Il 18 gennaio del 2015 presso Palazzo Pignatelli venne inaugurato il Museo del Cinema “Pina Menichelli”, che ad oggi è una delle 2 o 3 realtà museali presenti in Sicilia dedicata all’arte cinematografica. Il nastro venne tagliato da padre Rocco Quattrocchi e dall’allora sindaco Angelo Fasulo. Intervennero personalità come il professore Nino Genovese, storico del cinema, giornalista e docente universitario, e la brava attrice Anna Passanisi fece da madrina. Ci fu pure un collegamento telefonico con Pupi Avati, che del Museo è il Presidente onorario.
Quest’anno ricorrono quindi i 10 anni di vita del museo. Vita nascosta e clandestina, se si pensa che dopo mille vicissitudini il “Menichelli” non ha ancora una sede stabile. Allora mentre i nostri politici fanno continue “masturbazioni mentali e intellettualistiche” sulla cultura, l’arte, il turismo, nessuno in tutto questo lasso di tempo ha saputo assicurare una sede anche temporanea al museo. Certo, qualcuno potrebbe dire che nella nostra città ci sono altre priorità, e soprattutto che non ci sono fondi. Sarà, ma intanto abbiamo visto come associazioni e consorzi vari abbiano potuto svolgere nel periodo festivo degli eventi…certo non gratuitamente, e come non manchino idee e progetti “culturali” per l’anno in corso che comunque verranno gestiti sempre dai… soliti noti. D’altronde, il modo sorprendente che ha visto la morte (prima ancora di nascere) del costituendo comitato scientifico e tecnico per le attività culturali lo scorso autunno, e quindi la “rimodulazione” dello stesso secondo criteri non a tutti comprensibili, ci dice come sia complicato se non impossibile in questa città dare voce a chi è fuori dal sistema. Il Museo organizzerà la prossima primavera un importante evento per ricordare questi 10 anni di vita, con il prestigioso patrocinio dell’Associazione Italiana per le Ricerche del Cinema e alla presenza della direttrice, la giornalista fiorentina Silvia Guidi, responsabile delle pagine della cultura dell’Osservatore Romano
Sinceramente non comprendo come mai in 10 anni nessun sindaco, nessun assessore, nessun consigliere comunale abbia mai portato in aula consiliare una discussione intorno al Museo del Cinema di Gela? E posso credere che, per quanto distratti, i nostri politici non sappiano dell’esistenza del “Menichelli” e di ciò che esso rappresenta dal punto di vista culturale ma anche di ciò che potrebbe rappresentare in una strategia turistica dove accanto alle altre preziosità che offre la città, andrebbe pure a vantare un museo dedicato all’arte cinematografica? Fatta questa premessa ricordo – per la storia – che il Museo del Cinema venne inaugurato il 18 gennaio del 2015 a Palazzo Pignatelli, quando di quel glorioso convitto si voleva fare il Palazzo della Cultura. Encomiabile il tentativo. Disastroso l’esito. Da allora, eccetto una breve parentesi che vide il Museo “ospitato” dal Liceo classico “Eschilo”, cimeli, documenti e archivi del “Menichelli” sono appoggiati alla meno peggio presso la sede dell’omonima Associazione, in uno stato di continuo deterioramento. Esiste pure, è vero, un importante progetto per dare al museo una prestigiosa e definitiva sede, ma la cosa non è dietro l’angolo e comunque per scaramanzia è meglio per ora non dire altro. Intanto è stata inaugurato al Teatro “Luigi Pirandello” di Agrigento l’Anno che vedrà la città di Empedocle essere capitale italiana della cultura. Un’occasione importante per la Sicilia e per la nazione intera come ha detto lo stesso presidente della Repubblica Mattarella. Così, viene da chiedermi, chissà se Agrigento “che un museo del cinema non lo ha” avrebbe riservato un maggiore interesse al Menichelli. Ma la domanda sarebbe pertinente anche per qualsiasi altro comune.
Lo scorso 10 febbraio si è svolta ai più alti livelli istituzionali “la giornata del ricordo” al fine di perpetuare la memoria sugli assassinii e le stragi che riguardarono le popolazioni istriane e giuliano-dalmate a cavallo fra il ’43 e la fine della Guerra, che poi determinarono l’esodo dalle terre natìe di 350.000 italiani sino a oltre la metà degli Anni ’50.
Molte quest’anno le iniziative, ma anche le novità editoriali che hanno riguardato l’argomento. Cito per tutti la pubblicazione “Donna, eroine, martiri delle foibe” (Editore Passaggio al Bosco) della professoressa Valentina Motta di origine messinese, scrittrice, studiosa e ricercatrice, e poi il libro “10 febbraio” del senatore di Fratelli d’Italia On. Giuseppe Menia, di origini istriane. Fra questi due interessanti volumi vorrei poggiare l’accento sul saggio della professoressa Motta per la capillare ricostruzione di fatti e eventi tragici che insanguinarono fra il 1943 e il 1945 la frontiera orientale italiana, con eccidi, torture ed esecuzioni da parte dei partigiani titini dell’Osna. Un racconto che riporta in superficie soprattutto le violenze e gli abusi perpetrati contro le donne, colpevoli di essere state compagne o parenti di uomini legati al regime, o esse stesse inquadrate nei reparti femminili della Repubblica Sociale Italiana o facenti parte di corpi volontaristici e di assistenza ai malati e ai feriti. Non mancarono poi abusi su ragazze, colpevoli solo di essere belle e quindi vittime spesso di gelosie, ricatti, vendette. Su queste donne vennero perpetrati ignominiosi stupri e orribili sevizie. E chi idealmente rappresenta e simboleggia tutte queste figure (mamme, spose, sorelle, di qualsiasi età e ceto sociale) è certamente Norma Cossetto (Visinada, 17 maggio 1920), che a 23 anni, fra la notte del 4 e 5 ottobre 1943 venne sequestrata, violentata da 17 titini e poi gettata viva nella Foiba di Villa Suriani.
Il cadavere sarebbe stato rinvenuto 2 mesi dopo, alla fine di dicembre, privo di indumenti e con un paletto di legno conficcato nella vagina. Una fine orribile quella della studentessa universitaria che stava preparando la sua tesi di laurea, e che venne descritta da chi la conobbe come una ragazza solare e piena di vita, certo ignara dal crudele destino che la condusse alla più spaventevole delle morti. L’8 maggio 1949 l’allora rettore dell’ Università di Padova, prof. Aldo Ferrabino, conferì la laurea ad honorem in lettere a Norma Cossetto, mentre nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi insignì alla ragazza istriana della Medaglia d’oro al merito civile. Precisa, puntigliosa e scrupolosa è stata la ricostruzione dell’esecuzione della Cossetto da parte di Valentina Motta, ma anche di tante altre donne coraggiose che vennero martirizzate in nome dell’ideologia comunista, dalle bande armate del Maresciallo Tito. Fra l’altro l’autrice nel riportare alla luce tanti di questi episodi non manca di sottolineare come comunque c’è ancora molto da ricercare, e molto da indagare per riesumare (proprio come si è fatto nel recuperare i corpi infoibati) altri casi nascosti e dare una maggiore completezza a quel “film dell’orrore” tenuto per decenni così vergognosamente nascosto e vilmente tacitato.
Sebbene già nella precedente amministrazione e durante questa sua ultima trionfale campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca, i comportamenti, le parole e le decisioni di Donald Trump avevano già fatto comprendere chiaramente con quale uomo avrebbe dovuto confrontarsi il mondo, adesso che dalla teoria si è passati alla pratica, è sconvolgente constatare come il nuovo Presidente degli Stati Uniti a poche settimane dalla sua rielezione abbia già destabilizzando i già precari equilibri del nostro pianeta. Le sue scelte, le sue decisioni, le sue sortite perentorie, che non ammettono dialogo o confronto perchè lui è “l’unto dal Signore”, ci dicono quanto siamo messi male se la nazione più potente del mondo è governata da un signore isterico e megalomane, irresponsabile e senza freni. D’altronde, l’altra superpotenza mondiale, ovvero la Russia, è nelle mani di un altro esaltato, il carnefice e sanguinario Vladmir Putin.
Ebbene, questi due uomini, secondo nuove logiche imperialistiche che sembravano morte e sepolte, vanno d’accordo e sembrano volersi spartire il mondo assicurandosi delle precise aeree di influenza. Così Trump, anche per avere poi dallo “zar” il via libera sui suoi progetti, sta cercando di chiudere in poche battute una pace fra la Russia e l’Ucraina, e non verrà difficile a Putin aderire a questo piano, che sembra condannare l’Ucraina a un triste destino di resa e capitolazione, nonostante il valore dei suoi generali, dei suoi soldati e del suo popolo. Non è infatti concepibile che si lavori ad un trattato di pace, unilateralmente, con una sola nazione che detta le condizioni, appoggiata da un arbitro fazioso, disposto a sacrificare Kiev, magari prendensosi poi il merito di pacificatore. E l’Unione Europea? Protesta timidamente. Non sa cosa fare e non ha personalità politiche capaci di spezzare questa diabolica intesa che sta venendosi a creare fra Stati Uniti e Russia. Lo stesso presidente francese Macron appare patetico nelle sue timide reazioni alle imprevedibili e perentorie scelte di Trump. E Giorgia Meloni? Donna intelligente e statista di razza, checché ne dicano gli avversari politici, cosa fa? La sua ostentata amicizia con Trump dovrebbe metterla in una posizione di privilegio rispetto agli altri partners europei, e quindi solo lei potrebbe fare ragionare il presidente degli USA sulle sue strategie. Qui allora si gioca tutta la credibilità della premier, non solo come Presidente del Consiglio, ma anche rispetto alle mire di divenire una leader indiscussa anche in Europa. Se la Meloni avrà coraggio e argomentazioni per opporsi a Trump (e Musk!), allora la sua leadership e la sua immagine ne usciranno potentemente rafforzate. Altrimenti, rimanendo zitta e supina davanti alle pericolose “devianze” di Trump, la Presidente del Consiglio finirà col bruciare tutta la credibilità e la stima che ha saputo conquistarsi negli anni con un puntiglioso e duro lavoro. D’altronde, la Meloni, che ha difeso a spada tratta e con i fatti il diritto ad esistere dell’Ucraina, come potrebbe accettare adesso che quella nazione, disarmata e mutilata in buona parte del suo territorio, divenisse un’ altra ragione satellite della Russia? Se Meloni ha riconosciuto la pericolosità di Putin dovrebbe pure comprendere che Trump in fondo non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia. La verità, senza girarci troppo intorno, è che Putin e Trump, diversi eppure uguali, sono una grave minaccia per il mondo. E ad opporsi a questi due pescecani non potrà essere la debole Europa e neppure la Gran Bretagna che ambiguamente davanti ad una situazione così esplosiva se ne sta zitta nel suo isolazionismo. ma paradossalmente potrà farlo la Repubblica Popolare Cinese, il cui presidente, Xi Jinping a confronto dello zar e del tycoon, sembra essere un vecchio grande saggio. E se è vero che tra i due litiganti il terzo gode, forse allora sarà proprio la Cina a vincere la grande partita politica, strategica ed economica che ormai si sta combattendo da anni senza esclusione di colpi. Ma neppure quest’ultima prospettiva al fine ci riempirebbe di gioia.
Da credente e da cattolico sono profondamente addolorato dagli attacchi spesso strumentali cui viene sottoposta continuamente la Chiesa di Roma, attraverso virulente campagne mediatiche che giungono da ogni angolo dell’Europa “pagana”, dai burocrati e dai finanzieri in giacca e cravatta. Questi attacchi hanno ormai raggiunto dimensioni preoccupanti, direi di istigazione all’odio, aggressioni mosse sovente da ideologie estreme che vanno spesso ad edulcorare la verità. Fatta questa premessa, non si possono non riconoscere gli errori e anche gli orrori, le incongruenze e le contraddizioni che nel corso dei secoli hanno accompagnato il cammino della Chiesa, fatta da santi ma anche da uomini in carne ed ossa con tutti i loro difetti e le loro debolezze.
Sono altresì cosciente di quanto sarebbe necessaria una rigorosa riforma dei seminari, e di come molti sacerdoti non siano stati all’altezza del loro ministero macchiandosi di gravi colpe, tanto da determinare sfiducia e smarrimento fra i fedeli. Ma la Chiesa non la si può giudicare solo dalle “pecore nere” che la abitano. D’altronde c’è una famiglia che non ha in casa una “pecora nera”? E allora? Per una mela marcia non si può buttare tutto il cesto delle mele buone. Perchè allora non si parla mai di una chiesa coraggiosa e militante, fatta di preti coraggiosi, preti di strada, che hanno servito il popolo di Dio sino ad offrirsi come “olocausto”? Diciotto anni anni fa proprio in questo giorno, 16 gennaio, veniva a a mancare a Gela uno di questi preti. Si chiamava don Franco Cavallo, uno dei pochi sacerdoti che non si vergognava di indossare ancora la talare della quale andava orgoglioso. E la sua memoria è rimasta viva e palpabile nel ricordo della gente. Don Franco è stato veramente il prete del popolo, disponibile con tutti, morto perché nonostante la malattia che lo rendeva vulnerabile ad uno spiffero di vento, volle fare una veglia di preghiera notturna nel freddo dicembre di quel 2006, che le causò la broncopolmonite poi rivelatasi fatale. Padre Cavallo era quindi figlio di quella Chiesa militante che affonda le sue radici nel Vangelo di Cristo. E’ stato “missionario” a Gela ed è morto nella città che gli diede i natali, ma la nostra città ha avuto anche altri missionari che decisero di andare lontano a servire gli ultimi. Come non ricordare a questo proposito la grande missione di don Giovanni Salerno in Perù? E i tanti frati cappuccini che andarono in Brasile e altre terre lontane nella prima metà del ‘900? Ed ancora oggi la Chiesa di Gela produce missionari. Ricordiamo a questo proposito don Giorgio Cilindrello, che ha lasciato il parrocato di San Sebastiano (proprio dove don Franco ridiede vita e luce al quartiere di Settefarine) per andare missionario in Argentina.
Don Giorgio ha così accolto nel suo cuore quell’idea di “chiesa in uscita” che Papa Francesco ha predicato sin dal suo primo giorno di insediamento sul soglio di Pietro. Allora, in questo Anno Santo, torniamo a guardare alla Chiesa come Madre e non come matrigna, e contribuiamo da buoni cristiani a difenderla, non dimenticando di esserne le membra vive. Rimaniamo allora vigili e severi contro gli abusi e le prepotenze di chi si macchia di intollerabili colpe, ma aiutiamo pure i tanti buoni sacerdoti che quotidianamente lavorano per la Vigna del Signore senza calcoli e senza risparmio. Con amore, con fatica, sempre aperti alla speranza, e con mani laboriose, sempre pronte alla buona semina.