Ipse Dixit
“In Sicilia più salite che discese”. Gino Astorina punta sull’energia dei giovani
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2 anni fail

Da oltre trent’anni è protagonista incontrastato della scena teatrale siciliana. La sua comicità è sempre influente e i temi che porta in scena rispecchiano la realtà di quel preciso momento. Attuale, contemporaneo, senza retorica. E senza bavaglio. Disquisendo con Gino Astorina, si tocca con mano la minuziosa sottigliezza che lo caratterizza. Da sempre.
Com’è nata la passione (poi trasformatasi in lavoro) per lo spettacolo?
“Casualmente come tutte le cose. Già in oratorio ho cominciato a muovere i primi passi (classica compagnia amatoriale della parrocchia), poi al liceo, quando ho scoperto che in classe c’erano altri “folli” che amavano il teatro come me”.
Hai pure creato un teatro che prende il nome del gruppo “Il Gatto blu”. Ma cos’è “Il Gatto blu” e perché la scelta di questo nome?
“Il Gatto blu nasce come nome di un gruppo cabarettistico (ultimo anno poco prima del diploma, nel 1976) per poi diventare il nome della sala (Hàrpago in verità) dove ci esibiamo. Il nome è quanto di più strano poteva accaderci. La nostra prima sala aveva bisogno di una imbiancata, la classica bella mano di colore per non far vedere i buchi e le macchie sul muro. Comprammo il colore che costava meno e durante la prima passata, notammo di avere dimenticato la latta aperta…Bene, un gatto ha pensato di macchiarsi le zampine lasciando le orme per tutto il pavimento. Invece di scoraggiarci, trovammo il nome del gruppo”.
Sei d’accordo se scrivo che il teatro, così come un campo da calcio, una palestra, una sala di incisione, deve rappresentare un punto di riferimento, soprattutto per i giovani?
“Certissimamente! Questi luoghi hanno il dovere di accogliere l’energia dei giovani affinché possano esprimersi al meglio”.
Rimanendo in tema di giovani: perché in tanti (troppi), dopo avere conseguito il diploma, scappano via dalla Sicilia?
“La risposta potrebbe essere ovvia e scontata: per mancanza di prospettive e di futuro, non ultima l’assenza di strutture che consentano di poter realizzare i propri sogni. Ma non è sempre così. A volte si ha voglia di cambiare aria, di scoprire qualcosa di diverso, ma se riusciamo a non essere provinciali si va via dalla Sicilia perché ci sono più salite che discese”
Perché è ancora così evidente la differenza (soprattutto in ambito occupazionale) tra Nord e Sud Italia?
“Questa è una domanda dalle mille risposte e tutte plausibili. Perché conviene, per poter gestire meglio il parco voti, per avere un’area sviluppata ed una depressa è così che funziona l’economia, perché come dicevano i latini divide et impera!”
La Sicilia potrebbe vivere solo di turismo, avviando un connubio tra diretto e indotto. In pochi, però, si spendono per questo. Qual è secondo te il motivo?
“Copia ed incolla la risposta che ti ho dato prima!”
Dopo fiumi di parole, adesso c’è il via libera del governo sulla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Favorevole?
“Si, purché si faccia! E non rimanga solo un progetto da rivangare o eliminare col prossimo governo”.
Per la prima volta c’è una donna alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Qual è il tuo giudizio su Giorgia Meloni?
“Troppo poco tempo per giudicare, posso solo dire che dev’essere molto brava a difendersi dal fuoco… amico!”
Cosa provi quando la Sicilia viene etichettata solo ed esclusivamente come terra di mafia?
“Meschinità per chi fa di tutta l’erba un fascio. E’ senza dubbio un disagiato”.
Sei stato più volte a Gela per una serie di spettacoli. Cosa ti ha colpito in particolare della città e dei gelesi?
“Che rappresenta in pieno la Sicilia nel bene e nel male, nella bellezza, nella solarità, nell’indolenza, nell’attesa che qualcuno venga a risolvere i propri problemi. Nella genialità di fare di necessità virtù”.
Se tornassi indietro nel tempo, rifaresti le stesse cose in ambito professionale?
“Credo di si, non perché abbia fatto tutto bene, anzi!!! Ma non conoscendo le conseguenze…”
Cosa avresti voluto portare in scena ma per una serie di circostanze, non sei riuscito?
“Avevo programmato per i trent’anni della nostra sala, uno spettacolo di trenta ore consecutive, con l’intervento di tutti quegli amici che ci avevano onorato della loro presenza durante questi anni. Avevo già preso i contatti e le ore di esibizione… l’anniversario cadeva a marzo del 2020 (in piena pandemia)…vuol dire che festeggeremo per 35 ore!”
Chi ritieni sia stato negli anni il migliore attore teatrale siciliano e perché?
“Dovremmo fare un distinguo per epoca… Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro… non mi sento di nominarne solo uno, è come dire del miglior giocatore al mondo parlando di Maradona senza ricordare Pelè”
Qual è il rapporto che hai con i tuoi omologhi?
“Terapeutico! Racconto delle mie ansie, delle mie fobie, perciò se il pubblico ride vuol dire che non sono solo ed in più ho risparmiato soldi dell’analista”.
Com’è nata la collaborazione cinematografica con Ficarra e Picone?
“C’eravamo conosciuti anni prima a Palermo perché facevamo una trasmissione curata da Gianni Nanfa ed Ignazio Mannelli dal nome Grand’hotel cabaret, poi loro hanno avuto l’opportunità di girare il primo film “Nati stanchi” ed io l’opportunità di interpretare un sindaco a metà tra il sognatore l’imbonitore”.
Divertente la tua interpretazione del commissario di Polizia nel film “La Matassa”. Esilaranti soprattutto le gag con Gaetano Pappalardo, nelle vesti del poliziotto tuttofare. Si percepisce che tra voi due c’è una vera e propria amicizia…
“Si, ma anche tanti anni di televisione fatta insieme. Poi, quando ci si diverte tutto viene più semplice e facile. Ed in quel film ci siamo divertiti veramente tanto”.
Nella serie “Incastrati” su Netflix, sei il dottor Tantillo, medico al servizio del boss. Sovente, le cronache raccontano che tutto ciò accade anche nella realtà. Come ti spieghi questa commistione?
“Nella vita purtroppo la realtà supera la fantasia e quando scrivi una sceneggiatura, stai attento a non esagerare per rendere credibile la storia, ma poi sei puntualmente smentito dai fatti di cronaca che superano in grottesco e di gran lunga l’inventiva”.
Con chi ti sarebbe piaciuto lavorare?
“Avrei un elenco telefonico di nomi con i quali avrei voluto lavorare, ma l’età anagrafica non me l’ha consentito. E poi chi l’ha detto che loro avrebbero voluto lavorare con me???”
Che genere musicale ascolti?
“Tutti, amo la musica in generale, però se devo rilassarmi, pensare, cominciare a scrivere qualcosa, non trovo niente di meglio che ascoltare i Beatles nella versione della London Symphony Orchestra”.
Il Catania ha stravinto il campionato di serie D. Dopo tante amarezze, adesso c’è un’alba nuova. L’effetto Pelligra ha funzionato. Sarai strafelice, credo…
“E’ chiaro, spero che questo successo calcistico possa fungere da volano per un’altra promozione…”
Quale?
“Quella della mia città. Catania, in questo momento, si trova nei bassifondi di una classifica che mortifica tutti noi. E c’è poco da ridere. Anzi…”
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Ipse Dixit
“Il disagio giovanile frutto della disgregazione del sistema famiglia”
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2 settimane fail
1 Marzo 2025
Innamorata del mare e degli sport all’aria aperta, fin da ragazzina ha praticato nuoto, equitazione, pallavolo e per arricchire il suo bagaglio anche la danza classica. Poi, quando è giunto il momento di concentrarsi esclusivamente sul lavoro, ha deciso di fare il magistrato. La dottoressa Simona Filoni, pugliese di Nardò, nel Salento, è Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Lecce. Personalmente la considero una persona ricca di entusiasmo, così come lo è la sua terra d’origine, sempre in continua scoperta, tra stupore e respiro, tra mare, promontori, ulivi, trulli, masserie, chiese, castelli, vicoli, muretti a secco, terre selvagge, orizzonti illimitati e tramonti indimenticabili. Risentirci, dopo l’esperienza vissuta a Caltanissetta tanti anni addietro, è un piacere. Per entrambi.
“Il pensiero di tentare la carriera in magistratura – dice – è maturato nel corso dell’Università; quando mi sono iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, in realtà, ero orientata per il concorso di Commissario di Polizia perché volevo arruolarmi, operare tra la gente ed aiutarla. Man mano che superavo gli esami ho pensato che sarebbe stato bello tentare il concorso in magistratura, fare il pubblico ministero perché ho sempre amato l’investigazione, coordinare le Forze dell’Ordine, lavorare insieme, in gruppo (metodologia applicata in seguito in diverse indagini come modello operativo). Avevo deciso che avrei provato, comunque, il concorso in magistratura, seppur difficilissimo, e che avrei continuato fino all’esaurimento delle prove (non si possono riportare, infatti, più di tre bocciature) e, per fortuna, è andata bene. Erano gli anni in cui esplodeva “Tangentopoli” e l’indagine “Mani Pulite”, gli anni di Di Pietro, il che comportò una sorta di rivoluzione delle coscienze tra i giovani, con il risultato che ad ogni concorso, con una media di 300 posti messi a bando, vi fossero anche oltre 20000 domande di partecipazione ed oltre 10000 candidati che si presentavano agli scritti”.
Il suo primo incarico risale al 1998, quando a Mantova prese servizio presso la Prefettura in qualità di consigliere
“Ho intrapreso la carriera prefettizia il 10 ottobre del 1994. Ero giovanissima, piena di entusiasmo e di belle speranze. Di quegli anni ricordo la gestione in prima persona di due alluvioni, quella del 1994 e del 1996 causate dalle esondazioni del fiume Po, le riunioni senza sosta di coordinamento nella Sala della Protezione Civile, la cooperazione nella gestione del terremoto in Umbria del 1995, ma anche le prime manifestazioni della Lega Nord che fissò la sua sede a villa “Riva Berni” a Bagnolo San Vito (Mantova); la visita dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in un clima di accesa contrapposizione al governo centrale; la difesa della sede del Palazzo della Prefettura di Mantova che i leghisti volevano “sfrattare” e che mi fu affidata, con esito favorevole, dall’allora Prefetto Sergio Porena. Ma, più di tutto, ricordo la gratitudine e la genuinità dei mantovani, i loro sorrisi sinceri, le loro mani piene di fiducia e di speranza nell’operato delle Istituzioni, le loro visite in Prefettura per ringraziare me, come Istituzione, rappresentante dello Stato a livello locale per essermi attivata in più ambiti, in svariate circostanze, come se quello fosse espressione di un dono ricevuto e non semplicemente frutto del mio dovere. Ricordo che rinunciai alla possibilità che mi fu offerta di essere trasferita alla Prefettura del Quirinale, una possibilità che mi riempì di una gioia immensa, che apprezzai con somma gratitudine senza però accettare perché avevo un sogno, e quel sogno era la magistratura”.
Ha conosciuto la Sicilia ed in particolare la provincia di Caltanissetta, dopo avere svolto la funzione di sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale nisseno, entrando a far parte, successivamente, nella Direzione Distrettuale Antimafia. Qual è il caso di cronaca che più l’ha coinvolta e perché?
“Di sicuro vanno ricordate le grandi operazioni sull’accertamento dell’operatività sul territorio nisseno di associazioni per delinquere finalizzate alla tratta di esseri umani da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento lavorativo. Tra tutte le operazioni che ho coordinato come magistrato della DDA di Caltanissetta, ricordo ” Levante”, “Eldorado”, “Reberth”, “Odessa” che hanno consentito di sottrarre alle maglie delle organizzazioni criminali decine di donne di origine rumena. Ricordo anche l’Operazione “Golden Boys”, risalente al 2013, che ha permesso di sgominare un’associazione operante nel territorio gelese e nei territori limitrofi, dedita alla commissione di rapine, furti in abitazioni, danneggiamenti e numerosissimi episodi criminosi con conseguimento di ingenti profitti, oltre che allo spaccio di sostanze stupefacenti con arresti che hanno riguardato non solo soggetti maggiorenni ma anche sette minorenni, per un totale di 20 persone. Ricordo anche l’omicidio di Francesco Martines e del contestuale tentato omicidio di altri due soggetti, parenti della vittima, risalente al dicembre 2012, il cui corpo fu trovato in un terreno incolto in contrada Spinasanta e che vide in azione due complici, di cui un minorenne che all’epoca fu attinto da provvedimento di fermo assieme ad Angelo Meroni. Menziono, per efferatezza, anche il brutale pestaggio nel 2008 ordito ai danni di un giovane, Giovanni Martorana, all’interno della discoteca “Caligola” di Gela, alla presenza di alcune centinaia di persone. Quel caso costituì l’emblema della cattiveria umana, trattandosi di un delitto di tentato omicidio maturato sol perché la vittima aveva “osato” approcci ad una ex ragazza di uno dei soggetti coinvolti nell’inchiesta. La povera vittima fu aggredita selvaggiamente da più soggetti, di cui quattro maggiorenni e tre minorenni, colpita senza pietà con ferite gravissime riportate soprattutto alla testa e fu salvata solo grazie all’intervento della sorella, che trascinò il corpo del fratello letteralmente fuori dalla discoteca, nell’indifferenza e nell’inerzia generale. Non posso non citare l’omicidio della povera Carmelina Sferrazza (avvenuto a Delia nel 2003) e quello della povera Lorena Cultraro (Niscemi, maggio 2008), ad opera di tre minorenni, entrambi caratterizzati da inaudita ferocia e crudeltà e dalla totale assenza di pentimento per il gesto commesso e di pietas nei confronti delle povere vittime”.
Nel suo cammino lavorativo ha conosciuto tanti colleghi. Chi le ha dato di più e cosa ha appreso?
“Alla Sicilia devo tutto quello che sono e che sono diventata. Essere approdata alla Procura di Caltanissetta a 29 anni è stata la fortuna più grande della mia vita e allo stesso tempo la parte più bella della mia vita, densa di ricordi indelebili che custodisco gelosamente. Ho accolto la destinazione con il sorriso e con l’entusiasmo dettati dall’età e dal mio spirito avventuriero, cui si sono aggiunti il privilegio di avere grandi maestri che mi hanno accolta come una figlia e che mi hanno instradata nel faticoso percorso della mia professione; che hanno saputo cogliere tutte le sfaccettature della mia personalità, che mi hanno insegnato tutto e senza i quali non sarei mai diventata il magistrato e la donna che sono, trasmettendomi il coraggio per la verità e la forza della giustizia, facendomi comprendere l’importanza del valore di ogni persona e che dietro ogni fascicolo c’è una vita umana. Mi riferisco ai Procuratori dott. Giovanni Tinebra, Renato Di Natale, Francesco Messineo, ai miei ” maestri di vita”, cui vanno aggiunti numerosi colleghi della Procura stessa e degli Uffici Giudicanti del Distretto che costituiscono ed hanno costituito delle vere e proprie ” eccellenze” e che hanno contribuito a scrivere la storia giudiziaria italiana. Di sicuro posso affermare di essere stata una privilegiata, perché ho avuto la fortuna e l’onore di lavorare al fianco di Magistrati di altissimo profilo, il cui ricordo resterà scolpito nella mia mente finché avrò vita”.

Chi è stata per lei la dottoressa Caterina Chinnici?
“La dottoressa Caterina Chinnici è stato il Procuratore con cui ho iniziato a svolgere servizio presso la Procura per i Minorenni di Caltanissetta (nell’anno 2008 e poi dal 2010 al settembre del 2014) e che mi ha consentito di affinare le mie competenze in un settore che ho sempre trattato ma che, fino ad allora, avevo approfondito soltanto dal punto di vista delle vittime minorenni. Con il mio arrivo alla Procura per i Minorenni di Caltanissetta ho potuto occuparmi delle varie manifestazioni del disagio e della devianza minorile, ottenendo apprezzabili risultati investigativi e processuali nel Distretto. Com’è noto, infatti, il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta ha visto celebrare, per primo, processi in materia associativa di stampo mafioso e processi in materia di art. 74 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 ed ha gestito, da anni, numerosi collaboratori di giustizia macchiatisi di crimini gravissimi sin da minorenni. La dottoressa Chinnici ha rappresentato per me una guida sicura ed amorevole, che con la sua somma professionalità e con la sua innata dolcezza e la fiducia che ha riposto nelle mie capacità ma, soprattutto, nella mia ferrea volontà di lavorare e di farlo bene, mi ha messa nelle condizioni di raggiungere tantissimi importanti risultati investigativi e processuali, consentendo di assicurare alla giustizia soggetti minorenni autori di crimini gravissimi, soprattutto appartenenti all’area malavitosa gelese e di avviare importanti coordinamenti investigativi con le Procura del Distretto, vale a dire Caltanissetta, Enna e Gela, così da addivenire anche all’esecuzione congiunta di ordinanze in materia cautelare. Lo stesso vale per il suo impegno in ambito “civile”, tradottosi negli interventi a tutela dei nuclei disagiati e dei minori nati e cresciuti in ambienti caratterizzati da deprivazioni e arretratezza; anche in questo ambito il suo esempio mi è servito per comprendere l’importanza dell’informazione, della cooperazione tra gli enti preposti al sociale, degli interventi in prevenzione a tutela dei minori da avviare sul territorio sostenendo i nuclei familiari in maniera efficace e nell’interesse della loro sana e serena crescita. La dott.ssa Caterina Chinnici è stata e sarà sempre un punto di riferimento importante per la mia vita professionale, oltre che una grandissima donna ed un Magistrato autorevole che ho avuto l’onore ed il privilegio di affiancare e che ha reso “grande” la Procura per i Minorenni di Caltanissetta. Il mio ringraziamento va anche a tutto il personale della Procura per i Minorenni di Caltanissetta che si contraddistingue per professionalità, umanità e dedizione alla causa”.
Parlavamo della Procura dei Minori di Caltanissetta, che poi ha diretto. Prevalentemente i fari sono stati accesi su Gela e Niscemi, città nelle quali è tuttora presente una fetta consistente di ragazzini “terribili”?
“Gela ha costituito e costituisce, purtroppo, assieme a Niscemi, un bacino ad altissimo tasso delinquenziale minorile e ciò accade per appartenenza familiare e per la concomitante assenza di alternative legali per i giovani. E’ per questo che in alcune realtà hanno trovato applicazione Protocolli strutturati in modo da allontanare minori già “predestinati” dall’ambito familiare di appartenenza, proprio per offrire loro la possibilità di vivere in contesti sociali sani, lontani da modelli malavitosi e strutturati in senso deviato. Gela e Niscemi hanno costituito negli anni i maggiori centri tristemente assurti alle cronache giudiziarie per minorenni assoldati da gruppi associativi di stampo mafioso, impiegati nella commissione di efferati delitti, tanto da divenire la culla dei “baby killer” ed il luogo in cui, purtroppo, molte volte, al compimento del quattordicesimo anno di età, il minore riceve come regalo “il ferro”, vale a dire un’arma, in una sorta di battesimo del fuoco e di benvenuto nel regno degli adulti. Oggi giorno il fenomeno della criminalità minorile e, più in generale, della devianza minorile ha assunto proporzioni immani, in tutta Italia, con una escalation di delitti sempre più atroci commessi da soggetti sempre più piccoli, nel più totale disprezzo per la vita umana e nella totale assenza di regole e di rispetto delle leggi dello Stato. A ciò si aggiungono numerosissimi casi di minori che, soprattutto dopo gli anni del lockdown, hanno dato segni di disagio mentale e di notevole conflittualità familiare, non disgiunti da isolamento sociale ed assenza di scolarizzazione. Sono questi gli aspetti sui quali occorrerebbe incidere in maniera consistente, agendo non solo in prevenzione con interventi mirati a tutela delle fasce deboli e dei minori in primis, ma anche ampliando il numero di strutture ricettizie per minori con problemi di disagio psicologico o psichico o connesso all’abuso di sostanze. Costante, instancabile risulta essere l’attività delle Procura per i Minorenni del territorio che operano senza sosta, sia per frenare il dilagare della delinquenza minorile, sia per adottare misure di contenimento e di recupero dell’individuo, propedeutico al reinserimento sociale. Lo stesso per le emergenze che si registrano in ambito civile, dove sempre più numerosi sono gli interventi dell’Autorità Giudiziaria minorile finalizzati alla messa in sicurezza di tantissimi minori vittima di violenza diretta o assistita in ambito familiare o costretti a subire maltrattamenti endofamiliari: esplosiva, poi, può essere definita la situazione relativa ai tanti bambini partoriti da madri tossicodipendenti, che hanno assunto sostanze fino a poco prima del parto o da donne affette da problematiche psichiche. In questo contesto in cui alla crisi del sistema famiglia si somma la crisi che il Paese sta attraversando sotto molteplici profili, tra tutti quella economica e dei valori fondanti il nostro Stato democratico, assieme alla gravissima crisi legata alle guerre ed alle tensioni internazionali, risulta evidente che i ragazzini ” terribili” di alcune città del Distretto nisseno non avranno prospettive diverse da quelle già sperimentate o da quelle già tramandate, per generazioni, dalle famiglie di appartenenza. Ed è proprio in questo solco e per il bene dei ragazzi che le Istituzioni statali dovrebbero intervenire con la prevenzione, la formazione, l’informazione, il sostegno, proprio con un’azione corale di rottura da schemi malavitosi cristallizzati e divenire portatrici di azioni di riscatto e sviluppo, finalizzate all’abbandono di modelli disfunzionali e criminogeni ed all’avvio di processi di rieducazione e reinserimento sociale verso cui convogliare le tante energie positive dei nostri ragazzi”.
Domanda diretta: perché il ragazzino delinque?
“Perché, in assenza di una struttura personologica improntata al rispetto delle regole del vivere civile, ottiene il massimo risultato con il minimo sforzo qualora assorbito in contesti associativi. Le associazioni per delinquere, infatti, attraggono i minori con l’illusione errata che, in quanto minori, a loro non può accadere nulla e li assorbono gradualmente. I minori, si sa, sono attratti dal denaro, dalla possibilità di potere avere beni voluttuari con il minimo sforzo, dall’idea di ostentare stili di vita da vincenti, di possedere beni di lusso pur di apparire e di guadagnare un malsano senso di grandiosità e di rispetto. Invece, in contesti non associativi i minori delinquono per l’assenza di validi modelli educativi, spesso per noia, per desiderio di essere emulati ed osannati o, ancora peggio, per la voglia di postare le proprie gesta così da guadagnare popolarità e consensi; da qui la gara alla consumazione di delitti spesso compiuti con totale disprezzo della vita umana ed il più delle volte dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti. Risultano in aumento, infatti, i delitti di lesioni, le aggressioni, del tutto gratuite, commesse ai danni anche di soggetti sconosciuti; gli agiti in disprezzo di simboli dello Stato o nei confronti delle Forze dell’ordine; l’uso indiscriminato di armi bianche, i crimini sessuali perpetrati con crudeltà, nella totale indifferenza nei confronti delle malcapitate vittime, i delitti utilizzando strumenti telematici, lo spaccio di sostanze stupefacenti, le condotte di violenza e prevaricazione poste in essere all’interno degli istituti di istruzione, ogni forma di condotta in cui la fanno da padrone la violenza e la sopraffazione nei confronti del prossimo, in una sorta di sfogo delle frustrazioni ed amplificazione dei propri fallimenti. I minori delinquono per assenza di validi modelli di riferimento familiari, culturali e sociali”.
Deduciamo che troppi giovani (purtroppo) sono affascinati dal malaffare
“In un contesto di appiattimento generale, in cui non trovano collocazione l’impegno sociale, l’ambizione personale e l’amore per la cultura germogliano i semi del malaffare, che appaiono una alternativa rapida ed efficace che consente a tanti giovani di individuare nelle attività illegali le fonti per il proprio sostentamento e, dunque, di soddisfare ogni loro esigenza, con il minimo sforzo, conseguendo la disponibilità di danaro. In tal modo diventano competitivi con i loro coetanei acquisiscono consenso ed ammirazione (soprattutto nel gruppo dei pari e tra le ragazze) e vengono accettati dal sistema perché vincenti, rispecchiando dei canoni tanto standardizzati ed imposti dalla massa quanto effimeri, a differenza di quei giovani che, pur vivendo nel rispetto della legalità, non trovano una collocazione nell’ambiente che li circonda e finiscono per essere esclusi ed emarginati in quanto ritenuti perdenti”.
Quanto influisce la mancanza di socializzazione familiare nel giovane di oggi e l’inconsistenza di spazi aggregativi?
“Uno degli elementi che contribuiscono ad alimentare il disagio giovanile è costituito, senz’altro, dalla disgregazione del sistema famiglia. La famiglia, infatti, rappresenta il luogo in cui il minore nasce, cresce e viene formato e forgiato, in cui si radicano solidi rapporti affettivi e si educa all’amore ed al rispetto per il prossimo, soprattutto, per i più piccoli e per i soggetti più deboli. Il secondo, importante momento educativo per il minore è costituito dalla scuola, giacché quest’ultima è deputata a proseguire il compito educativo promosso dai genitori e trasferito sui figli. È evidente che il mancato funzionamento di queste due agenzie educative genera il corto circuito del sistema, portando all’insorgenza di condotte devianti difficili da arginare. Basti pensare che, soprattutto dopo la pandemia, sono cresciuti in maniera esponenziale i conflitti intrafamiliari tra genitori e figli, i quali appaiono sempre più isolati e lontani dal mondo reale, privi di amicizie significative ed ancorati al mondo dei social e della telefonia in genere, così da vivere in condizioni di totale, profonda solitudine. Molti ragazzi, infatti, richiedono esplicitamente di essere collocati all’interno di comunità educative per minori; molti altri dichiarano di fare uso di psicofarmaci o di avere disturbi alimentari o del sonno. Si registra una vertiginosa crescita dei collocamenti di minori in strutture a vocazione sanitaria. Appare indispensabile, perciò, coinvolgere i giovani in attività ricreative e risocializzanti, ridisegnare i loro spazi aggregativi, insegnare loro il valore del dialogo e del vivere con gli altri, riabituarli ad instaurare rapporti caratterizzati dall’umanità e dalla gentilezza, avviando un’opera profonda di ritorno alla terra ed alle origini, alle cose semplici e vere; far comprendere ai giovani che la felicità sta nelle piccole cose, perché nelle piccole cose ci stanno le grandi cose; che la gentilezza è un muscolo che nessuno vede, ma regge il cielo. Infondere loro Infondere loro quella comunione profonda e quella cospirazione tenace capaci di farci resistere alle difficoltà di questo periodo così buio, in una sorta di resilienza collettiva, che ci trovi uniti, mano nella mano”.
Ritornando alla sua esperienza nel Nisseno, qual è stato l’episodio criminoso che l’ha profondamente turbata?
“Tutti gli episodi che hanno avuto come vittime soggetti minorenni e soggetti vulnerabili mi hanno colpito profondamente; ad essi va aggiunto quello relativo al tragico decesso di una bambina a seguito di un sinistro stradale verificatosi a Caltanissetta in cui la piccola perse la vita mentre si trovava in auto con il padre ed il fratellino. Di quella indagine rammento la profonda commozione che provai nell’atto di assumere a sommarie informazioni la madre di quella povera piccola, che pianse a singhiozzo durante l’intero svolgimento dell’atto (indossando l’orologio e gli orecchini rosa della figlia) ed il senso di impotenza, e con esso l’assenza di parole, provati dinanzi al dolore di quella madre. Ricordo, inoltre, l’immane tragedia che colpì la città di Caltanissetta, nell’anno 2004, in occasione del terribile incidente avvenuto sulla Gela – Caltanissetta in cui persero la vita i poliziotti Salvatore Falzone e Michele Pilato: si trattò di una tragedia che colpì, profondamente, tutta la cittadinanza nissena, con una folla incredula ed addolorata che si riversò all’Ospedale Sant’Elia di Caltanissetta per avere notizie dei due sfortunati poliziotti, attese le tragiche modalità dell’incidente ed il grande affetto (rimasto immutato nel tempo) che i cittadini nisseni nutrivano nei loro confronti quali eccellenti servitori dello Stato, morti in servizio mentre si recavano a Gela a lavorare”.
I dati sono allarmanti: crescono a dismisura le violenze contro le donne. Cosa dice nel merito?
“Purtroppo assistiamo ad una totale perdita dei valori che regolano la società civile. Basti pensare che le stesse organizzazioni criminali hanno ampliato, oramai da decenni, i loro interessi criminali arrivando a contemplare tra i beni produttivi di reddito anche gli esseri umani, come accade nella tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento della prostituzione o a quello lavorativo per esempio. Ecco che lo stesso essere umano ed, in primis, la donna, è stata equiparata ad una “res”, ad una cosa, al pari delle armi o dello stupefacente, in una erosione della sua identità e dignità di persona. Questa accezione arcaica e riprovevole dell’essere umano trova, purtroppo, una sovrapposizione anche in modelli familiari caratterizzati dal dominio della figura maschile e dall’impiego della violenza come strumento di sopraffazione sulla donna, con conseguente azzeramento delle sue capacità volitive e della sua stessa dignità. Ciò si riscontra nei nuclei più emarginati e degradati, solitamente monoreddito o del tutto privi di reddito da lavoro, caratterizzati dalla presenza di più figli e nei quali, sovente, la donna decide di subire per il bene degli stessi figli o perché ignara degli strumenti previsti dalla legge a sua tutela o perché isolata dalla famiglia di origine e, dunque, rassegnata a convivere con abusi e violenze di ogni genere, fino al totale annullamento delle sue capacità di reazione. Dall’altra parte l’ignoranza, l’abuso di alcool e di droghe, l’incapacità di affermarsi con modalità differenti e di riconoscere il proprio fallimento esistenziale, l’indole irascibile e violenta determinano i modelli disfunzionali di cui ho appena detto, in cui la violenza e la nullificazione dell’essere umano diventano, purtroppo, la normalità del ménage familiare”.
Il suo ruolo impone lucidità, attenzione, trasparenza, distacco. Dinnanzi ad efferate azioni criminose, che interessano soprattutto bimbi e donne, come riesce a non fare trasparire l’istintiva sensibilità del suo animo femminile?
“Premetto che ho sempre avuto uno spiccato interesse per quei reati che afferiscono le cosiddette ”fasce deboli” e che ho svolto corsi specifici, sin da giovane uditore (oggi chiamati Mot) in materia minorile in generale e sulle tecniche di ascolto dei minori vittime di abusi e/o maltrattamenti in particolare. L’approccio alla trattazione di casi in materia di crimini sessuali è, ovviamente, devastante ed emotivamente coinvolgente soprattutto per il magistrato della Procura che per primo procede all’ascolto della vittima nel rispetto delle regole che disciplinano l’escussione di un minore, con tutti gli accorgimenti del caso, trattandosi di minori, appunto, fortemente provati, che hanno subito agiti inenarrabili, davanti ai quali occorre apparire “normali”, sereni, capaci di ascoltare senza lasciare trasparire sdegno o tutte le sensazioni negative connesse alla narrazione. Al contrario, occorre creare un canale di comunicazione speciale, che abbia la capacità di mettere a proprio agio e di rassicurare la vittima, facendola sentire al sicuro, compresa e mai giudicata. Per riuscire in questo c’è bisogno di una particolare attitudine, oltre che di una specifica preparazione specialistica in materia, non disgiunta da capacità di interazione con i minori, con il loro linguaggio ed il loro mondo; è evidente, poi, che la maturità e l’esperienza che si accumulano negli anni contribuiscono ad ottimizzare gli ascolti nell’ottica della cristallizzazione del materiale probatorio raccolto; il che non significa non provare emozioni, non essere sensibili o empatici, ma restare lucidi e concentrati nonostante il dolore e lo strazio di cui si diventa partecipi; significa rimandare a quando si è a casa la sequenza di narrazioni spesso sconvolgenti pur di non compromettere il risultato investigativo; significa soffrire con e per la vittima senza darlo a vedere. Lo stesso vale in occasione degli ascolti di donne vittime di maltrattamenti o abusi, con la differenza che la maggiore età della vittima e la maggiore maturità consentono anche quegli scambi di parole rassicuranti ed una compartecipazione al suo dolore, ferma restando l’intangibilità dei fatti narrati, che hanno l’effetto benefico di porre a proprio agio la vittima e di alleggerire il carico emotivo del racconto anche per il pubblico ministero intervistatore. La sensibilità è necessaria per il giusto approccio a siffatta tipologia di reati, che altrimenti non potrebbero essere trattati e compresi nelle loro variegate sfaccettature; la sensibilità consente ad un bravo pm di leggere nelle pieghe del “non detto”, nei silenzi, nei singhiozzi; l’importante è, appunto, mantenere un equilibrio ed instaurare un rapporto di fiducia ed affidamento tra la vittima e l’intervistatore. Non si può fare il pm senza sofferenza, senza immedesimarsi nel dolore delle vittime; ed è da quel dolore che bisogna partire per accertare la verità, prima procedimentale e poi processuale; è quel dolore che ha sempre mosso il mio senso di giustizia”.
Qual è il suo pensiero sulla separazione delle carriere?“
“Di fatto le carriere sono già separate, non potendo un Pubblico Ministero esercitare la funzione di Giudice nel medesimo Distretto; aggiungo che soltanto una piccola percentuale, pari a poco più dell’1% dei magistrati attualmente in servizio, decide di mutare funzione transitando da quella requirente a quella giudicante o viceversa. E’ fondamentale preservare l’indipendenza della magistratura, ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”.

D’accordo con chi si tuffa in politica, dopo avere svolto l’attività in magistratura?
“Tutte le professioni meritano rispetto purché svolte con coscienza, onestà, passione e dedizione verso il prossimo, avendo come obiettivo il perseguimento del bene comune. Personalmente ritengo che i presupposti ed i principi che muovono la scelta di entrare in Magistratura difficilmente possano trovare analoga esplicazione nella carriera politica”.
Le rimando due osservazioni che ultimamente ho letto su un libro: “L’intelletto di ogni giudice funziona solo per mera e pratica guida giuridica; le interpretazioni dei giudici seguono logiche e dinamiche che vanno contro ogni ragionevole razionalità”. Qual è il suo punto di osservazione?
“Il Magistrato, sia requirente che giudicante opera con l’unico obiettivo di ricercare la verità dei fatti in tale ricerca il Pm ha l’obbligo di legge di svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini anche in considerazione del fatto che la prova si forma in dibattimento, unico luogo deputato alla formazione del convincimento del giudice. Non ritengo, pertanto, che le interpretazioni dei giudici seguano logiche e dinamiche che vanno contro ogni ragionevole razionalità, avendo personalmente operato sempre con razionalità e coscienza, in una lucida visione dei fatti e valorizzazione degli elementi di prova necessari per l’accertamento della verità, senza mai farsi trasportare dalle emozioni generate da un caso o dai condizionamenti emotivi connessi al clamore mediatico di una vicenda giudiziaria o dalla tipologia della vittima. Compito del giudice è quello di accertare la verità processuale, seguendo le regole del diritto processuale, resa pubblica attraverso la sentenza”.
Svolgendo il suo lavoro, in cosa ha rinunciato?
“A tantissime cose, la maggior parte delle quali irrecuperabili perché mentre lottavo, ogni giorno, nel tentativo di dare voce alle vittime delle ingiustizie più disparate, non mi accorgevo che il tempo scorreva inesorabile; ho sempre messo da parte me stessa perché sentivo forte il bisogno di non arretrare davanti alle istanze di giustizia, perché ho sempre anteposto il mio essere servitore dello Stato alla “me” intesa come individuo; ho sempre onorato la toga, che poi è la mia seconda pelle, sacrificando tanto della mia vita privata e delle mie passioni. Servirebbe un’altra intervista per fare un elenco delle rinunce e dei sacrifici immani che hanno caratterizzato e caratterizzano la mia vita, ma è andata così, perché io sono cosi ed alla fine, quello che conta, è potere andare a dormire, ogni sera, con la coscienza pulita, con la convinzione di avere compiuto il proprio dovere fino in fondo e, nel mio caso, con la certezza che a nessun minore sia accaduto qualcosa di irreparabile per colpa mia, di un mio ritardo o, peggio ancora, di una mia omissione legata al ruolo che ricopro. Ed alla fine questa consapevolezza è in grado di darmi molto di più di quel tanto che la vita mi ha tolto”.
Se non avesse fatto il magistrato, cosa avrebbe voluto fare?
“Se non fossi riuscita ad intraprendere la carriera in Magistratura avrei proseguito la carriera Prefettizia; di sicuro avrei voluto svolgere il lavoro che faccio, che poi è una missione di vita, vale a dire il Magistrato della Repubblica Italiana con le mansioni di Pubblico Ministero. Nel mio caso, infatti, avevo il sogno non solo di diventare Magistrato ma anche di svolgere le funzioni requirenti, che poi sono le uniche che ho svolto durante tutta la mia carriera e per le quali mi sento profondamente portata. Diversamente, potrei immaginarmi intenta a svolgere professioni completamente diverse, magari in paesi lontani, ma sempre con quello spirito guerriero e combattivo e quella passione per le investigazioni che non mi hanno abbandonato”.
C’è una persona a cui vuole dire grazie?
“Senz’altro se sono arrivata fin qui lo devo alla mia famiglia ed ai miei genitori, i quali mi hanno consentito senza non pochi sacrifici di studiare e di realizzare il sogno della Magistratura infondendomi coraggio, fiducia e la determinazione necessari ad affrontare un concorso così complesso e che mi hanno trasmesso i valori della giustizia, dell’onestà, dell’umiltà, della ricerca della verità e della tutela degli ultimi che caratterizzano la mia persona. Quindi non posso non rivolgere il mio grazie ai Capi Ufficio della Procura di Caltanissetta, della Procura per i Minorenni di Caltanissetta e della Procura di Bari, che nei vari anni della mia crescita umana e professionale mi hanno accolta, formata, guidata e che si sono affidati alla mia persona ed alle mie capacità di amministrare nel miglior modo per me possibile la Giustizia, con la speranza di avere meritato la loro fiducia e di non aver deluso le loro aspettative. A loro sarò per sempre grata; a loro va il mio bene immenso e tutta la stima possibile”.
Tra pochi giorni sarà la festa delle donne. Quale messaggio vuole rivolgere?
“Alle donne sento di dire di scappare alla prima azione violenta; al primo schiaffo, perché la violenza non può mai trovare giustificazione. In qualunque forma essa si manifesti: psicologica, fisica, sessuale, economica. Che non si può combattere contro le patologie mentali, di qualunque natura; che non ci si può improvvisare crocerossine ed avere la convinzione di riuscire a salvare un uomo violento. Vorrei dire loro di amare se stesse, di trasmettere tutta la bellezza che hanno e tutto l’amore di cui sono portatrici ai loro figli; di sorridere, alla vita, al loro essere donna, alla loro forza, al loro coraggio. Vorrei dire di non avere paura di denunciare, di andare avanti senza voltarsi indietro, perché la loro vita è più importante e che ce la faranno. Vorrei dire che non sono sole perché esiste una normativa in grado di tutelarle efficacemente e tutti gli strumenti necessari ad accompagnarle nel percorso doloroso delle vittime, dalla denuncia in poi”.
L’ultimo libro che ha letto?
“Premetto che amo moltissimo leggere ma, purtroppo, non ho mai il tempo, con conseguente creazioni di “colonne” di libri da leggere abilmente sistemate in modo da non farle crollare. L’ultimo libro che ho letto è “La giusta direzione” del collega Antonio De Donno, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi, in pensione da poco, che ha ripercorso la sua vita professionale da giovane uditore fino all’incarico di Procuratore a Brindisi, Un libro in cui ho rivisto molte delle mie paure e delle mie emozioni, sebbene abbiamo lavorato in città differenti, in cui ho ritrovato la stessa passione e lo stesso forte battito che mi porto dentro sin dal primo giorno di servizio a Caltanissetta (era il 30 settembre 1999) e che ha mosso la penna in quei giorni afosi di luglio 1995 in cui, al termine della terza giornata, consegnai anche il terzo elaborato delle prove scritte che mi hanno portata fin qui”.
Con merito e con grande tenacia, ci permettiamo di aggiungere.
Ipse Dixit
Contro ogni barriera e pregiudizio, la mission di Sophia Giacchi per cambiare il futuro
Pubblicato
1 mese fail
1 Febbraio 2025
Aperta ed emotiva, esprime i suoi sentimenti sinceri ed autentici catturando l’attenzione di chi le sta accanto, mostrando il vero significato dell’amore e dell’amicizia. Il suo sorriso è contagioso; l’intelligenza, la saggezza e la generosità, sono ammirevoli. La gelese Sophia Giacchi ha un cuore d’oro e si preoccupa, sinceramente, per il benessere degli altri. Tra le 99 donne che stanno cambiando il futuro nel progetto “Changed by Women” dell’Università Bocconi di Milano, c’è anche il suo nome.
“Sapere di aver generato valore positivo che non si rifletta solo su di me ma anche su terze persone, è sicuramente fonte di orgoglio. Il mondo lo creiamo e lo cambiamo ogni giorno con le nostre azioni e le nostre parole, che le mie siano riconosciute essere fonte di cambiamento positivo é stato un bel momento…”
Sophia, parlavamo di 99 donne. Credi che il numero sia in crescita o dobbiamo affidarci soltanto alle statistiche?
“Credo e spero che di donne ce ne siano già molte più di 99. Ma anche di uomini. Ognuno di noi è agente del cambiamento anche nella più banale delle situazioni, la responsabilità di far sempre la propria parte é di tutti”.
Nello specifico, il progetto che ti ha visto selezionata assieme, tra le altre, a Emma Bonino, a Sabina Nuti (rettrice della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa) e a Monica Possa (group Chief Hr e Organization di Generali), cosa si prefigge di realizzare nell’immediato?
“Di supportare economicamente delle ragazze affinché abbiano pari opportunità di studio”.
Per tanti sei un esempio da seguire per i tuoi brillanti studi, condotti tra Italia e Spagna, la tua determinazione e il tuo carisma. Si tratta di una grossa responsabilità, non credi?
“Essere d’esempio è sempre stato per me fonte di tanto orgoglio ma anche un peso importante: ho sempre sognato in grande per me e se questo è fonte di ispirazione, sono molto contenta che gli altri seguano la propria stella con lo stesso ardore con cui io seguo la mia. Spesso mi viene riconosciuta tanta determinazione nel farlo: é vero, soprattutto perché per realizzare sogni assolutamente comuni, ho spesso dovuto combattere battaglie non comuni. Quando l’ammirazione e l’essere di esempio toccano questo tema ecco che per me ha una ambivalenza importante: se da un lato sono contenta che i miei sforzi siano riconosciuti e apprezzati, dall’altro mi arrabbio con un sistema di normalizzazione di un mondo inaccessibile come quello in cui viviamo. Infatti dare la connotazione di straordinario a qualcosa di ordinario, reso spesso impossibile da politiche sistemiche che non pensano alle minoranze, non è altro che confermare la normalità di questo sistema escludente”.
In più di un’occasione, hai detto che dentro di te porti il fuoco della nostra terra.
“Sento che il pathos della nostra terra, il sole e il mare, la tradizione e la poesia, le nostre origini fondamentalmente greche hanno forgiato la mia forma mentis e il mio approccio al percepire il mondo attorno a me. L’ostinazione alla ricerca del senso, la felicità di non trovarlo. Questo mi ha insegnato la mia Sicilia”.
Riporto una tua citazione: “Non voglio passare per la ragazza in sedia a rotelle. Piuttosto raccontiamo tutto quello che ho fatto per cambiare un sistema che spesso rende impossibili anche cose semplici a chi vive una disabilità”. Raccontiamo…
“Immagino che sia ben chiaro a tutti in quale sistema viviamo: barriere architettoniche, barriere economiche, barriere sociali che comportano esclusione e preclusione da molteplici contesti che toccano tutte le sfere dell’identità: diritto allo studio, sviluppo relazionale con amici e/o partners, affermazione lavorativa, esplorazione delle proprie passioni ed altro ancora…”
Oltre alle barriere architettoniche insistono, purtroppo, anche delle vere e proprie discriminazioni. Tutto ciò non è più tollerabile. Quali sono gli strumenti adeguati per estirpare definitivamente queste “gabbie mentali”?
“Un cambio radicale di come viene percepita la disabilità nella società é sicuramente il primo passo per la costruzione di politiche inclusive. Non ci sono persone disabili ma contesti disabilitanti. La disabilità non è un problema, un mondo costruito sulla “norma” é un problema”.

Qual è stata la reazione dei tuoi genitori, quando hai detto di volere andare via da Gela, dopo avere conseguito il diploma al Liceo Classico?
“All’inizio erano molto scettici e preoccupati perché le alternative erano che io fossi andata da sola con delle assistenti personali o che tutta la famiglia si spostasse. Entrambe le alternative, al tempo, erano una novità e quindi destavano preoccupazione. Da subito, quando ci siamo spostati tutti insieme, però hanno capito fosse la scelta giusta, non solo per me ma per tutta la famiglia!”
Andare via da Gela per approdare a Milano, possiamo definirlo “coraggio incosciente”?
“Per certi versi si, per i miei genitori ha significato lasciare i propri impieghi per reinventarsi una vita, avendo la responsabilità di una famiglia intera. In questo senso si”.
Cosa ricordi delle numerose lotte burocratiche e delle regole da riscrivere all’Università Bocconi, per consentirti di ricevere assistenza al fine di seguire le lezioni?
“Scrivere qualcosa che non è stato ancora scritto è sempre un’impresa difficile: non sai con chi confrontarti, non sai a chi rivolgerti, non sai come farti ascoltare. All’inizio mi dava molta frustrazione dover essere io a pensare alla soluzione per ottenere dei diritti che la maggior parte delle persone hanno già garantiti. Pian piano ho trovato le persone giuste che facessero da cassa di risonanza dei miei bisogni e quando a combattere si è insieme, allora diventa più facile”.
Nessun limite ti ha mai fermato, anzi ti ha reso più consapevole. Altri ed altre, invece, si arrendono. Qual è il suggerimento che vuoi dare?
“Il suggerimento è di non accontentarsi mai delle briciole, di pretendere l’attenzione, la rilevanza, l’importanza ed il diritto che abbiamo ad essere noi stessi”.
Come mai hai deciso di volare prima a Barcellona e poi a Singapore?
“Mi è sempre piaciuto conoscere nuovi paesi, nuove culture, nuovi orizzonti. Andare a Barcellona però non ha significato solo nuova scoperta in questo senso, ma anche scoperta di una nuova dimensione di libertà ed autonomia. Se infatti a Milano mi sono spostata con tutta la famiglia, a Barcellona prima e a Singapore poi sono andata da sola. Questo ha significato fare i conti con nuovi limiti e nuove possibilità che mi hanno permesso di conoscere meglio me stessa”.
Dopo aver conseguito la laurea magistrale in economia e gestione per le arti, la cultura e la comunicazione hai iniziato ad esplorare il mondo del lavoro. E’ stato facile o hai riscontrato difficoltà?
“Grazie ad uno stage svolto durante gli anni accademici e al network costruito in quell’occasione, il mondo del lavoro è stata un’evoluzione naturale del mio percorso di studi”.
Attualmente stai lavorando come Talent Acquisition Partner di uno dei più importanti gruppi della cosmetica: L’Oréal. In cosa consiste?
“Mi occupo di reclutamento di profili dai tre anni di esperienza in su e gestisco un progetto chiamato L’Oréal for youth che ha l’obiettivo di aiutare giovani under 30 nello sviluppo delle competenze per essere più preparati al mercato del lavoro. Due delle iniziative di cui vado più fiera sono il supporto concreto che diamo al target dei migranti e il progetto “Così come sei” che vuole normalizzare la disabilità all’interno dell’azienda e si propone di stilare una policy di supporto a dipendenti con disabilità e caregivers”.
Quando ritorni a Gela, qual è la prima cosa che fai appena arrivata?
“Abbracciare mia nonna”.
Cosa ti manca della tua terra?
“Sicuramente la prossimità con i miei affetti, ma anche il mare”.
Per rendere la nostra Gela accogliente, ben servita, una città modello, dove e come bisogna intervenire?
“Una buona rete di servizi pubblici potrebbe essere una buona base di partenza: un sistema di trasporto pubblico che funzioni bene, assieme a spiagge e servizi commerciali accessibili tramite strumenti di abbattimento delle barriere architettoniche”.
Credi in Dio?
“Si!”.
Qual è il tuo sogno?
“Di sogni ne ho tanti e ne sopraggiungono sempre di nuovi, quello che posso generalizzare è che sogno di essere sempre circondata da tutto l’amore che ho e di rendere felici le persone che amo”.
Cosa ti auguri per quest’anno?
“Di riposare, di prendermi del tempo per me stessa e di dedicarmi di più alle mie passioni come il teatro ed il cinema”.
Cosa ti senti di dire ai tuoi genitori?
“Che senza tutto l’amore e la fiducia che mi danno, non riuscirei a fare neanche il 10% di tutto quello che faccio. Il loro amore mi rassicura e la loro fiducia in me mi dà coraggio. È la combinazione perfetta che mi ha sempre permesso di tentare, dandomi la forza di volare in alto anche con il rischio di cadere, forte della consapevolezza che ci sono sempre le loro braccia ad aspettarmi”.
Sophia ogni giorno prova ad abbattere tutti gli ostacoli che impediscono di muoversi liberamente e autonomamente e di eliminare quelle stupide barriere culturali che discriminano e impediscono alle persone con disabilità la partecipazione alla vita sociale. Continua cosi, non arrenderti mai!
E’ proprio vero quello che scriveva Cesare Pavese…”Le belle persone si distinguono, non si mettono in mostra. Semplicemente, si vestono ed escono. Chi può, le riconosce”.
Ipse Dixit
“Creare posti di lavoro in Sicilia per evitare che il crimine dilaghi”
Pubblicato
2 mesi fail
1 Gennaio 2025
“Ho un solo augurio per l’anno nuovo: Pace. Pace nel nostro pianeta, sempre più sanguinante…”L’auspicio, legittimo e condiviso, porta la firma della dottoressa Lia Sava, attuale procuratrice generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Sempre disponibile al dialogo con gli organi di informazione, si contraddistingue per la sua pacatezza nell’affrontare qualsiasi problema, riuscendoci col giusto equilibrio. Pugliese di Carbonara (nato come paese e successivamente trasformatosi in un quartiere di Bari), Lia Sava è entrata in magistratura nel 1991. Dal 1992 al 1995, ha svolto le funzioni di pretore civile a Roma e, nei tre anni a seguire, è stata pubblico ministero alla procura di Brindisi applicata alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Il suo arrivo in Sicilia è datato 1998. Fino al 2013 è stata pubblico ministero a Palermo e dal 2001 al 2011 ha fatto parte della locale Dda.
Dottoressa, partiamo dalla sua esperienza nella nostra provincia. Lei conosce bene lo spaccato criminale gelese, per essere stata Procuratrice aggiunta presso la Dda di Caltanissetta (dal 2013 al 2018) e procuratrice generale nella stessa sede nissena (dal 2018 al 2022). Cosa ci dice in merito?
“Gela ed il suo circondario scontano problemi simili ad altri territori della nostra Sicilia e, più in generale, del nostro sud. Povertà, crisi occupazionale in prima battuta. Ed è chiaro che in questo contesto il crimine organizzato e comune, in forme anche assai spregiudicate, prospera e si rinvigorisce. Ma io vedo nel territorio gelese anche molteplici prospettive di sviluppo e di crescita. Penso, ad esempio, al settore del turismo. Che potrebbe essere una carta vincente per il futuro di molti giovani”.
C’è un episodio che l’ha profondamente colpita della sua esperienza nel Nisseno?
“Non c’è un episodio particolare. Ma c’è un ricordo che mi lega a Gela. Anzi, una serie di ricordi, non professionali ma umanamente forti. Qualche passeggiata sulla spiaggia, dopo una giornata di lavoro in Tribunale a Gela. Tramonti rigeneranti, dune di sabbia con i gigli selvatici. Bellezza semplice mozzafiato, che contrastava fino ad annientare la fatica di tante ore di lavoro”.
“Dovete armarvi con spade e scudi cioè studiare, leggere, farvi apprezzare per le vostre qualità. Fare le scelte giuste non quelle comode. Solo così potete entrare nei gruppi seri, quelli di gente che persegue gli stessi obiettivi e lì la leadership si conquista con l’esempio”. Sono le parole pronunciate ultimamente dal procuratore di Gela, Salvatore Vella, rivolgendosi ai giovani. E’ anche il suo pensiero?
“Condivido. Lo studio serio ed attento è il solo strumento valido che hanno i giovani per diventare adulti consapevoli. La lettura di buoni libri e l’amore per l’arte sono i più potenti antidoti al male”.
Quanto è importante che la politica sostenga la legalità e adotti scelte che promuovano l’educazione e la consapevolezza sul fenomeno mafioso?
“Credo che l’educazione alla legalità debba essere una priorità di tutti. Di ogni settore della società ed ogni sua articolazione. Quindi anche della politica. Ma non solo”.
Per una donna raggiungere il titolo di “giudice” può, ancora oggi, essere più difficile rispetto a un uomo?
“Se si studia con serietà e con metodo, si diventa magistrati senza differenza fra uomini e donne. Oggi poi le giovani donne magistrato sono più degli uomini”.

Papa Francesco ha più volte sottolineato che la nostra terra ha bellezze naturali e artistiche meravigliose, purtroppo minacciate dalla speculazione mafiosa e dalla corruzione, che frenano lo sviluppo e impoveriscono le risorse, condannando soprattutto le aree interne all’emigrazione dei giovani. D’accordo anche lei?
“Certo, non si può non essere d’accordo. Sono convinta, inoltre, che la sinergia fra le istituzioni può essere risolutiva ad arginare anche il fenomeno della “ fuga” dalle nostre terre. Ho fiducia che possa invertirsi la rotta. Restare e far prosperare il nostro sud non deve essere un sogno ma una possibilità concreta e realizzabile”.
La terra siciliana però continua a fare emergere (purtroppo) due elementi devastanti: l’oppressione del fenomeno mafioso e il dilagante flusso della povertà. Quali sono gli strumenti per fronteggiarli?
“Il crimine organizzato si contrasta con la diffusione della cultura della legalità. Famiglie, scuole, luoghi di lavoro, parrocchie devono essere centri propulsori di regole semplici da rispettare. Insegnarle e fare in modo che vengano osservate è obiettivo primario. Prima fra tutte: il rispetto dell’altro. La mafia è sopraffazione: antitesi del rispetto dell’altro. La miseria crescente, di contro, è un problema strutturale che richiede strategie di ampio respiro. Creare posti di lavoro è, in particolare, fondamentale per evitare che quelli che non hanno da mangiare accettino “l’offerta deviante” del crimine comune ed organizzato, innescando una spirale perversa”.
Qual è il compito dei magistrati per dare una dignità giuridica nel rispetto della Costituzione, delle leggi e delle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito al crescente tasso di miseria che accomuna tante famiglie?
“I magistrati devono fare il loro dovere, con impegno e dedizione, consapevoli che dietro ogni fascicolo c’è, frequentemente, il dolore di persone che cercano una risposta dallo Stato ai loro drammi e problemi. Sia nel civile che nel penale occorre che i magistrati diano risposte rapide e attente, consapevoli che la tutela dei diritti è centrale per la salvaguardia della democrazia. La nostra efficienza professionale è il solo modo che abbiamo, da un lato, per rendere migliore il servizio giustizia e, dall’altro, per contrastare il malaffare. Per la soluzione strutturale del problema della miseria, ovviamente, noi magistrati non possiamo fare nulla. Ma se svolgiamo nel miglior modo possibile il nostro lavoro possiamo rendere più sereni animi inquieti e sofferenti e non è poco”.
La mafia non spara più come una volta, è in atto una vera e propria metamorfosi?
“La mafia non spara perché per realizzare i suoi affari non ne ha bisogno. La strategia (ormai collaudata) della sommersione è funzionale a non scatenare la reazione forte delle istituzioni, come quella che ci fu dopo le stragi e che ha determinato la sconfitta dei “corleonesi”. A Cosa Nostra conviene non dare nell’occhio con atti eclatanti per proteggere i suoi affari più loschi. Ma attenzione, se occorre, la mafia è capace di uccidere come prima. La disponibilità di armi che hanno i clan è la prova più tangibile di questo”.
Tantissimi ragazzi si avvicinano ai clan, ringiovanendo le “famiglie”. Come legge questo dato?
“I giovani se non hanno prospettive, se passano le loro giornate con una bottiglia in mano, se non hanno modelli positivi di riferimento, diventano più facilmente preda di chi offre loro il miraggio di facili guadagni. Peraltro, giovanissimi assuntori di sostanza stupefacente, vengono frequentemente assoldati dai clan per spacciare. E sembra che la spirale del crimine si nutra di giovanissimi per distruggerne l’essenza vitale”.
Numerose inchieste hanno fatto emergere che gli stessi clan mafiosi puntano al dark web per riciclare le risorse finanziarie, approfittando della potenzialità dell’intelligenza artificiale. Quali sono gli strumenti che mettete in campo per contrastare questa nuova forma di illegalità?
“Dark web, intelligenza artificiale, utilizzo sfacciato delle cripto valute costituiscono la nuova frontiera delle strategie della criminalità organizzata. Occorre puntare su strumenti investigativi sofisticati dal punto di vista tecnico e investire sul potenziamento delle forme di cooperazione internazionale. Il dark web e l’intelligenza artificiale, nelle mani delle organizzazioni di stampo mafioso, possono agevolare grandemente la realizzazione di crimini transnazionali che devono essere contrastati in maniera efficace attraverso strategie comuni e condivise. Penso, ovviamente, in prima battuta, al narco traffico che è un’emergenza globale e che genera una spirale di morte inquietante a fronte di enormi guadagni spesso facilitati dall’utilizzo delle monete virtuali negoziate sul dark web. Il 23 maggio scorso, a Palermo, il Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, il dott. Melillo, ha organizzato uno straordinario momento di riflessione, a cuihanno partecipato magistrati ed investigatori di diverse parti del mondo, proprio su queste tematiche. Ed è stato il modo migliore, secondo me, per onorare il sacrificio di Falcone e Borsellino e degli altri nostri martiri. Il futuro delle investigazioni deve andare in questa direzione”.
La magistratura fa fronte a molteplici istanze da quello – che lei in più di un’occasione – ha definito gusto amarissimo della contraddizione. Ci vuole spiegare meglio?
“La magistratura è chiamata a dare risposte ai bisogni delle parti. I magistrati devono essere tecnicamente attrezzati, devono essere attentissimi e scrupolosi nello studio delle carte processuali. Ma non possono fare di più. Le risposte di sistema alla miseria, ad esempio, spettano alla politica e all’alta amministrazione”.
Se nella stessa magistratura si registrano numerosi problemi (interni ed esterni), tutto ciò non scoraggia il cittadino onesto e i suoi diritti?
“Se i magistrati adempiono seriamente ai loro doveri la fiducia dei cittadini ne deriva come conseguenza immediata e diretta. Ritengo che fornire con pacatezza, equilibrio, tempestività un servizio giustizia efficiente e rapido sia la chiave di volta per recuperare spazi di più ampia credibilità per noi magistrati. Non ci sono altre strade”.
Più volte lei ha riferito che “crescono le imposizioni del pizzo mascherate”. In che senso?
“In passato le mafie “chiedevano il pizzo”, magari mettendo una bottiglietta incendiaria sul cantiere. Adesso, a volte, dalle intercettazioni emerge che è lo stesso imprenditore che, prima di iniziare un lavoro, cerca il mafioso per “mettersi a posto”. Quindi abbiamo estorsioni mascherate ed il pizzo diventa “costo di Impresa”. Assolutamente inquietante ed indice di un abisso anche etico nel quale si rischia di precipitare”.
Ha mai avuto dubbi sulla sua scelta di diventare magistrato?
“Mai. È un lavoro bellissimo, che ti consente di crescere ogni giorno. Anche coltivando i valori della pazienza, dell’umiltà e della consapevolezza dei propri limiti”.
Nel corso della sua carriera, ha vissuto momenti di paura?”
“Non per me. Solo per i miei figli. Quando erano piccoli temevo per loro. Per me non ho mai avuto nessuna forma di timore. Chi fa il proprio dovere deve essere sereno”.
Chi sono stati per lei Falcone e Borsellino?
“Modelli ineguagliabili. Per intelligenza investigativa, per visione prospettica, per capacità straordinaria di indicare un percorso logico efficace nel contrasto al crimine organizzato”.
Non sarebbe opportuno che si investisse nella scuola con l’introduzione di materie specifiche e l’offerta di attività extrascolastiche come il teatro o lo sport che possono contribuire a spiegare cos’è la mafia e perché è importante contrastarla?
“Lo sport, il teatro, la musica: sono attività che, se inserite con sistematicità nei programmi scolastici, potrebbero, nelle ore pomeridiane, essere un validissimo strumento per offrire ai giovani prospettive di socializzazione e di crescita. Oltre ad essere la più costruttiva alternativa alla noia, e quindi all’abuso di alcool e droghe”.
Ad inizio intervista le abbiamo chiesto del suo personale augurio per l’anno che è appena iniziato. Le chiediamo, in chiusura, il suo auspicio per i nostri lettori.
“Salute. Serenità. E ritrovata e rafforzata fiducia nel servizio giustizia…”

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