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La parola della domenica

“Fammi giustizia contro il mio avversario”

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Rubrica ad ispirazione cattolica a cura di Totò Sauna


In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Lc 18,1-8

Ritorna Gesù a parlarci della preghiera. L’Evangelista  Luca ci racconta un episodio. Una vedova insiste con un giudice per avere giustizia. E lo implora di giorno e di notte, fino a quando il giudice decide di farle giustizia. Quanto ci è essenziale pregare. Quanto ci è necessario per coltivare una vita interiore. Attingere alla Parola, lasciarla fiorire, scavare, scuotere, consolare, illuminare. Certo ci vuole tempo, e anche molta umiltà. Dobbiamo fare vuoto dentro di noi. Come fai  a parlare con una persona se pigi i tasti del telefonino?  E’ necessario il silenzio, non solo fisico ma interiore. Come facciamo a pregare, a parlare con il nostro Signore se dentro di noi vive il frastuono, il rumore assordante dei pensieri, di quello che dobbiamo fare, della pentola sul fuoco, della trasmissione che deve iniziare in televisione, del risultato della squadra del cuore. La Preghiera è un angolo dove siamo noi e il Signore e aprirci il cuore, senza nascondere nulla. Per parlarci dobbiamo conoscerlo, alimentarci della sua Parola, dei suoi insegnamenti. Un’amicizia che deve essere coltivata ogni giorno attraverso la lettura, l’ascolto. E iniziamo a pregare. Una preghiera che sa chiedere, certo, ma anche lodare, ringraziare, manifestare pentimento e desiderio di conversione. Una preghiera necessaria per combattere, senza la preghiera il nostro agire diventa un’inutile perdita di tempo. Un inutile vagare attraverso le mode che dominano il nostro tempo. La preghiera è un confrontarti, uno scoprirti, un aprirsi ad una persona che ti ascolta che ti ama, che sa ciò che tu hai bisogno. Ma pregare serve a me e te, caro lettore,  abbiamo bisogno a volte di confidarci, di chiedere aiuto, di parlare. È faticoso pregare, ti sembra tempo perso, inutile. Parole perse. La preghiera è un’esperienza unica e personale, i libri per insegnare a pregare servono solo a chi li ha scritti. Come questa mia rubrica. Spesso , vi confido, mi incontra gente che legge questa rubrica e ne discutiamo. A tutti dico che questa rubrica prima di tutti serve a me. Mi serve. Perché mi invita per una settimana a riflettere, a pensare al Nostro Signore, a pregare e mi aiuta tantissimo. Pregare è parlare con il Signore dire a Lui tutto di noi, ciò che non va, ciò che va. Lui è lì che ci ascolta. Pregare è fidarsi di una persona, di un Dio che ti ama. Pregare è sapere cosa chiedere, avere chiaro cosa è importante nella nostra vita, senza chiedere cose futili, cose inutili. Pregare è prendere atto che non tutte le richieste possono essere esaudite e se non lo sono state, non è perché Dio non ci vuole bene. Dio non gioca con la nostra vita. Non è mago Silvan. Pregare è svuotarsi, fare vuoto dentro di noi e riempirsi di Cristo, riempirsi della sua Parola. Siamo chiamati a insistere. Non per convincere Dio, ma per convertire il nostro cuore. Insistere per purificare il nostro cuore e scoprire che Dio non è un giudice, né giusto né ingiusto, ma un padre tenerissimo. Insistere nella battaglia che, quotidianamente, dobbiamo affrontare. Insistere. Il brano del vangelo di oggi si conclude con una domanda “Quando tornerò, troverò ancora la fede sulla terra?” Una cosa siamo chiamati a fare: avere fede. Gesù tornerà, lo sappiamo, quando ogni uomo avrà sentito annunciare il Vangelo di Cristo. Verrà per completare il lavoro. A meno che il lavoro non sia fermo, paralizzato dall’incompetenza delle maestranze, dall’egoismo del particolarismo, dal litigio degli operai. Ci sarà ancora fede? Non dice: “Ci sarà ancora un’organizzazione ecclesiale? Una vita etica derivante dal cristianesimo? Delle belle e buone opere sociali?” Non chiede: “La gente andrà a Messa, i cristiani saranno ancora visibili, professeranno ancora i valori del vangelo?”. La fede chiede il Signore. Non l’efficacia, non l’organizzazione, non la coerenza, non la struttura. Tutte cose essenziali. Se portano e coltivano la fede. Ma inutili e pericolose, se autoreferenziali, se auto-celebrative. Altrimenti rischiamo di confondere i piani, di lasciare che le cose penultime e terzultime prendano il posto delle cose ultime. Sano rimprovero, quello di Gesù oggi, sano realismo, sconcertante provocazione. Gesù chiede a noi  di conservare fede nella avversità, di non demordere, di non mollare, di continuare la battaglia del Regno. È tempo di fedeltà, di non mollare, di non demordere. Proprio perché i tempi sono nebulosi. Oggi, durante le nostre assemblee, con la nostra presenza, la nostra vita, il nostro desiderio, potremo dire: sì, Signore, Maestro, se oggi verrai, se ora è la pienezza, troverai ancora la fede bruciare. La nostra.

Buona Domenica

Totò Sauna

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La parola della domenica

“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”.

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Rubrica della domenica ad ispirazione cattolica

Dal Vangelo secondo Luca Lc 6,27-38

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

p. Ermes Ronchi

“Domenica scorsa Gesù aveva proiettato nel cielo di Galilea un sogno e un terremoto: beati voi poveri, guai a voi ricchi.Oggi sgrana un rosario di verbi esplosivi. Amate è il primo; e poi fate bene, benedite, pregate. E noi pensiamo: ci sta. Ma quello che mi scarnifica, i quattro chiodi della crocifissione, è l’elenco dei destinatari. Chi dobbiamo amare? Amate i vostri nemici, gli infamanti, gli sparlatori, coloro che vi pugnalano alle spalle.Gli inamabili.Poi Gesù mi guarda negli occhi e si rivolge proprio a me: tu porgi l’altra guancia, tu dai anche la camicia, tu non chiedere indietro. E ti costringe ad andare in cerca di quelli che vorresti invece perdere.Questo vangelo rischia di essere un supplizio, un martirio. Ci chiede cose impossibili, addirittura: Siate come Dio!Nessuno riuscirà a vivere così a colpi di volontà, neppure i più bravi tra noi. Ma i verbi impossibili di Gesù descrivono l’agire di Dio.Infatti: siate anche voi misericordiosi come il Padre.E poi: come volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. Una capriola che pare illogica: ritorna al cuore, misurati con ciò che desideri, accosta le labbra alla sorgente del cuore.Sappi che il cuore è buono. Che il tuo desiderio è buono. Abbiamo tutti un disperato bisogno di essere abbracciati e di essere perdonati.Tutti desideriamo qualcuno che ci benedica, una casa dove sentirci a casa, e poter contare sul mantello di un amico.Questo darò agli altri.Ciò che desideri per te, dallo all’altro. Altrimenti vi sbranerete per un pugno di euro, per una donna, per il petrolio, per un bonus, per un posto al parcheggio.L’unica strada per il sogno di cieli nuovi e terra nuova è Abele che diventa custode di Caino, la vittima che si prende cura del violento. Abele e Caino forzano insieme le porte del Regno.Perdonate:“Il perdono strappa dai circoli viziosi,spezza le coazioni a ripetere su altri ciò che hai subito,spezza la catena della colpa e della vendetta,spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt).Sì, io però sono un angelo imperfetto.E allora il Vangelo propone una strategia. Un primo passo è sempre possibile, a tutti: il vangelo è pieno di inizi, trabocca della teologia dei germogli e del seme che spunta.Basta il coraggio di un primo passo. Come Dio. Come il cuore. Sappi che sei buono!Questi grandi verbi di fuoco (amate, date, perdonate) cominciano sottovoce, in penombra, raso terra, nel sussurro di una voce che ha i colori dell’alba.“Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” (Gandhi). Cambia qualcosa di te, ma sulla misura alta del vivere”.

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La parola della domenica

‘Beati i poveri. Guai a voi, ricchi’

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Rubrica della domenica ad ispirazione cristiana

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

Padre Ermes Ronchi

Un vangelo potente e inarrivabile.Da oltre cinquant’anni lotto con questo vangelo, che mi sfugge sempreLe parole che cerco di allineare sono come uccellini che sbattono contro le pareti della gabbia, a dire poco più del nulla che capiamo di queste parole immense.“Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”, aveva detto nella sinagoga. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri.Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio sono le infinite croci degli uomini.E aggiunge alla fine un’antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi!Sillabe sospese tra sogno e miracolo, osate, prima ancora che da Gesù, da sua madre nel canto del Magnificat: “ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. (Lc 1,53).Questi oracoli profetici, anzi più-che-profetici, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, a disgraziati, ai bastonati dalla vita, ci obbliga a un capovolgimento di prospettiva, a guardare la storia con gli occhi dei poveri e dei piccoli, non con quelli dei ricchi e dei potenti, altrimenti non cambierà mai niente.E ci saremmo aspettati: “beati voi poveri perché ci sarà un capovolgimento, un’alternanza, diventerete voi i signori”.No. Il progetto di Dio è più profondo. C’è di mezzo il Regno dei cieli, che non è il paradiso o l’al di là, ma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani.Il mondo non appartiene a chi se ne impossessa o lo compra, ma a chi lo rende migliore. E non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro.Beati voi… Il vangelo più alternativo che si possa pensare, il manifesto più stravolgente e contromano. Eppure, al tempo stesso, senti che è amico della vita, vangelo amico.Perché le beatitudini non sono un comandamento, un ordine da eseguire, ma il cuore dell’annuncio di Gesù: la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace.In esse è l’inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l’inizio della guarigione del mondo.Guai a voi, ricchi, sazi, gaudenti, famosi. I quattro “guai” ci inquietano un po’, ma non sono delle maledizioni: Dio non maledice le sue creature, mai, la sua è la voce della tristezza del padre in pena per i figli che si stanno perdendo.“Guai” non suona come una minaccia, ma come il gemito dei lamenti funebri, il singhiozzo del pianto su chi appare come morto.“Guai”: e vi sento dentro il lamento di Gesù, che piange i ricchi e i sazi come coloro che si sono sbagliati su ciò che è vita e ciò che non lo è; e sono diventati gli idolatri del vuoto, gli amanti del nulla.E gli idoli sono crudeli, spietati: divorano i loro stessi adoratori.

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La parola della domenica

«Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini»

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 Rubrica della domenica ad ispirazione cattolica

Vangelo secondo LucaLc 5,1-11

 In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Le letture di oggi propongono uno dei temi più affascinanti dell’esperienza religiosa: quello del Dio trascendente e glorioso, tremendum et fascinansTremendum, perché dice santità e inaccessibilità. Dio non lo si può possedere. Al suo cospetto gli uomini avvertono un timore “numinoso”, come di fronte a qualcosa che si è indegni di avvicinare perché troppo piccoli e inadeguati. E tuttavia fascinans, perché il mistero attira e rapisce: la creatura sente, nonostante tutto, il bisogno di avvicinarsi. Questa esperienza “religiosa – sommariamente descritta – non è l’esperienza dell’uomo biblico, perché il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio di Gesù, non se ne sta racchiuso nella sua onnipotenza maestosa, incutendo paura e tremore, ma discende per entrare in relazione con l’essere umano. È Dio stesso che si china per abbracciare il limite umano in un amplesso di intimità salvifica. Di fronte al Santo l’uomo avverte rispetto, ma non paura, perché, come dice il cantico, Dio scende per «visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79)

Prima lettura: Is 6,1-2a-3-8

La visione di Isaia si apre con uno sguardo sulla corte celeste e sulla celebrazione della trascendenza e della santità divina. Dio appare attorniato dai serafini che cantano la sua santità, mentre il tempio si riempie di fumo. Gloria, santità, nube, fumo… sono tutte espressioni della trascendenza di Dio, dell’insondabile mistero che lo avvolge. Bisogna stare però attenti a non confondere il “mistero” divino con l’umiliazione della ragione umana, come se Dio, con la sua “lontananza”, volesse tenere l’uomo a distanza. No, Dio non mortifica l’uomo per ergersi su di lui. La Bibbia non parla mai della paura di Dio, ma del timore di Dio, che è altra cosa. Temere Dio significa “prenderlo sul serio”! Il mistero divino dice alterità e libertà, gratuità e grazia. Il mistero di Dio dice che quanto di lui sappiamo è un dono, una promessa e che noi non siamo in grado di comprendere tutto, perché non siamo neppure capaci di comprendere noi stessi. Dio va preso sul serio e amato anche se rimane il nostro «immenso enigma, il nostro grande amore, l’infinito dolore della nostra vita» (Lippert). Lo sappiamo tutti: il più grande dei misteri non è la persona più lontana, ma la più prossima, la più vicina.

Eppure Isaia, di fronte a lui, si sente indegno: «Ohimé, sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono!». Un profeta, chiamato ad annunciare la Parola con le sue labbra contaminate, confessa la sua indegnità proprio nel compito che gli è stato affidato. Non si tratta tanto di una confessione di peccato, quanto di una distanza incolmabile che separa ogni uomo da Dio. «Domine non sum dignus / Signore non sono degno» esclamano tanti uomini di Dio davanti al mistero ineffabile della chiamata: lo esprime Geremia, un altro profeta di Dio, avvertendo l’abisso della propria inadeguatezza davanti al mistero di Dio e lo pronuncia un centurione davanti a Gesù (Mt 8,8).

A questi uomini Dio stesso risponde, non per sottolineare la distanza, ma per far sì che si cambi la prospettiva. Il simbolo del fuoco che purifica o della parola divina che invia nonostante le obiezioni degli inviati dicono sostanzialmente una cosa: non è l’uomo a dover scalare il monte santo, perché non ne è capace; Dio stesso varcherà l’abisso.

Ed ecco il prodigio: alla richiesta di chi debba annunciare a tutti la salvezza e il giudizio, Isaia risponde con prontezza: «Eccomi! Manda me». È la fiducia totale di chi si getta interamente nelle braccia di Dio. Che cosa importano indegnità, paura, fallimento e peccato? Eccomi è la gioiosa certezza che sulla nostra debolezza si riversa la misericordia divina.

Il Vangelo: Lc 5,1-11

Il racconto sobrio e un po’ schematico della chiamata dei primi discepoli nel vangelo di Marco diventa, in Luca, un racconto emozionante e denso che, in analogia al racconto della vocazione di Isaia, insiste sulla percezione che l’uomo ha di se stesso e di Dio, quando le loro strade s’incontrano.

Le figure dominanti sono Gesù e Pietro, con un evidente rimando alla situazione ecclesiale. I discepoli di ogni tempo sono invitati così a rileggere questo racconto come una storia che riguarda la loro identità di chiamati e il fondamento stesso del loro essere chiesa alla sequela di Cristo. La folla «che premeva su di lui per ascoltare la parola di Dio» lungo il lago di Genezareth è un segno evidente della fame della Parola di cui parlava il profeta Amos: «Ecco: giorni stanno arrivando, oracolo del Signore Dio, in cui manderò la fame sulla terra: non fame di pane né sete di acqua, bensì di ascoltare le parole del Signore» (Am 8,11).

Questa Parola si rivolge a Simone intimandogli di gettare le reti, dopo una notte di vana fatica. Un ordine paradossale, contro ogni logica umana. La disponibilità di Pietro non è solo un atto di rispetto e di prontezza di fronte al comando del Signore. «Sulla tua parola calerò le reti» rivela un atteggiamento molto più profondo: è la stessa scommessa di Abramo che, nella notte, «non indugiò a lungo, non discusse con se stesso, né chiese come Adamo nel paradiso terrestre: perché Dio mi ordina di far questo? Non ubbidì alla sua propria carne… che anzi di questa cosa non parlò nemmeno con la sua Sara, né le disse qualcosa; avendo udito l’ordine, non dubitò, ma si affrettò ad eseguirlo» (Von Rad). È la fede che rischia, consapevole che Dio, sia quando parla sia quando tace, lo fa per amore: ci guida con la sua voce, ci educa col suo silenzio.

La pesca viene descritta da Luca con molti dettagli, a sottolineare che Dio non solo risponde alle attese umane, ma le esalta. Di fronte alla potenza divina, tuttavia, Pietro ripercorre la stessa esperienza di Isaia e di ogni uomo religioso: «Allontanati da me Signore, perché sono un peccatore!». Abbiamo qui – ancora una volta – ben più di una semplice qualifica morale; si tratta di una percezione di inadeguatezza: chiedendo a Gesù di allontanarsi, Pietro lo riconosce santo e incomparabile, radicalmente diverso da tutto ciò che egli potesse conoscere o immaginare.

Eppure il Signore, inavvicinabile e inenarrabile, sceglie proprio Pietro “il peccatore” per appartenergli. Dio pronuncia davanti a lui il suo  definitivo, il suo Amen, ed è su questo Amen, su questo sì di Dio che riposa la missione della chiesa: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Da quel momento l’essere e l’agire di Pietro riposano esclusivamente sull’azione di grazia del Signore. A significare che gli uomini vanno a Dio con la loro debolezza, la loro indegnità e il loro peccato; pensano di non farcela, ma proprio quando «uno si immagina di non essere più in grado di proseguire il cammino con Dio, perché è troppo difficile, ecco che la vicinanza di Dio, la fedeltà di Dio, la forza di Dio diventano la sua consolazione e il suo soccorso. Solo allora sappiamo chi è Dio e qual è il senso della nostra vita» (Bonhoeffer).

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano

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