse nel mare e scomparve tra le onde. Il Gigante tentò di seguirla, ma una strana forza lo tratteneva, immobilizzandolo sulla riva. Intanto, nella torre, un complotto veniva tessuto dai nobili invitati. Gelosi delle ricchezze del Gigante, serrarono le porte e massacrarono gli ospiti, inclusa la povera Castellana.

Quando i cospiratori raggiunsero la spiaggia, trovarono Manfrino paralizzato dal dolore e dalla magia, e con una crudeltà senza pari lo uccisero, ponendo fine alla sua vita ma non alla sua leggenda.

Ma il ricordo del Gigante non svanì con lui.
Ancora oggi, nelle notti più calme, si dice che le sue grida di dolore risuonino tra le onde di Manfria, mentre il vento porta con sé l’eco di un amore perduto e di un destino tragico.

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Daniele Maganuco racconta: “Il Canto della Pivila”

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Nei vicoli stretti e tortuosi di un antico quartiere siciliano, le case dai tetti in coppo si stringevano l’una all’altra come a cercare protezione. Le pale di fichi d’India crescevano indisturbate sui tetti, creando delle sagome verde brillanti che sembravano sfidare il tempo. Era una notte come tante, silenziosa…

In quella notte, un vecchietto, ormai stanco, lottava per trovare la pace. La sua famiglia lo vegliava con devozione, ma le ore si facevano sempre più lunghe, e il respiro affannoso del moribondo riempiva la casa di un silenzio denso. All’improvviso, un canto agghiacciante squarciò l’aria. Era la Pivila, come viene chiamato il barbagianni in lingua siciliana. Il suo verso era spaventoso, simile a un urlo di terrore che si propagava tra le case, un richiamo cupo e minaccioso che solo chi conosceva la tradizione poteva comprendere.

Il barbagianni si posò sul tetto della casa del moribondo. Nessuno lo vide, ma chi conosceva le leggende capì subito. La Pivila era giunta per aiutare l’anima del vecchietto a trovare pace, a permettergli di esalare l’ultimo respiro e passare oltre. Si diceva che questo uccello, considerato portatore di sventura, fosse in realtà un custode tra i due mondi, capace di aiutare chi non riusciva a liberarsi dalla vita terrena.

Il grido inquietante continuò per alcuni minuti, penetrando i cuori dei vicini come un avvertimento. Poi, improvvisamente, tutto si fermò. Il canto cessò e il vecchio spirò, come se quel suono spettrale avesse finalmente liberato la sua anima. La Pivila, silenziosa e invisibile, volò via.

Nel quartiere, però, la Pivila non portava via un’anima sola. Nei giorni successivi, altre tre morti si verificarono nel quartiere. Un’anziana a est, un uomo a ovest, e un altro a sud. E così, come già successo altre volte, le morti formarono una croce immaginaria sulla mappa del quartiere, con il vecchietto al punto nord.

Non era una croce visibile, ma chi conosceva la storia sapeva che quel segno era come un ciclo naturale di vita e morte. Quando la Pivila appariva, le anime pronte a partire la seguivano, tracciando un disegno invisibile sul quartiere. Gli abitanti, però, non osavano parlare apertamente di quella strana coincidenza. La morte era un mistero che preferivano lasciare avvolto nel silenzio.

E così, anche quella notte, il canto del barbagianni si spense nel nulla, lasciando dietro di sé un quartiere segnato dal passaggio tra la vita e la morte, una verità che si tramandava di bocca in bocca, di generazione in generazione.

Disclaimer: Il barbagianni è un uccello bellissimo e maestoso, simbolo di saggezza e protezione in molte culture antiche. La superstizione che lo lega alla sventura nasce da credenze popolari diffuse dai primi cristiani. In epoca pagana, infatti, il barbagianni e la civetta erano simboli sacri, legati alla dea Atena, dea della saggezza e della guerra giusta. Solo in seguito, con l’avvento della religione cristiana, furono trasformati in simboli negativi e demoniaci.

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Leggende e cunti siciliani

Daniele Maganuco racconta: la maledizione dei 7 cavalieri

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Erano i primi del Novecento e Salvatore, un giovane di appena diciotto anni, era il primogenito di una famiglia numerosa, composta da undici fratelli. La povertà e le difficoltà della sua famiglia lo avevano costretto a lasciare presto la scuola per dedicarsi al lavoro e contribuire al sostentamento dei suoi cari. Nonostante avesse frequentato poco la scuola, Salvatore possedeva una passione nascosta e profonda per la lettura e la scrittura. Nelle poche ore libere che riusciva a ritagliarsi, si divertiva a scrivere sonetti e poesie in siciliano, trovando conforto nella bellezza delle parole. La sua figura, robusta e di statura media, era quella di un lavoratore esperto, con la pelle scura baciata dal sole, il viso scavato dalle fatiche e dai sacrifici. Accanto a lui, inseparabile, c’era sempre il suo fedele asinello, “Carusu,” un compagno di viaggio e di vita.

Un pomeriggio del mese di marzo, Salvatore partì con Carusu e il suo carretto per un lungo viaggio verso la zona di Tenutella, vicino al castello di Falconara. Doveva lavorare in quella zona per qualche giorno, e sapeva che sarebbe dovuto partire con un giorno di anticipo per poter cominciare il lavoro all’alba. Il tragitto era lungo, e così Salvatore si preparò mentalmente alla fatica, ma con il cuore leggero, come sempre, affrontava le giornate. Con sé, aveva portato solo il necessario: un po’ di pane, qualche pezzo di pecorino e una fiaschetta di vino rosso che sua madre gli aveva preparato, insieme a una cena povera ma sostanziosa di fave pizzicate con l’aglio.

La sera era calata dolcemente su quella campagna silenziosa quando Salvatore, giunto a Tenutella, scorse sulla collina un vecchio casale arroccato. Decise di fermarsi lì per la notte. Entrò nel baglio di quella costruzione deserta, e trovò un angolo riparato dove poter far riposare Carusu. Dopo aver coperto l’asinello con una vecchia coperta, si sedette su una pietra, prese la sua semplice cena e cominciò a mangiare, gustando il cibo con quella gratitudine che solo chi lavora la terra conosce. Il vino lo scaldava mentre la stanchezza lo avvolgeva lentamente, e così, appoggiandosi al carretto, crollò in un sonno profondo.

Fu nel cuore della notte che un rumore sordo lo svegliò bruscamente. Un’ombra misteriosa si stava avvicinando a lui, e una voce profonda, quasi sussurrata, lo chiamò per nome: “Turí, è da tanto tempo che ti aspettiamo. Finalmente il destino ti ha condotto a noi.” Salvatore si alzò di scatto, il cuore che batteva forte nel petto. Davanti a lui c’era un uomo avvolto in un lungo mantello, con un viso serio e pallido, gli occhi vuoti come la notte. “Chi siete?” chiese il giovane, con la voce rotta dal timore. “Perché mi aspettavate?”

L’uomo, senza scomporsi, gli rispose: “Noi siamo sette anime di cavalieri, condannati a vagare in questo luogo per l’eternità. In vita, fummo vittime di un agguato da parte dei saraceni, e una maledizione ci ha intrappolati qui, senza possibilità di redenzione. Tu, Salvatore, sei l’unico che può liberarci. Solo tu puoi spezzare l’incantesimo e darci pace. Se lo farai, in cambio, avrai in dono ricchezze e gioielli oltre ogni immaginazione.”

Salvatore rimase senza parole. Era come vivere in una delle favole che raccontava ai suoi fratellini prima di dormire. Il cuore gli diceva di fuggire, ma la mente curiosa e la speranza di poter migliorare la sua vita lo fecero restare. “Cosa devo fare?” chiese, cercando di mantenere la calma. Il cavaliere gli spiegò che il giorno in cui si sarebbe sposato, avrebbe dovuto tornare in quel baglio per consumare il matrimonio, ma solo dopo aver mangiato sette fegati. “I fegati devono appartenere a sette fratelli,” concluse l’uomo, fissandolo con occhi cupi.

Passarono alcuni anni. Salvatore mantenne quel segreto nel profondo del cuore, senza parlarne con nessuno. Nel frattempo, aveva trovato una giovane donna di cui si era innamorato, e i preparativi per il matrimonio erano ormai alle porte. Ricordandosi della promessa fatta al cavaliere, Salvatore chiese a sua madre di mettere ventuno uova sotto una chioccia. Le uova si schiusero, e nacquero tanti piccoli galli e galline. Il giorno del matrimonio, Salvatore chiese a sua madre di uccidere sette di quei galli, ma di lasciarli intatti, senza neanche togliere le interiora.

Dopo la cerimonia, Salvatore e sua moglie partirono con Carusu e il carretto verso Tenutella, portando con sé i galli. Arrivati al vecchio casale, accesero un fuoco e consumarono il loro primo pasto da marito e moglie. Poi, Salvatore prese i sette galli, li macellò e arrostì i loro fegati. Appena terminato il pasto, una luce abbagliante illuminò il baglio e i sette cavalieri apparvero davanti a loro. L’uomo con il mantello si avvicinò a Salvatore e gli disse: “Hai dimostrato astuzia e saggezza, scegliendo di sacrificare sette galli invece dei tuoi fratelli. Ora, come promesso, riceverai le nostre ricompense.”

Il primo cavaliere si avvicinò a Carusu e, con un gesto delle mani, disse: “Il tuo asinello vivrà per sempre. Sarà al tuo fianco in ogni momento, instancabile e immortale.”

Il secondo cavaliere consegnò a Salvatore un borsello di cuoio. “Questo è pieno di marenghi d’oro. Ogni volta che ne prenderai uno, un altro apparirà al suo posto. Non conoscerai mai più la povertà.”

Il terzo cavaliere gli donò un anello d’argento, dicendogli: “Finché indosserai questo anello, nessuna malattia ti colpirà.”

Il quarto cavaliere gli diede un’antica pergamena: “Questa pergamena ti garantirà il rispetto e la benevolenza di chiunque la leggerà. In qualsiasi città tu andrai, sarai sempre il benvenuto.”

Il quinto cavaliere gli consegnò una piccola chiave d’oro. “Questa chiave apre tutte le porte del mondo. Quando ne avrai bisogno, saprai dove cercare.”

Il sesto cavaliere regalò a Salvatore una giara d’acqua incantata: “Questa giara non si svuoterà mai, e l’acqua che contiene guarisce ogni ferita e malattia.”

Infine, il settimo cavaliere si avvicinò con un pugnale, corto e affilato, forgiato in un metallo lucente. “Con questo pugnale potrai proteggere te stesso e chi ami. È indistruttibile, e il suo potere è leggendario.”

Salvatore guardò i sette cavalieri, incapace di parlare, sopraffatto dalla gratitudine e dall’incredulità e mentre l’ultima luce dei cavalieri svaniva nell’aria, Salvatore rimase immobile, stringendo la mano della sua giovane sposa.

I doni ricevuti non erano solo segni di ricchezza, ma di saggezza, forza e immortalità, più preziosi di qualunque oro. Guardò il suo fidato Carusu, che brucava pacifico, e capì che la vita non sarebbe mai stata più la stessa.

La notte era tornata silenziosa, come se nulla fosse accaduto, ma nei suoi occhi brillava il segreto di una verità che nessuno avrebbe mai saputo. Il baglio, antico e misterioso, li accolse come custodi di una leggenda destinata a sopravvivere ai secoli.

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Daniele Maganuco racconta: La notte dell’assedio “Melantòo e il sacrificio delle gelesi (405 a.C.)”

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Il racconto che segue è ispirato a eventi storici realmente accaduti, che ruotano attorno alla battaglia del 405 a.C., quando Gela venne assediata dai Cartaginesi. La notte dell’assedio: Melantòo e il sacrificio delle gelesi (405 a.C.)

Nell’anno 405 a.C., Gela era sotto assedio. Le forze cartaginesi, implacabili e numerose, attaccavano la città giorno dopo giorno. La battaglia che si combatteva non era solo tra uomini: anche le donne gelesi si rifiutavano di fuggire, scegliendo di lottare fianco a fianco con i loro mariti e figli. Tra di loro vi era Melantòo, una donna dal cuore impavido che, insieme a molte altre, aveva scelto di restare, rifiutando la via di fuga verso Kamarina.
Durante il giorno, gli eserciti nemici avanzavano, aprendo varchi nelle fortificazioni della città. Le mura, simbolo di protezione e forza, venivano demolite colpo dopo colpo. Ma, sotto il manto oscuro della notte, un diverso tipo di esercito si alzava: le donne di Gela. Melantòo, con mani callose e spirito determinato, lavorava insieme alle sue compagne, ricostruendo le brecce aperte dai cartaginesi.
Ogni notte, mentre i soldati riposavano, Melantòo e le altre donne raccoglievano pietre, impastavano fango e riparavano i danni, riportando le mura alla loro forza originaria. Era un’azione disperata, ma colma di speranza. Ogni mattina, le truppe cartaginesi trovavano una città che si rifiutava di cedere, e dietro quel miracolo notturno c’era il lavoro instancabile delle donne gelesi.

Tuttavia, la furia dei cartaginesi era inarrestabile. Nonostante l’eroismo di Melantòo e delle sue compagne, il destino di Gela era segnato. L’assedio del 405 a.C. si concluse con la distruzione della città, e il sacrificio di uomini e donne divenne leggenda.
Melantòo e le sue compagne non cercavano la gloria, ma il loro coraggio divenne per sempre parte della memoria di Gela. Non erano solo combattenti nell’ombra; erano l’anima di una città che, fino all’ultimo respiro, si era rifiutata di arrendersi.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
Testata giornalistica: G. R. EXPRESS - Tribunale di Gela n° 188 / 2018 R.G.V.G.
Publiedit di Mangione & C. Sas - P.iva: 01492930852
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