Il Blue day è passato in silenzio. Ieri, complice la chiusura delle scuole per l’ultimo giorno delle vacanze di Pasqua, soltanto qualche post condiviso sui social e nulla più. E se è vero come è vero che gli appuntamenti istituzionalizzati non risolvono questioni e problematiche affrontate ogni santo giorno da chi le vive in prima persona, è anche vero che quella di ieri è stata per il territorio un’occasione persa. Sembra passata un’era geologica da quando venne organizzato il primo Blue day a Gela: era il 2016.
Da allora sono nate diverse associazioni sul fronte della sensibilizzazione all’autismo, ma un lavoro di rete serio e strutturato è prerogativa di pochi. Le istituzioni, poi, latitano da sempre e questa non è certo una novità. In quel 2016 che sembra tanto lontano, tra le organizzatrici del Blue day c’era la psicologa e analista del comportamento Marika Cascino. Alla luce di quanto (non) successo ieri, le sue parole accendono i fari dell’attenzione su una riflessione doverosa.
«Il Blue day non ha mai avuto la pretesa di risolvere la problematica – dice -, ma l’obiettivo di promuovere la conoscenza, aumentare la consapevolezza, fare sensibilizzazione. Proprio perché spesso ci interessiamo a qualcosa solo quando ci tocca da vicino, parlare di una tematica è lo strumento migliore per farla entrare nelle nostre vite anche quando non ci appartiene. È vero, c’è chi lotta ogni giorno e continuerà a farlo spesso nella propria solitudine, con il silenzio delle istituzioni. Ma parlarne serve comunque».
«Tanto dal primo Blue day è cambiato in città – aggiunge la dott. Cascino -. Se oggi a Gela una famiglia che riceve una diagnosi non deve attendere molto prima di iniziare un intervento precoce, che può cambiare significativamente la qualità di vita di un bambino, è perché negli anni delle cose sono state fatte. Nel 2016 ad esempio non esistevano centri in città ma solo pochi professionisti che non potevano soddisfare le enormi richiesta del nostro territorio».
Perché, dunque, quella di ieri è stata un’occasione persa? «Parlare di autismo serve per tracciare nuove strade, nuovi percorsi. Serve alle famiglie, serve agli operatori sociali e scolastici, serve alle istituzioni, serve alla comunità per accogliere meglio i nostri bimbi senza troppe domande, senza occhi spalancati a stupirsi di qualche bizzarria. Serve a noi operatori – conclude – che ogni giorno lavoriamo anche per creare momenti di confronto».