Il Cinema italiano degli Anni’10 conquistò il mondo grazie al capolavoro “Cabiria” girato nel 1913. La regia era di Piero Fosco (alias Giovanni Pastrone) e le didascalie vennero scritte da Gabriele D’Annunzio; un contributo quello del vate che diede nobiltà culturale al film e più in generale al Cinema che da allora cominciò ad essere considerato un ‘arte. In quegli anni nasceva nel nostro Paese anche il divismo, che quindi non è una invenzione di Hollywood come qualcuno ancora oggi crede. Fu l’Italia a creare il fenomeno divistico, e tutto al femminile, se di considera che le nostre divine Francesca Bertini, Lyda Borelli e la siciliana Pina Menichelli acquisirono una popolarità mondiale prima dell’avvento di Greta Garbo, Rodolfo Valentino, Gloria Swanson, John Gilbert.La Grande Guerra però provocò la fine del dominio della nostra cinematografia, in quanto la monarchia profuse ogni energia per sostenere l’industria bellica. La guerra fu vinta a carissimo prezzo di vite umane e impoverì la nazione determinando nel 1918 anche il crollo della produzione di film. Sarebbero dovuti trascorrere 10 anni prima che, nel 1928, Alessaandro Blasetti ridesse il là alla rinascita del Cinema italiano con il film “Sole” (ancora muto), di cui fra l’altro sono sopravvissuti solo alcuni spezzoni.Il dado era però tratto, e Benito Mussolini, che da subito aveva compreso l’importanza del Cinema, come potente strumento di propaganda, si spese in prima persona per la rinascita della “Settima Arte” in Italia. Per questo il 28 aprile del 1937 a Roma il duce inaugurò insieme a Giacomo Paolucci, su progetto dell’architetto Gino Peressutti, gli stabilimenti di Cinecittà. Un complesso enorme composto da 37 edifici e 21 teatri di posa, sorto su 600.000 metri quadri in via Tuscolana acquistati da Carlo Roncoroni, presidente della Saisc (Società Anonima Italiana Stabilimenti Cinematografici). Ma a dare forza e credibilità all’imponente struttura fu l’esperienza di Luigi Freddi il grande produttore della Cines, i cui studi nel 1935 erano stati distrutti da un vasto incendio.
Questi portò a Cinecittà la sua lunga esperienza nel cinematografo e coinvolse tutti i più bravi tecnici e le migliori maestranze che avevano lavorato con passione alla rinascita del cinema italiano, il cui primo film sonoro, diretto da Giancarlo Righelli, era stato prodotto nel 1930 e aveva per titolo “La canzone dell’amore”. Ma c’è da dire in verità che il primo film parlato girato in Italia fu “Resurrectio” di Alessandro Blasetti, uscito però soltanto nel 1931.Morto Roncoroni nel 1938 Cinecittà venne rivelata dello Stato, e proprio in quell’anno uscì “Scipione l’africano” di Carmine Gallone, il film che intendeva rinverdire le memorie dell’antica potenza di Roma, e che sebbene fosse infarcito di magniloquente retorica, contribuì molto a rilanciare il cinema italiano. Sulla stessa scia anche Augusto Genina, regista di talento conosciuto in tutta Europa, realizzò diversi film di propaganda come “La fuga di Alcatraz”, “Squadrone bianco” e “Bengasi”. Ma il cinema del ventennio non fu solo quello di regime con lungometraggi ambientati spesso negli scenari di guerra. E non fu neppure soltanto il cinema commedia dei “telefoni bianchi”. In verità, insieme alle pellicole “patriottiche” e di commedia, il merito di Cinecittà fu quello di costruire un modello di industria cinematografica che oggi la vede come il più grande stabilimento cinematografico d’ Europa. Ebbe poi il merito di formare grandi registi e straordinari attori che fecero “praticantato” a cavallo fra gli Anni’ 30 e metà degli Anni ’40, per poi esplodere alla fine della guerra con la grande stagione del Neorealismo, i cui primi semi erano però stati gettati già nel 1942 con il delizioso “Quattro passi fra le nuvole” di Alessandro Blasetti e poi nel 1943 da “Ossessione” di Luchino Visconti con Massimo Girotti e la splendida Clara Calamai, che nel ’42 era stata la prima attrice italiana a scoprire il seno (ma questo primato venne rivendicato pure da Doris Duranti) ne “La cena delle beffe” sempre diretto da Blasetti, e con fra gli interpreti l’immenso Amedeo Nazzari e poi ancora Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, i divi di regime che vennero fucilati – lei incinta – dai partigiani rossi il 30 aprile 1945 a Milano. Da ricordare pure come la Calamai visse un clamoroso ritorno al cinema nel 1975, quando Dario Argento la volle fra le protagoniste di “Profondo rosso”. Non è quindi vero che il Cinema italiano del Ventennio fu un cinema banale e oscurantista. Politicizzato? Certo, come ogni regime e come ogni ordinamento…anche democratico. Ma neppure la censura fu così rigida come qualcuno scrive nelle tante ”storie del cinema” da sempre ideologicamente ben inquadrate. Immensi cineasti come Visconti, Rossellini, De Sica (ricordiamo ai suoi esordi come attore il delizioso “Gli uomini che mascalzoni”), e straordinari sceneggiatori come Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Sergio Amidei iniziarono la carriera proprio a Cinecittà negli Anni ’30 e ’40, e lo stesso dicasi di magistrali interpreti come Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Alida Valli, Gino Cervi, l’inarrivabile Totò, e l’elenco potrebbe allungarsi all’infinito. Da ciò mi pare giusto rilevare come il Cinema di quegli anni vada criticamente riletto, rivisitato, riscritto, scevro da omissioni e alterazioni che ne hanno ridimensionato il ruolo e l’importanza avuti non solo dal punto di vista artistico, ma anche nella cultura e nel costume del nostro Paese.
Vittorio De Sica in “Gli uomini che mascalzoni” di Mario Camerini
Si potrebbe dire che è già iniziato l’ultimo viaggio dell’uomo. Ma proclamare questa verità potrebbe turbare gli animi sensibili, e dare l’idea che questa affermazione abbia una veduta “nichilista” e “escatologica” sulle sorti futuri del mondo. D’altronde, le nuvole sempre più oscure che lo minacciano sono così evidenti che solo gli idioti possono non rivelarlo o coloro che a tutti costi si dichiarano ottimisti anche quando hanno una pistola puntata alla tempia. In verità, le parole di Primo Levi che diceva: “Perchè la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità?A che serve la memoria?” sono una perfetta sintesi del perché il mondo stia scivolando verso l’annientamento. L’uomo non ha mai saputo trarre vantaggio dalle esperienze della storia, e costantemente torna a provocare immani tragedie, le guerre in primis. Restringendo poi il discorso alla nostra Europa, salta bene all’occhio come il vecchio continente non sia più la guida del mondo dal punto di vista politico, economico, filosofico e religioso, avendo dissolto il proprio patrimonio di cultura, creatività, fede, tradizioni con la stessa facilità con la quale si buttano nella pattumiera gli avanzi del pranzo o della cena. Questo ha determinato la fine di quell’Occidente cristiano di cui Carlo Magno, incoronato Imperator Augustus nell’anno 800 da papa Leone III fu il patriarca (ops, che brutto termine!) è stato il grande restauratore, promuovendo la rinascita degli studi politici, teologici e umanistici in Europa.
Un periodo aureo, nutrito da santi ed artisti, poeti ed eroi, in cui per secoli ci siamo riconosciuti, almeno sino ai due apocalittici conflitti mondiali, per poi accusare, dopo il boom economico del dopoguerra, gli sconvolgimenti sociali e ideologici del ’68. In quell’anno infatti, dietro i proclami delle nuove libertà sociali, delle battaglie pro-aborto e divorziste, iniziò la lenta ma inarrestabile frantumazione dell’“Io” più profondo del nostro continente, perchè quel “vento rivoluzionario” insieme ad alcune legittime conquiste, portò pure ad un pacifismo di comodo e a una tolleranza di comportamenti, capaci di disgregare tutto, sostituendo la fede e la forza di un tempo che ci caratterizzavano con la fragilità e il relativismo secolare di oggi, dove ogni scelleratezza in nome di una equivoca interpretazione dei “diritti” è consentita. Ma anche qui la storia ci insegna come la corruzione, la mollezza dei costumi, la morte di principi e valori, siano sempre stati il cancro di ogni civiltà. Lo stesso Impero romano al fine crollò non tanto per la forza dei suoi nemici quanto per la propria inerzia e inettitudine. E allora cosa fare di fronte a questo panorama così scoraggiante? Attendere passivamente il colpo fatale e definitivo, che potrà derivare da una guerra nucleare o dall’irreversibile dissesto climatico frutto dello sciacallaggio fatto del nostro pianeta? O ancora dall’estinguersi delle identità “uomo” e “donna” dietro le allucinanti teorie gender? No, il pessimismo non deve assumere i colori resa. Ce lo hanno ricordato anche i sommi pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che dell’Europa Cristiana “morente”, e dell’intero pianeta agonizzante, sono stati gli ultimi e più combattivi paladini. D’altra parte, in questo mondo ferito non mancano persone illuminate che possono invertire l’impervia rotta della nostra nave. E se il tempo di questa umanità dolente sembra scaduto, ci sono sempre i supplementari che possono condurre al recupero e al ribaltamento del risultato. Allora, pur nella pragmatica presa di coscienza dell’imbarbarimento e della decadenza della nostra civiltà, che le forze buone, le forze sane, l’intelligenza pura di uomini e donne non assoggettati ai sistemi di poteri, non schiavi di ipocriti buonismi e di malate ideologie facciano la loro parte. Con severità, con coraggio, con lo spirito di sacrificio che fu dei nostri avi. Dicevano i latini “Faber est sue quisque fortune”.
Da oggi il nostro giornale si arricchisce di una nuova firma: è quella di Gianni Virgadaula, giornalista, regista, scrittore e sceneggiatore. Negli anni, ha collaborato con grandi maestri del cinema, quali Federico Fellini, Nanni Loy e Pupi Avati. Si è formato professionalmente alla Libera Università del Cinema fondata da Cesare Zavattini. Virgadaula ha ricoperto diversi ruoli: consigliere nazionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, membro dell’Associazione Italiana per la Ricerca sulla Storia del Cinema, fondatore del Museo del Cinema Pina Menichelli, direttore della Scuola di Cinematografia “Paolo VI” e direttore artistico di eventi cinematografici. È autore di oltre 20 pubblicazioni. Virgadaula curerà per “Il Gazzettino di Gela” una rubrica quindicinale dal titolo “L’uomo, il tempo, la memoria”. Si comincia oggi.
Sin dalla notte dei tempi il desiderio dell’uomo è sempre stato quello di raggiungere l’immortalità. Lo ha fatto attraverso la religione, l’arte, la magia, l’alchimia e nella contemporaneità continua a farlo attraverso la scienza, la ricerca biologica, la cibernetica, addirittura l’intelligenza artificiale. Ma di fatto questa idea dell’ umanità di eternarsi, al di là dei grandi progressi della medicina e dell’ allungamento della vita, è rimasta un’utopia. Si moriva duemila anni fa così come si muore oggi. Eppure un soffio di immortalità c’è venuta dal Cinema. Basti pensare che già l’indomani della prima proiezione dei fratelli Auguste e Louis Lumière, avvenuta il 28 dicembre in via dei Cappuccini di fronte a 33 spettatori paganti, alcuni giornalisti che assistettero a quel mirabolante spettacolo scrissero come la fotografia in movimento avrebbe debellato la morte come fatto assoluto e definitivo. E in fondo è vero. Tutt’oggi, nel vedere figure come Totò Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy, Gary Cooper e John Wayne, difficilmente pensiamo siano persone non più in vita. Il principe De Curtis ci farà sempre scompisciare dalle risate ogni qualvolta un suo film passerà in tv. E le danze di Fred Astaire e Ginger Rogers ci delizieranno ancora per i prossimi 100 anni. E non è finita qui. Infatti, se oggi possiamo ascoltare la voce dei nostri nonni, rivedere le loro fattezze, è sol perché una macchina da presa o una telecamera, anche amatoriali, ne hanno colto per sempre la fisicità, il timbro di voce, la risata, forse persino il carattere. Questa la potenza della cinematografia che dalla sua invenzione, (sono trascorsi 129 anni), ha raccontato e testimoniato la storia del mondo. Ci ha fatto conoscere le sembianze di re e regine, di papi e statisti (Leone XIII nel 1903 fu il primo pontefice ad essere filmato da una cinepresa). E ancora, ci ha raccontato le guerre, le rivoluzioni, i disastri naturali, ma anche le grandi imprese sportive, i progressi tecnologici, le conquiste dello spazio. Allora ecco l’immortalità dataci dal Cinema. Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Gigi Proietti, Marlon Brando, Marilyn Monroe, Greta Garbo, non sono mai morti.
Marcello Mastroianni e Gianni Virgadaula al Tribunale di Roma durante una pausa set della serie Rai “A che punto è la notte?”
Le generazioni passano. Noi stessi passiamo, ma loro no. Essi sono sempre lì incorruttibili, immuni da malattie, non contagiati dalla vecchiaia, che ci strizzano l’occhio dallo schermo. Ridono, piangono, amano, a colori o in bianco e nero, ma comunque onnipresenti. E a proposito di immortali, auguri alle splendide novantenni Brigitte Bardot e Sophia Loren, ma anche ai 100 anni di Marcello Mastroianni che penso continui a fumare i 2 suoi pacchetti di sigarette al giorno pure lassù in Paradiso, e con il quale ho avuto il privilegio di girare 2 film: “Ginger e Fred” di Federico Fellini e “A che punto è la notte” di Nanni Loy.