In contrada “Scomunicata”, quel nome già diceva tutto, c’era un vecchietto di Gela che ogni giorno, con qualsiasi tempo, si metteva sulla sua bici scassata e pedalava verso il suo fazzoletto di terra. Lo faceva sotto il sole rovente, quando il vento sferzava la campagna o quando il cielo si apriva in pioggia e tempesta. Lui, con la schiena curva e il cappello di paglia storto sulla testa, pedalava, borbottando contro il mondo e le divinità.Accanto alla sua terra, c’era un altro pezzo di terreno. Questo apparteneva a un niscemese che, ogni mattina, arrivava in campagna con il suo asinello.L’uomo, a differenza del gelese, sembrava sempre riposato, pronto per la giornata. Scendeva dall’asinello, si lisciava i baffi, e iniziava a lavorare con calma e precisione, senza mai una parola fuori posto.Il gelese lo guardava di sottecchi, con il viso rigato di sudore e i muscoli stanchi.Notava i frutti della terra del niscemese: più verdi, più rigogliosi, più abbondanti. E ogni volta, con ogni pedalata sulla via del ritorno, malediva il destino, Dio, e pure il sole che picchiava sulle sue spalle come un martello.Un giorno, mentre imprecava l’ennesima volta contro la zappa che non voleva saperne di entrare nella terra secca, accadde qualcosa di strano. Dal nulla, nel mezzo del proprio terreno, gli apparve Gesù Cristo in persona.Aveva lo sguardo severo e gli chiese:”Perché mi insulti? Perché ce l’hai con me?”Il gelese, sorpreso e senza un briciolo di paura, rispose:”Perché? Non lo vedi? Quel niscemese ha un asinello, arriva riposato, e guarda che raccolto che ha!Io, invece, arrivo distrutto, stanco morto, e i miei pomodori sembrano cutugna!”Gesù lo guardò con pazienza e disse:”Vuoi un asinello anche tu?”Il gelese, con un ghigno malizioso, rispose:”No, non mi serve l’asinello… fammi solo il favore di far morire quello del niscemese.”Gesù lo guardò tristemente, sospirò e scomparve, lasciando il vecchio solo con la sua terra sterile.Questa storia rappresenta in modo molto vivido un aspetto della mentalità che, purtroppo, è radicato in alcune aree della Sicilia, come Gela.Il termine “mminnicazione” coglie perfettamente l’essenza di questo atteggiamento: invece di desiderare di migliorare la propria condizione, si preferisce che chi sta meglio subisca una sorte peggiore. Il gelese della storia, invece di aspirare ad avere un asinello per se stesso, desidera che l’asinello del vicino muoia, così da non sentirsi più inadeguato.È un pensiero distruttivo, simile alla “Crab Mentality” americana, dove i granchi in un secchio tirano giù chiunque cerchi di uscire.Questo tipo di atteggiamento è deleterio per lo sviluppo e il progresso di una comunità, perché invece di incoraggiare la crescita, si cerca di abbattere chiunque emerga. Combattere questa mentalità è essenziale per promuovere una cultura di collaborazione e di solidarietà, elementi chiave per una società sana e prospera.
Era il 20 giugno 1575, e un’afa implacabile avvolgeva le mura di Terranova di Sicilia, l’odierna Gela. La città, circondata da terre aride e solcate dai venti del Mediterraneo, sembrava ancora portare i segni delle razzie e delle invasioni che avevano devastato la Sicilia nei decenni passati. Tuttavia, quella calda estate, le strade di Terranova furono animate da un evento di grande importanza: l’arrivo dell’arcivescovo Ludovico de Torres, una delle figure più rispettate della Sicilia.
De Torres, arcivescovo di Monreale, aveva deciso di proseguire i suoi pellegrinaggi estivi nei paesi dell’isola, compresa Terranova, che, pur essendo una piccola città fortificata, godeva di una certa importanza grazie alla sua posizione strategica lungo la costa. Al suo arrivo, il prelato fu accolto con tutti gli onori dai frati minori cappuccini, che da soli quattro anni si erano insediati in quel convento, posto appena fuori dalle mura cittadine, in una zona relativamente isolata e vulnerabile.
Il convento, un luogo di pace immerso nella quiete e a strapiombo sul mare, era protetto soltanto dalla sua posizione lontana dalle rotte principali dei mercanti, ma quell’anno, qualcosa di diverso si stava muovendo nel Mediterraneo. Lontano dalle attenzioni delle potenze europee, il sultano Murad III aveva inviato contingenti di uomini lungo le coste, facendoli passare per pirati comuni, con lo scopo di accumulare ricchezze e bottini da riportare a Istanbul.
Quella notte, mentre il vento del mare soffiava dolcemente tra le strade polverose di Terranova, una flotta silenziosa apparve all’orizzonte, dirigendosi verso la spiaggia della città. Gli abitanti, ormai abituati ai suoni del mare, non si resero subito conto del pericolo che stava per abbattersi su di loro. Solo le torce delle imbarcazioni e il rumore sordo dei remi che fendono l’acqua diedero il primo segnale di allarme.
I pirati erano sbarcati!
Con una precisione quasi militare, gli uomini di Murad III iniziarono a razziare le case vicino la spiaggia di Terranova, ma la città stessa rimase relativamente intatta. La loro attenzione, infatti, era stata attirata da una notizia ben più interessante: l’arcivescovo Ludovico de Torres, ospite del convento dei cappuccini, era una preda ben più preziosa di qualsiasi bottino.
I pirati si avvicinarono furtivamente al convento, passando tra i canneti e gli ulivi che circondavano l’edificio. De Torres, immerso nella preghiera serale insieme ai frati, dove oggi sorge la villa Garibaldi, non aveva alcun sospetto del pericolo imminente. I frati, consapevoli della vulnerabilità del convento, avevano chiuso le porte, ma queste non erano certo costruite per resistere all’assalto di uomini armati.
L’irruzione fu rapida e brutale. I frati cercarono di opporre una resistenza, ma furono facilmente sopraffatti dai pirati, che entrarono nel convento come furie nel cuore della notte. Ludovico de Torres, sebbene terrorizzato dall’assalto, non perse la sua compostezza. La sua fede lo sosteneva anche nei momenti più bui, e mentre i pirati lo trascinavano fuori dal convento, il suo sguardo era fermo, quasi come se sapesse che il destino della sua cattura avrebbe avuto ripercussioni ben più grandi per la Sicilia.
Fu portato via sotto il cielo stellato, verso una nave ancorata poco lontano dalla costa. I pirati, soddisfatti del loro bottino, si ritirarono senza infliggere ulteriori danni alla città o ai suoi abitanti, consapevoli del valore del loro ostaggio. Le voci si diffusero rapidamente tra le vie di Terranova ed emissari furono inviati nei paesi vicini:
l’arcivescovo era stato rapito!
I giorni successivi furono segnati dall’attesa e dalla paura. I Terranovesi pregavano affinché il riscatto richiesto dai pirati fosse pagato rapidamente, e che Ludovico de Torres potesse tornare sano e salvo. Le trattative, seppur complicate, furono avviate dalle autorità e dalla chiesa. L’arcivescovo, nel frattempo, restava prigioniero in una nave turca, la sua fede ancora intatta, consapevole che il suo destino era nelle mani di Dio. Il rapimento di Ludovico de Torres divenne una delle vicende più discusse nella Sicilia di quegli anni, non solo per il valore religioso dell’arcivescovo, ma anche per il simbolismo della sua cattura da parte di uomini di un’altra fede.
Il riscatto, alla fine, fu pagato, e Ludovico de Torres fu liberato dopo settimane di prigionia. Il suo rapimento rimase una ferita aperta per la città di Terranova, che da allora visse nel terrore costante di nuove razzie e assalti.
Era il giugno del 1931, un’estate calda e polverosa che avvolgeva la piana di Gela come una coperta soffocante. Vannino, un giovane modicano di 24 anni, era un “Sulamaro”, uno di quelli che, alla fine del raccolto, andava in cerca delle spighe rimaste a terra dopo la trebbiatura. Era un ragazzo robusto e silenzioso, con il viso segnato dalla vita dura dei campi e dagli anni difficili in cui aveva perso entrambi i genitori a causa della spagnola. Orfano, e con solo il suo mulo a fargli compagnia, Vannino si era spinto fino a Gela per cercare lavoro, trovando accoglienza tra i contadini che gli permettevano di raccogliere il grano dimenticato. Dopo una giornata interminabile di lavoro sotto il sole rovente, si ritrovò a dover attraversare le colline pietrose intorno a Manfria, diretto verso Piana Marina, dove sperava di trovare un posto tranquillo per passare la notte.
La sera era calata, e la luna illuminava pallidamente il paesaggio selvaggio e isolato. Il vento caldo portava con sé l’odore del mare, ma mentre scendeva dalla collina, Vannino notò qualcosa di insolito. Alla sua sinistra, verso la torre di Manfria, sulla vallata che portava al mare, vide delle luci brillare nel buio. La curiosità ebbe la meglio, e decise di avvicinarsi. Il mulo, che lo accompagnava fedelmente, pareva inquieto, ma lui lo rassicurò con una pacca sul collo, continuando a camminare verso quelle luci misteriose.
Quando finalmente raggiunse la valle, ciò che si trovò davanti lo lasciò senza fiato. Un mercato, apparso come dal nulla, si stendeva davanti a lui, con bancarelle colorate e mercanti che gridavano per attirare i clienti. La scena era irreale: tutto sembrava così vivido, eppure non avrebbe mai immaginato che in quel luogo ci fosse un mercato tanto vivace. Le voci dei venditori, i suoni dei ferri che battevano, le risate dei compratori: tutto sembrava uscire da un altro mondo.
Vannino si avvicinò, osservando con meraviglia la merce esposta. C’erano tessuti preziosi, frutta esotica e formaggi profumatissimi. Ma c’era qualcosa di strano in quell’aria, come se il tempo si fosse fermato. Mentre cercava nervosamente qualche moneta nelle tasche per comprare qualcosa, il mulo, con uno sbuffo, fece cadere delle monete dalla bocca. Sorpreso e incredulo, Vannino le raccolse e si diresse verso una bancarella che vendeva formaggio. Il profumo era irresistibile, e con le monete cadute, riuscì a comprarne una fetta generosa, pensando che sarebbe stato perfetto per la “mangiata i matina” del giorno dopo.
Mise il formaggio nelle “Vertile” del mulo, le sacche di cuoio che teneva legate alla sella, e si incamminò verso Piana Marina. Ma, appena girato l’angolo su un cozzo di pietra, quando provò a dare un ultimo sguardo a quel mercato straordinario, non vide altro che buio. Il mercato era sparito, inghiottito dalla notte come se non fosse mai esistito.
L’indomani mattina, quando Vannino si svegliò e mise le mani nelle “Vertile” per recuperare il formaggio, sentì qualcosa di duro e freddo. Incredulo, tirò fuori l’oggetto, solo per scoprire che la fetta di formaggio che aveva comprato si era trasformata in un lingotto d’oro zecchino. Il peso del metallo tra le sue mani era rassicurante, e la sua mente si riempì di mille pensieri: cos’era successo la notte precedente? E quel mercato misterioso, apparso dal nulla, avrebbe fatto ritorno?
Di certo, nessuno gli credette quando raccontò la sua storia. La gente rideva, lo considerava un sognatore, ma Vannino sapeva cosa aveva visto. Il mercato di Manfria appariva una volta ogni sette anni, e chiunque avesse la fortuna di imbattersi in esso, avrebbe portato con sé un ricordo magico e prezioso, anche se carico di mistero.
Da quel giorno, Vannino tornò spesso in quelle colline, sperando di rivedere le luci del mercato, ma non lo trovò mai più.
Disclaimer: Durante le mie ricerche, ho trovato anche una versione simile di questa leggenda nel comune di Milena, in provincia di Caltanissetta, con alcune varianti riguardanti la natura del mercato e la trasformazione dei beni acquistati. La storia qui narrata è il frutto di una combinazione di questi racconti popolari, con l’intento di preservare e valorizzare il patrimonio culturale della nostra terra.
Nelle calde sere d’estate, quando il sole si spegneva dolcemente dietro l’orizzonte e le strade di Gela si svuotavano dei giochi e delle risate dei bambini, iniziava il vero incanto. I più piccoli, ormai stanchi dalle corse e dai giochi, si raccoglievano intorno alle ginocchia dei loro nonni, impazienti di ascoltare quei racconti che, come una magica filastrocca, venivano tramandati di generazione in generazione. Erano storie che riecheggiavano di mistero e di magia, leggende che facevano rabbrividire e sognare.
Tra i “cunti” più amati e richiesti dai bambini c’era sempre la leggenda del Gigante Manfrino. Il semplice nome evocava immagini grandiose e affascinanti, di un tempo lontano in cui uomini tanto grandi quanto buoni camminavano sulla terra. La storia di Manfrino veniva narrata con tale enfasi che sembrava quasi di poterlo vedere, quel gigante dal cuore d’oro, mentre si ergeva maestoso accanto alla sua torre, sorvegliando con affetto il golfo di Gela.
Manfrino, così lo chiamavano, era un gigante dal cuore gentile, ma dalla forza immensa. Nessuno sapeva esattamente da dove venisse o quale fosse il suo vero nome, ma la sua fama lo precedeva in tutta la Sicilia. Insieme a lui, nella sua torre che dominava l’orizzonte, viveva sua sorella, una giovane donna dalla bellezza inarrivabile, che tutti chiamavano “La Castellana”. Riservata e misteriosa, la Castellana preferiva restare nelle sue terre, lontana dagli sguardi curiosi e dalle chiacchiere del mondo esterno. Si diceva che la sua bellezza fosse tale da illuminare ogni angolo della torre, e che fosse così preziosa agli occhi del gigante da spingerlo a coltivare immensi giardini di fiori e frutti solo per lei.
Le terre del Manfrino, che si estendevano fino al confine con il castello di Falconara, erano un paradiso di prosperità. Campi rigogliosi di alberi da frutto, prati fioriti e ruscelli che scorrevano limpidi, disegnavano un quadro di abbondanza che incantava chiunque vi si trovasse. La leggenda narra che questa ricchezza fosse un’eredità lasciata loro da un cavaliere di Malta, un tale Bertu di cui il cognome si era perso nella polvere del tempo, ma che aveva legato il suo destino a quello del Gigante e della sua sorella adorata.
Manfrino, però, non era un uomo che si accontentava di restare fermo. Amava galoppare per le sue terre, osservando da vicino il suo regno, e nulla gli sfuggiva. Un giorno, mentre cavalcava attraverso i suoi campi, scorse da lontano una figura femminile che non aveva mai visto prima. Era una donna straordinaria, con lunghi capelli dorati che danzavano al vento e un portamento elegante che catturava ogni sguardo. La donna sembrava smarrita, come se cercasse qualcosa o qualcuno in quella distesa di fiori e alberi.
Il Gigante, incuriosito e affascinato, spronò il suo cavallo, ansioso di conoscerla. Ma quando giunse nel punto esatto in cui l’aveva vista, la donna scomparve nel nulla, come un sogno dissolto all’alba. Solo l’impronta dello zoccolo del cavallo, incisa nel terreno, rimase a testimoniare il suo passaggio. Fu lì che, col tempo, venne costruita una piccola fontanella, in ricordo di quell’incontro sfuggente.
Da quel giorno, Manfrino non trovò più pace. Ogni notte, sotto il chiarore della luna e il suono delle onde che lambivano la costa di Manfria, il Gigante restava sveglio, scrivendo poesie e intonando canti per quella donna misteriosa che aveva rapito il suo cuore. Era come se il vento portasse con sé il suo volto, e ogni soffio d’aria gli sussurrasse il suo nome. Sua sorella, la Castellana, preoccupata per il fratello che si consumava d’amore, decise di organizzare una grande festa. La sua speranza era che, tra i nobili e i principi invitati, la donna potesse tornare, e che finalmente il Gigante potesse confessare i suoi sentimenti.
E così fu. La festa si tenne nella grande torre di Manfria, e vi parteciparono ospiti da ogni angolo della Sicilia. Ma quando la musica e i festeggiamenti erano ormai nel pieno, tra gli invitati apparve lei, la donna dei sogni del Gigante. Manfrino la vide subito, e in un istante il mondo intorno a lui sembrò svanire. La seguì con lo sguardo, rapito dalla sua bellezza, finché la vide uscire dalla torre e dirigersi verso la spiaggia, come in cerca di quiete sotto il cielo stellato.
Il Gigante la seguì, ma mentre camminava sulla sabbia, il ricordo di una vecchia predizione tornò a tormentarlo. Una strega gli aveva detto che nel giorno più felice della sua vita, avrebbe perso tutto: la sua amata terra si sarebbe inaridita, l’acqua che tanto abbondava sarebbe scomparsa, e persino la sua adorata sorella avrebbe trovato la morte. Manfrino scacciò quei pensieri funesti, deciso a confessare il suo amore, ma il destino aveva altri piani.
La donna, come spinta da una forza invisibile, si immerse nel mare e scomparve tra le onde. Il Gigante tentò di seguirla, ma una strana forza lo tratteneva, immobilizzandolo sulla riva. Intanto, nella torre, un complotto veniva tessuto dai nobili invitati. Gelosi delle ricchezze del Gigante, serrarono le porte e massacrarono gli ospiti, inclusa la povera Castellana.
Quando i cospiratori raggiunsero la spiaggia, trovarono Manfrino paralizzato dal dolore e dalla magia, e con una crudeltà senza pari lo uccisero, ponendo fine alla sua vita ma non alla sua leggenda.
Ma il ricordo del Gigante non svanì con lui. Ancora oggi, nelle notti più calme, si dice che le sue grida di dolore risuonino tra le onde di Manfria, mentre il vento porta con sé l’eco di un amore perduto e di un destino tragico.