L’espressione, che in questi giorni natalizi ritorna con la veemenza di un monito, riguarda il modo con cui ci si relaziona tra di noi. Si dice infatti che a Natale siamo tutti più buoni, considerando che tale festa aggrega persone legate per amicizia e parentela, per affinità di razza, cultura e religione: «Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi». L’adagio evidenzia la necessità di ritrovarsi tra persone che si vogliono bene, che sono legate affettivamente e condividono sentimenti di tenerezza e compassione. È la ragione perché viviamo l’avvento di questa festa con grande coinvolgimento. Volersi bene infatti è un bisogno umano che non sempre si riesce a esprimere. Dipende dalla formazione ricevuta, dalle esperienze fatte, dagli incontri che si sono avuti, i quali hanno potuto talvolta inibire la bontà originaria dell’essere umano. Sappiamo che esso, secondo la bibbia, custodisce in sé stesso la bontà di Dio: quella virtù speciale che lo rende somigliante a lui (cfr. Gen 1,27), desideroso di esprimere quanto più gli è identitario. Comunicare la bontà, che Dio ha riposto nella natura umana, non è soltanto un atto solidale di compassione, ma risponde altresì a un impulso naturale travolgente che lo caratterizza e lo orienta nelle relazioni. L’affettività è così un ambito dell’essere umano fondamentale, una modalità di rapporto di cui non si può fare a meno. Non è certo egoismo amare e sentirsi amati, ma evocazione di quella bontà che, se corrispondente all’intenzione primigenia, rende le persone cordiali, benevoli e gentili. La festa del Natale è un’occasione per riflettere sulla bontà originaria, sull’essenza che definisce la nostra natura umana in grado di comunicare sentimenti di vera fratellanza. La nascita di Gesù, senza nulla togliere al mistero dell’incarnazione, sul quale giustamente si sono espressi teologi e pensatori, è da leggersi in questa prospettiva. Dio ha voluto che il suo Verbo si incarnasse, per risvegliare nell’umanità la virtù che maggiormente caratterizzava la sua relazione con il Creatore. La bontà infatti non è qualcosa di estraneo, che si riceve dall’alto o si matura nel tempo; è una virtù che riflette quello che siamo di fronte a Dio, considerando anche quello che è stato e quello che saremo; e, seppur non dovessimo professare un preciso credo religioso, è richiamo di appartenenza che si traduce nel desiderio di amare ed essere amati, e ancora di più nel sentire forte il rimorso di non essere sufficientemente impegnati nella fratellanza vicendevole. È il disagio, per esempio, che la società odierna sperimenta di fronte alle migrazioni, preoccupata di identità effimere: culturali, sociali o religiose, in contrasto con l’unica vera identità che definisce la nostra appartenenza universale. Essere buoni gli uni con gli altri, nel mutuo rispetto di quello che siamo, nell’esercizio quotidiano di accoglienze che non provano inquietudine di fronte alla diversità e che accettano di scorgere nell’altro ciò che manca a completamento di sé stessi, costituisce un modo di vivere che si ispira alla bontà di Dio. Il Natale è festa di rivelazione, scoperta dell’amore grande di Dio (cfr. 2Pt 3,9) e svelamento della bontà originaria che interessa la nostra natura umana, segno della benevolenza divina.
Nel festeggiare il Natale sentiamo risvegliare in noi quest’aspetto primigenio, la bontà di Dio, voluta da lui per gestire le nostre relazioni. Quando ci accogliamo vicendevolmente, disposti persino a perdonare i nostri nemici (cfr. Mt 5,44), non stiamo facendo altro che dare spazio all’adempimento di quanto Dio ha riposto nella nostra natura. Quel respiro divino che tiene in vita l’essere umano (cfr. Gen 2,7) altro non è che la bontà divina, la natura intellegibile di Dio che dà senso all’umanità tutta, che la rende unificata, nella sua diversità, dal modo originale di accogliersi. Senza la bontà, l’essere umano sarebbe qualcosa di indefinito, o meglio di informe, perché quello che dà consistenza a questo essere è la sua somiglianza all’Essere, quel particolare della forma divina che è la bontà. Il Natale, in mezzo al folclore delle sue luci e musiche, nasconde questa stupefacente verità di cui vale la pena fare memoria. E questo affinché l’umanità non perda di vista la ragione della sua esistenza che a nulla serve, se non a significare quello che essa è nell’interazione dei popoli. Nel segno di questa bontà, ravvisabile nel bambino che nasce a Betlemme, non esistono differenze da provocare ostilità o ingiustizie. I popoli, nonostante la diversità di razza, cultura o religione, sono un essere unico nel quale si rispecchia l’Essere di Dio, e quest’Essere si manifesta e si rende presente nell’amore vicendevole. Lo è al livello trinitario e lo è pure nel suo riflesso: nell’umanità. Papa Francesco, proponendo in Fratelli tutti al n. 243 una modalità «per superare l’amara eredità di ingiustizie, ostilità e diffidenze», suggerisce, richiamandosi all’apostolo, di contrastare il male con il bene (cfr. Rm 12,21); e questo può accadere solo se impariamo a coltivare le virtù umane, in particolare la bontà che «non è debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare alla vendetta», consapevolezza della nostra originaria somiglianza con il Creatore, sicché «quel giudizio puro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella […] è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio». La finalità di questa festa è dunque legata all’incarnazione del Verbo che rivela all’umanità un elemento connotativo della sua esistenza: la bontà. Essa, oltre a certificare l’essenza della sua somiglianza divina, fonda le ragioni perché i popoli dovrebbero vivere sempre in pace. Il superamento dei conflitti non è questione di equilibri militari, di pattuizioni diplomatiche o di accordi che nascono da strategie politiche, incluso il disarmo, bensì affermazione che la guerra è oltraggio allo spirito di fratellanza, suscitato dalla bontà originaria. Il Verbo si fece carne – ricorda S. Atanasio nella sua opera De Incarnatione Verbi 8,4 – perché «riconducesse alla incorruttibilità gli uomini che si erano volti alla corruzione». La frase mette in parallelo due termini, che in greco richiamano da una parte lo stato originario dell’umanità, avfqarsi,a (incorruttibilità), e dall’altra la sua negazione, fqora, (corruzione). La bontà, segno della fratellanza dei popoli, corregge lo stato di morte (fqora,) che è l’atto di corruzione, provocato dal peccato su ciò che Dio ha di sé immesso nell’umanità. Questa parte di Dio, il meglio, se così si può dire, di quello che lo connota è la bontà, la quale – continua S. Atanasio – si coglie nella sintesi di un altro termine significativo, filanqrwpi,a (amore per l’umanità). È quello che ha mosso Dio incarnandosi in Gesù di Nazareth, affinché la corruzione, segno di morte nelle nostre relazioni, sia definitivamente corretta dalla grande sfida che egli ha voluto lanciare all’umanità: solo con l’amore, che è pratica di bontà, si può sperare nell’edificazione di una civiltà nuova, di fratelli e sorelle che si rassomigliano nella loro appartenenza all’unico Creatore.
Mons.Rosario Gisana
Vescovo Diocesi Piazza Armerina