Il 13 novembre del 1974 moriva in Francia Vittorio De Sica. Nato a Sora, in provincia di Frosinone, il 7 luglio del 1901 da Umberto De Sica, originario di Salerno, e dalla napoletana Teresa Manfredi. De Sica esordì come giovane e brillante attore al Teatro Valle di Roma il 28 maggio del 1922. Avrebbe poi calcato le scene in più di 120 spettacoli con le più importanti compagnie italiane, riscuotendo sempre un successo straordinario che gli deriva certo dal suo bell’aspetto fisico, ma dovuto anche alla sua geniale verve napoletana, al suo inarrivabile talento, alla sua completezza artistica che lo vedeva brillare nella recitazione, nel canto e nel ballo. Riconosciuto come uno dei padri nobili del Neorealismo, in verità De Sica attraversò un po’ tutti i generi cinematografici, dalla commedia Pane amore e fantasia (1953) e Pane amore e gelosia (1954) di Comencini, accanto a Gina Lollobrigida al genere drammatico Il generale della rovere (1959) di Roberto Rossellini, dal film surreale e fantastico come Il giudizio universale (1961).
E se il suo primo grande successo come attore cinematografico lo ebbe nel ’32 ne Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini, dove cantava il suo cavallo di battaglia “Parlami d’amore Mariù”, il talento di regista lo espresse già ai suoi esordi con film come Rose scarlatte (1939), Maddalena zero in condotta (1940) con Carla Del Poggio, e Teresa Venerdì (1941) entrambi interpretati da Anna Magnani. Del ’43 è invece il bellissimo I bambini ci guardano. De Sica è passato alla storia della “Settima Arte” soprattutto grazie ai suoi capolavori neorealisti, sceneggiati insieme con Cesare Zavattini. Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), tratto dal romanzo Totò il buono proprio di Zavattini e Umberto D. (1952) dedicato alla figura del padre, è la quadrilogia che lo ha consegnato all’olimpo dei grandi. Le prime due di queste pellicole ottennero l’ Oscar per il miglior film in lingua straniera. Ma altri 2 oscar De Sica li avrebbe vinti con Ieri, oggi, domani (1974) insieme alla collaudata coppia Marcello Mastroianni e Sophia Loren, e ancora con Il giardino dei Finzi Contini (1972). Ma altre sue opere di grande spessore furono L’oro di Napoli (1954), Il tetto (1956), considerato il suo ultimo film neorealista, e poi La ciociara, del 1960, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, che fece vincere alla Loren il Premio Oscar come migliore attrice protagonista. Con la Loren lavorò anche in Matrimonio all’italiana (1964), trasposizione di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, e I girasoli (1970), sempre con la premiatissima coppia Mastroianni-Loren. Un altro grande merito di De Sica fu quello di lanciare nel firmamento cinematografico il genio comico di Alberto Sordi, producendogli il suo primo film Mamma mia che impressione del 1951, e con il quale girò altre pellicole memorabili.
Nel 1972 De Sica ottenne un quarto Premio Oscar con la trasposizione filmica del romanzo di Giorgio Bassani Il giardino dei Finzi Contini, mentre l’ultimo film da lui diretto fu Il viaggio (1974), riduzione di una novella di Luigi Pirandello, uscito pochi mesi prima della sua scomparsa, e girato interamente in Sicilia.Sterminata la filmografia di De Dica, la cui carriera cinematografica iniziò come figurante in 3 film muti: Il processo Clémenceau, di Alfredo De Antoni (1917), La bellezza del mondo, di Mario Almirante (1927) e La compagnia dei matti, sempre di Almirante (1928). Egli recitò come attore in oltre 150 film e realizzò come regista 32 pellicole.Tirato per la giacca da questo o quel partito politico (i comunisti italiani ne rivendicarono la vicinanza ideologica), in verità De Sica si mantenne sempre distante dei partiti e rivendicò con forza la sua piena autonomia artistica. D’altronde, il suo fu un cinema soprattutto cristiano per quel suo guardare e raccontare con umana indulgenza gli uomini e le donne nei loro affanni, nelle loro debolezze, ma anche nella dignità e nel coraggio di combattere ogni giorno le asprezze e i drammi dell’esistere.Affetto da un grave tumore ai polmoni De Sica morì in seguito a un intervento chirurgico all’ospedale di Neuilly-sur-Seine,vicino Parigi. Nello stesso anno, Ettore Scola gli dedicò il suo capolavoro C’eravamo tanto amati, film struggente e di grande poesia, come poetica, coraggiosa, visionaria, fu tutta l’opera di quello che a giudizio di molti e anche di Chaplin Chaplin, è stato il più grande cineasta italiano di sempre. Ma altro grande riconoscimento gli pervenne da Orson Welles quando dichiarò che con Sciuscia De Sica aveva realizzato il film più bello al mondo.
Nel 1985, esattamente quarant’anni fa, Federico Fellini girava al Teatro 5 di Cinecittà “Ginger e Fred”. Un film che ha avuto per me un notevole significato dal momento che per quattro settimane, fra giugno e luglio, fui uno degli assistenti alla regia del grande maestro riminese, e che di fatto quella pellicola segnò il mio esordio professionale nella cinematografia.
Un inizio carriera che un po’ tutti i ragazzi avrebbero sognato, se si considera che allora Fellini insieme ad Akira Kurosawa e Ingmar Bergman era considerato il cineasta più importante al mondo. Protagonisti del film furono Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, che interpretavano due vecchi ballerini, soprannominati appunto Ginger e Fred per il loro repertorio che si ispirava a Fred Astaire e Ginger Rogers, i quali venivano invitati dopo tanti anni dal loro ritiro delle scene ad uno show televisivo.
C’era in quel lavoro di Fellini una profetica anticipazione di quella che poi sarebbe divenuta la televisione “spazzatura” in Italia, fatta di show, quiz, turpitudini, grande fratello e chi più ne ha più ne metta. Qualcuno volle pure vederci la narrazione della nascita di Fininvest, l’azienda televisiva voluta da Silvio Berlusconi poi divenuta Mediaset. Un film pieno di ironia, sarcasmo, ma dove non mancava pure una vena di malinconia quando alla fine dell’esibizione, peraltro maldestra, i due anziani ballerini, anche amici (e forse un tempo anche amanti) si lasciano a Stazione Termini. Un saluto ultimo e struggente che faceva comprendere come i due non si sarebbero più rivisti.Musicato da Nicola Piovani, che ebbi modo di conoscere proprio sul quel set, il film fu pretesto per Fellini anche per attaccare l’uso massiccio e indiscriminato della pubblicità che interrompeva (e interrompe tutt’ora) il cinema in televisione. Una battaglia persa quella di Federico, nonostante anche altri autori negli anni abbiano sostenuto questa causa, compreso il nostro Giuseppe Tornatore. Ma la TV commerciale (e non solo quella) ha le sue regole, o forse regole non ne ha più, se quotidianamente a tutte le ore del giorno e della notte vediamo fiere della vanità, cruenti dibattiti, violenza e volgarità a go go. D’altronde, anche il dolore, la morte, le guerre sono stati spettacolarizzati. Quasi fossero videogames. E davanti a quel film di Fellini girato 40 anni fa, attraverso gli occhi ingenui di due vecchi artisti del Varietà, c’è tutto lo “sguardo lungo” del regista che fu sempre capace attraverso la fantasia e l’irrazionale di raccontare verità scomode.
Lo scorso 10 febbraio si è svolta ai più alti livelli istituzionali “la giornata del ricordo” al fine di perpetuare la memoria sugli assassinii e le stragi che riguardarono le popolazioni istriane e giuliano-dalmate a cavallo fra il ’43 e la fine della Guerra, che poi determinarono l’esodo dalle terre natìe di 350.000 italiani sino a oltre la metà degli Anni ’50.
Molte quest’anno le iniziative, ma anche le novità editoriali che hanno riguardato l’argomento. Cito per tutti la pubblicazione “Donna, eroine, martiri delle foibe” (Editore Passaggio al Bosco) della professoressa Valentina Motta di origine messinese, scrittrice, studiosa e ricercatrice, e poi il libro “10 febbraio” del senatore di Fratelli d’Italia On. Giuseppe Menia, di origini istriane. Fra questi due interessanti volumi vorrei poggiare l’accento sul saggio della professoressa Motta per la capillare ricostruzione di fatti e eventi tragici che insanguinarono fra il 1943 e il 1945 la frontiera orientale italiana, con eccidi, torture ed esecuzioni da parte dei partigiani titini dell’Osna. Un racconto che riporta in superficie soprattutto le violenze e gli abusi perpetrati contro le donne, colpevoli di essere state compagne o parenti di uomini legati al regime, o esse stesse inquadrate nei reparti femminili della Repubblica Sociale Italiana o facenti parte di corpi volontaristici e di assistenza ai malati e ai feriti. Non mancarono poi abusi su ragazze, colpevoli solo di essere belle e quindi vittime spesso di gelosie, ricatti, vendette. Su queste donne vennero perpetrati ignominiosi stupri e orribili sevizie. E chi idealmente rappresenta e simboleggia tutte queste figure (mamme, spose, sorelle, di qualsiasi età e ceto sociale) è certamente Norma Cossetto (Visinada, 17 maggio 1920), che a 23 anni, fra la notte del 4 e 5 ottobre 1943 venne sequestrata, violentata da 17 titini e poi gettata viva nella Foiba di Villa Suriani.
Il cadavere sarebbe stato rinvenuto 2 mesi dopo, alla fine di dicembre, privo di indumenti e con un paletto di legno conficcato nella vagina. Una fine orribile quella della studentessa universitaria che stava preparando la sua tesi di laurea, e che venne descritta da chi la conobbe come una ragazza solare e piena di vita, certo ignara dal crudele destino che la condusse alla più spaventevole delle morti. L’8 maggio 1949 l’allora rettore dell’ Università di Padova, prof. Aldo Ferrabino, conferì la laurea ad honorem in lettere a Norma Cossetto, mentre nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi insignì alla ragazza istriana della Medaglia d’oro al merito civile. Precisa, puntigliosa e scrupolosa è stata la ricostruzione dell’esecuzione della Cossetto da parte di Valentina Motta, ma anche di tante altre donne coraggiose che vennero martirizzate in nome dell’ideologia comunista, dalle bande armate del Maresciallo Tito. Fra l’altro l’autrice nel riportare alla luce tanti di questi episodi non manca di sottolineare come comunque c’è ancora molto da ricercare, e molto da indagare per riesumare (proprio come si è fatto nel recuperare i corpi infoibati) altri casi nascosti e dare una maggiore completezza a quel “film dell’orrore” tenuto per decenni così vergognosamente nascosto e vilmente tacitato.
Sebbene già nella precedente amministrazione e durante questa sua ultima trionfale campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca, i comportamenti, le parole e le decisioni di Donald Trump avevano già fatto comprendere chiaramente con quale uomo avrebbe dovuto confrontarsi il mondo, adesso che dalla teoria si è passati alla pratica, è sconvolgente constatare come il nuovo Presidente degli Stati Uniti a poche settimane dalla sua rielezione abbia già destabilizzando i già precari equilibri del nostro pianeta. Le sue scelte, le sue decisioni, le sue sortite perentorie, che non ammettono dialogo o confronto perchè lui è “l’unto dal Signore”, ci dicono quanto siamo messi male se la nazione più potente del mondo è governata da un signore isterico e megalomane, irresponsabile e senza freni. D’altronde, l’altra superpotenza mondiale, ovvero la Russia, è nelle mani di un altro esaltato, il carnefice e sanguinario Vladmir Putin.
Ebbene, questi due uomini, secondo nuove logiche imperialistiche che sembravano morte e sepolte, vanno d’accordo e sembrano volersi spartire il mondo assicurandosi delle precise aeree di influenza. Così Trump, anche per avere poi dallo “zar” il via libera sui suoi progetti, sta cercando di chiudere in poche battute una pace fra la Russia e l’Ucraina, e non verrà difficile a Putin aderire a questo piano, che sembra condannare l’Ucraina a un triste destino di resa e capitolazione, nonostante il valore dei suoi generali, dei suoi soldati e del suo popolo. Non è infatti concepibile che si lavori ad un trattato di pace, unilateralmente, con una sola nazione che detta le condizioni, appoggiata da un arbitro fazioso, disposto a sacrificare Kiev, magari prendensosi poi il merito di pacificatore. E l’Unione Europea? Protesta timidamente. Non sa cosa fare e non ha personalità politiche capaci di spezzare questa diabolica intesa che sta venendosi a creare fra Stati Uniti e Russia. Lo stesso presidente francese Macron appare patetico nelle sue timide reazioni alle imprevedibili e perentorie scelte di Trump. E Giorgia Meloni? Donna intelligente e statista di razza, checché ne dicano gli avversari politici, cosa fa? La sua ostentata amicizia con Trump dovrebbe metterla in una posizione di privilegio rispetto agli altri partners europei, e quindi solo lei potrebbe fare ragionare il presidente degli USA sulle sue strategie. Qui allora si gioca tutta la credibilità della premier, non solo come Presidente del Consiglio, ma anche rispetto alle mire di divenire una leader indiscussa anche in Europa. Se la Meloni avrà coraggio e argomentazioni per opporsi a Trump (e Musk!), allora la sua leadership e la sua immagine ne usciranno potentemente rafforzate. Altrimenti, rimanendo zitta e supina davanti alle pericolose “devianze” di Trump, la Presidente del Consiglio finirà col bruciare tutta la credibilità e la stima che ha saputo conquistarsi negli anni con un puntiglioso e duro lavoro. D’altronde, la Meloni, che ha difeso a spada tratta e con i fatti il diritto ad esistere dell’Ucraina, come potrebbe accettare adesso che quella nazione, disarmata e mutilata in buona parte del suo territorio, divenisse un’ altra ragione satellite della Russia? Se Meloni ha riconosciuto la pericolosità di Putin dovrebbe pure comprendere che Trump in fondo non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia. La verità, senza girarci troppo intorno, è che Putin e Trump, diversi eppure uguali, sono una grave minaccia per il mondo. E ad opporsi a questi due pescecani non potrà essere la debole Europa e neppure la Gran Bretagna che ambiguamente davanti ad una situazione così esplosiva se ne sta zitta nel suo isolazionismo. ma paradossalmente potrà farlo la Repubblica Popolare Cinese, il cui presidente, Xi Jinping a confronto dello zar e del tycoon, sembra essere un vecchio grande saggio. E se è vero che tra i due litiganti il terzo gode, forse allora sarà proprio la Cina a vincere la grande partita politica, strategica ed economica che ormai si sta combattendo da anni senza esclusione di colpi. Ma neppure quest’ultima prospettiva al fine ci riempirebbe di gioia.