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Leggende e cunti siciliani

“A mminnicazione”, Daniele Maganuco racconta

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In contrada “Scomunicata”, quel nome già diceva tutto, c’era un vecchietto di Gela che ogni giorno, con qualsiasi tempo, si metteva sulla sua bici scassata e pedalava verso il suo fazzoletto di terra. Lo faceva sotto il sole rovente, quando il vento sferzava la campagna o quando il cielo si apriva in pioggia e tempesta. Lui, con la schiena curva e il cappello di paglia storto sulla testa, pedalava, borbottando contro il mondo e le divinità.Accanto alla sua terra, c’era un altro pezzo di terreno. Questo apparteneva a un niscemese che, ogni mattina, arrivava in campagna con il suo asinello.L’uomo, a differenza del gelese, sembrava sempre riposato, pronto per la giornata. Scendeva dall’asinello, si lisciava i baffi, e iniziava a lavorare con calma e precisione, senza mai una parola fuori posto.Il gelese lo guardava di sottecchi, con il viso rigato di sudore e i muscoli stanchi.Notava i frutti della terra del niscemese: più verdi, più rigogliosi, più abbondanti. E ogni volta, con ogni pedalata sulla via del ritorno, malediva il destino, Dio, e pure il sole che picchiava sulle sue spalle come un martello.Un giorno, mentre imprecava l’ennesima volta contro la zappa che non voleva saperne di entrare nella terra secca, accadde qualcosa di strano. Dal nulla, nel mezzo del proprio terreno, gli apparve Gesù Cristo in persona.Aveva lo sguardo severo e gli chiese:”Perché mi insulti? Perché ce l’hai con me?”Il gelese, sorpreso e senza un briciolo di paura, rispose:”Perché? Non lo vedi? Quel niscemese ha un asinello, arriva riposato, e guarda che raccolto che ha!Io, invece, arrivo distrutto, stanco morto, e i miei pomodori sembrano cutugna!”Gesù lo guardò con pazienza e disse:”Vuoi un asinello anche tu?”Il gelese, con un ghigno malizioso, rispose:”No, non mi serve l’asinello… fammi solo il favore di far morire quello del niscemese.”Gesù lo guardò tristemente, sospirò e scomparve, lasciando il vecchio solo con la sua terra sterile.Questa storia rappresenta in modo molto vivido un aspetto della mentalità che, purtroppo, è radicato in alcune aree della Sicilia, come Gela.Il termine “mminnicazione” coglie perfettamente l’essenza di questo atteggiamento: invece di desiderare di migliorare la propria condizione, si preferisce che chi sta meglio subisca una sorte peggiore. Il gelese della storia, invece di aspirare ad avere un asinello per se stesso, desidera che l’asinello del vicino muoia, così da non sentirsi più inadeguato.È un pensiero distruttivo, simile alla “Crab Mentality” americana, dove i granchi in un secchio tirano giù chiunque cerchi di uscire.Questo tipo di atteggiamento è deleterio per lo sviluppo e il progresso di una comunità, perché invece di incoraggiare la crescita, si cerca di abbattere chiunque emerga. Combattere questa mentalità è essenziale per promuovere una cultura di collaborazione e di solidarietà, elementi chiave per una società sana e prospera.

Daniele Maganuco

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Flash news

Daniele Maganuco racconta: “Il Canto della Pivila”

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Nei vicoli stretti e tortuosi di un antico quartiere siciliano, le case dai tetti in coppo si stringevano l’una all’altra come a cercare protezione. Le pale di fichi d’India crescevano indisturbate sui tetti, creando delle sagome verde brillanti che sembravano sfidare il tempo. Era una notte come tante, silenziosa…

In quella notte, un vecchietto, ormai stanco, lottava per trovare la pace. La sua famiglia lo vegliava con devozione, ma le ore si facevano sempre più lunghe, e il respiro affannoso del moribondo riempiva la casa di un silenzio denso. All’improvviso, un canto agghiacciante squarciò l’aria. Era la Pivila, come viene chiamato il barbagianni in lingua siciliana. Il suo verso era spaventoso, simile a un urlo di terrore che si propagava tra le case, un richiamo cupo e minaccioso che solo chi conosceva la tradizione poteva comprendere.

Il barbagianni si posò sul tetto della casa del moribondo. Nessuno lo vide, ma chi conosceva le leggende capì subito. La Pivila era giunta per aiutare l’anima del vecchietto a trovare pace, a permettergli di esalare l’ultimo respiro e passare oltre. Si diceva che questo uccello, considerato portatore di sventura, fosse in realtà un custode tra i due mondi, capace di aiutare chi non riusciva a liberarsi dalla vita terrena.

Il grido inquietante continuò per alcuni minuti, penetrando i cuori dei vicini come un avvertimento. Poi, improvvisamente, tutto si fermò. Il canto cessò e il vecchio spirò, come se quel suono spettrale avesse finalmente liberato la sua anima. La Pivila, silenziosa e invisibile, volò via.

Nel quartiere, però, la Pivila non portava via un’anima sola. Nei giorni successivi, altre tre morti si verificarono nel quartiere. Un’anziana a est, un uomo a ovest, e un altro a sud. E così, come già successo altre volte, le morti formarono una croce immaginaria sulla mappa del quartiere, con il vecchietto al punto nord.

Non era una croce visibile, ma chi conosceva la storia sapeva che quel segno era come un ciclo naturale di vita e morte. Quando la Pivila appariva, le anime pronte a partire la seguivano, tracciando un disegno invisibile sul quartiere. Gli abitanti, però, non osavano parlare apertamente di quella strana coincidenza. La morte era un mistero che preferivano lasciare avvolto nel silenzio.

E così, anche quella notte, il canto del barbagianni si spense nel nulla, lasciando dietro di sé un quartiere segnato dal passaggio tra la vita e la morte, una verità che si tramandava di bocca in bocca, di generazione in generazione.

Disclaimer: Il barbagianni è un uccello bellissimo e maestoso, simbolo di saggezza e protezione in molte culture antiche. La superstizione che lo lega alla sventura nasce da credenze popolari diffuse dai primi cristiani. In epoca pagana, infatti, il barbagianni e la civetta erano simboli sacri, legati alla dea Atena, dea della saggezza e della guerra giusta. Solo in seguito, con l’avvento della religione cristiana, furono trasformati in simboli negativi e demoniaci.

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Leggende e cunti siciliani

Daniele Maganuco racconta: la maledizione dei 7 cavalieri

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Erano i primi del Novecento e Salvatore, un giovane di appena diciotto anni, era il primogenito di una famiglia numerosa, composta da undici fratelli. La povertà e le difficoltà della sua famiglia lo avevano costretto a lasciare presto la scuola per dedicarsi al lavoro e contribuire al sostentamento dei suoi cari. Nonostante avesse frequentato poco la scuola, Salvatore possedeva una passione nascosta e profonda per la lettura e la scrittura. Nelle poche ore libere che riusciva a ritagliarsi, si divertiva a scrivere sonetti e poesie in siciliano, trovando conforto nella bellezza delle parole. La sua figura, robusta e di statura media, era quella di un lavoratore esperto, con la pelle scura baciata dal sole, il viso scavato dalle fatiche e dai sacrifici. Accanto a lui, inseparabile, c’era sempre il suo fedele asinello, “Carusu,” un compagno di viaggio e di vita.

Un pomeriggio del mese di marzo, Salvatore partì con Carusu e il suo carretto per un lungo viaggio verso la zona di Tenutella, vicino al castello di Falconara. Doveva lavorare in quella zona per qualche giorno, e sapeva che sarebbe dovuto partire con un giorno di anticipo per poter cominciare il lavoro all’alba. Il tragitto era lungo, e così Salvatore si preparò mentalmente alla fatica, ma con il cuore leggero, come sempre, affrontava le giornate. Con sé, aveva portato solo il necessario: un po’ di pane, qualche pezzo di pecorino e una fiaschetta di vino rosso che sua madre gli aveva preparato, insieme a una cena povera ma sostanziosa di fave pizzicate con l’aglio.

La sera era calata dolcemente su quella campagna silenziosa quando Salvatore, giunto a Tenutella, scorse sulla collina un vecchio casale arroccato. Decise di fermarsi lì per la notte. Entrò nel baglio di quella costruzione deserta, e trovò un angolo riparato dove poter far riposare Carusu. Dopo aver coperto l’asinello con una vecchia coperta, si sedette su una pietra, prese la sua semplice cena e cominciò a mangiare, gustando il cibo con quella gratitudine che solo chi lavora la terra conosce. Il vino lo scaldava mentre la stanchezza lo avvolgeva lentamente, e così, appoggiandosi al carretto, crollò in un sonno profondo.

Fu nel cuore della notte che un rumore sordo lo svegliò bruscamente. Un’ombra misteriosa si stava avvicinando a lui, e una voce profonda, quasi sussurrata, lo chiamò per nome: “Turí, è da tanto tempo che ti aspettiamo. Finalmente il destino ti ha condotto a noi.” Salvatore si alzò di scatto, il cuore che batteva forte nel petto. Davanti a lui c’era un uomo avvolto in un lungo mantello, con un viso serio e pallido, gli occhi vuoti come la notte. “Chi siete?” chiese il giovane, con la voce rotta dal timore. “Perché mi aspettavate?”

L’uomo, senza scomporsi, gli rispose: “Noi siamo sette anime di cavalieri, condannati a vagare in questo luogo per l’eternità. In vita, fummo vittime di un agguato da parte dei saraceni, e una maledizione ci ha intrappolati qui, senza possibilità di redenzione. Tu, Salvatore, sei l’unico che può liberarci. Solo tu puoi spezzare l’incantesimo e darci pace. Se lo farai, in cambio, avrai in dono ricchezze e gioielli oltre ogni immaginazione.”

Salvatore rimase senza parole. Era come vivere in una delle favole che raccontava ai suoi fratellini prima di dormire. Il cuore gli diceva di fuggire, ma la mente curiosa e la speranza di poter migliorare la sua vita lo fecero restare. “Cosa devo fare?” chiese, cercando di mantenere la calma. Il cavaliere gli spiegò che il giorno in cui si sarebbe sposato, avrebbe dovuto tornare in quel baglio per consumare il matrimonio, ma solo dopo aver mangiato sette fegati. “I fegati devono appartenere a sette fratelli,” concluse l’uomo, fissandolo con occhi cupi.

Passarono alcuni anni. Salvatore mantenne quel segreto nel profondo del cuore, senza parlarne con nessuno. Nel frattempo, aveva trovato una giovane donna di cui si era innamorato, e i preparativi per il matrimonio erano ormai alle porte. Ricordandosi della promessa fatta al cavaliere, Salvatore chiese a sua madre di mettere ventuno uova sotto una chioccia. Le uova si schiusero, e nacquero tanti piccoli galli e galline. Il giorno del matrimonio, Salvatore chiese a sua madre di uccidere sette di quei galli, ma di lasciarli intatti, senza neanche togliere le interiora.

Dopo la cerimonia, Salvatore e sua moglie partirono con Carusu e il carretto verso Tenutella, portando con sé i galli. Arrivati al vecchio casale, accesero un fuoco e consumarono il loro primo pasto da marito e moglie. Poi, Salvatore prese i sette galli, li macellò e arrostì i loro fegati. Appena terminato il pasto, una luce abbagliante illuminò il baglio e i sette cavalieri apparvero davanti a loro. L’uomo con il mantello si avvicinò a Salvatore e gli disse: “Hai dimostrato astuzia e saggezza, scegliendo di sacrificare sette galli invece dei tuoi fratelli. Ora, come promesso, riceverai le nostre ricompense.”

Il primo cavaliere si avvicinò a Carusu e, con un gesto delle mani, disse: “Il tuo asinello vivrà per sempre. Sarà al tuo fianco in ogni momento, instancabile e immortale.”

Il secondo cavaliere consegnò a Salvatore un borsello di cuoio. “Questo è pieno di marenghi d’oro. Ogni volta che ne prenderai uno, un altro apparirà al suo posto. Non conoscerai mai più la povertà.”

Il terzo cavaliere gli donò un anello d’argento, dicendogli: “Finché indosserai questo anello, nessuna malattia ti colpirà.”

Il quarto cavaliere gli diede un’antica pergamena: “Questa pergamena ti garantirà il rispetto e la benevolenza di chiunque la leggerà. In qualsiasi città tu andrai, sarai sempre il benvenuto.”

Il quinto cavaliere gli consegnò una piccola chiave d’oro. “Questa chiave apre tutte le porte del mondo. Quando ne avrai bisogno, saprai dove cercare.”

Il sesto cavaliere regalò a Salvatore una giara d’acqua incantata: “Questa giara non si svuoterà mai, e l’acqua che contiene guarisce ogni ferita e malattia.”

Infine, il settimo cavaliere si avvicinò con un pugnale, corto e affilato, forgiato in un metallo lucente. “Con questo pugnale potrai proteggere te stesso e chi ami. È indistruttibile, e il suo potere è leggendario.”

Salvatore guardò i sette cavalieri, incapace di parlare, sopraffatto dalla gratitudine e dall’incredulità e mentre l’ultima luce dei cavalieri svaniva nell’aria, Salvatore rimase immobile, stringendo la mano della sua giovane sposa.

I doni ricevuti non erano solo segni di ricchezza, ma di saggezza, forza e immortalità, più preziosi di qualunque oro. Guardò il suo fidato Carusu, che brucava pacifico, e capì che la vita non sarebbe mai stata più la stessa.

La notte era tornata silenziosa, come se nulla fosse accaduto, ma nei suoi occhi brillava il segreto di una verità che nessuno avrebbe mai saputo. Il baglio, antico e misterioso, li accolse come custodi di una leggenda destinata a sopravvivere ai secoli.

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Daniele Maganuco racconta: La notte dell’assedio “Melantòo e il sacrificio delle gelesi (405 a.C.)”

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Il racconto che segue è ispirato a eventi storici realmente accaduti, che ruotano attorno alla battaglia del 405 a.C., quando Gela venne assediata dai Cartaginesi. La notte dell’assedio: Melantòo e il sacrificio delle gelesi (405 a.C.)

Nell’anno 405 a.C., Gela era sotto assedio. Le forze cartaginesi, implacabili e numerose, attaccavano la città giorno dopo giorno. La battaglia che si combatteva non era solo tra uomini: anche le donne gelesi si rifiutavano di fuggire, scegliendo di lottare fianco a fianco con i loro mariti e figli. Tra di loro vi era Melantòo, una donna dal cuore impavido che, insieme a molte altre, aveva scelto di restare, rifiutando la via di fuga verso Kamarina.
Durante il giorno, gli eserciti nemici avanzavano, aprendo varchi nelle fortificazioni della città. Le mura, simbolo di protezione e forza, venivano demolite colpo dopo colpo. Ma, sotto il manto oscuro della notte, un diverso tipo di esercito si alzava: le donne di Gela. Melantòo, con mani callose e spirito determinato, lavorava insieme alle sue compagne, ricostruendo le brecce aperte dai cartaginesi.
Ogni notte, mentre i soldati riposavano, Melantòo e le altre donne raccoglievano pietre, impastavano fango e riparavano i danni, riportando le mura alla loro forza originaria. Era un’azione disperata, ma colma di speranza. Ogni mattina, le truppe cartaginesi trovavano una città che si rifiutava di cedere, e dietro quel miracolo notturno c’era il lavoro instancabile delle donne gelesi.

Tuttavia, la furia dei cartaginesi era inarrestabile. Nonostante l’eroismo di Melantòo e delle sue compagne, il destino di Gela era segnato. L’assedio del 405 a.C. si concluse con la distruzione della città, e il sacrificio di uomini e donne divenne leggenda.
Melantòo e le sue compagne non cercavano la gloria, ma il loro coraggio divenne per sempre parte della memoria di Gela. Non erano solo combattenti nell’ombra; erano l’anima di una città che, fino all’ultimo respiro, si era rifiutata di arrendersi.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
Testata giornalistica: G. R. EXPRESS - Tribunale di Gela n° 188 / 2018 R.G.V.G.
Publiedit di Mangione & C. Sas - P.iva: 01492930852
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