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Don Giuseppe Cafá, il sacerdote dal sorriso contagioso

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Contro ogni stortura, contro ogni imbarbarimento; sempre a fianco dei giovani e con i giovani. Don Giuseppe Cafà, 51 anni, gelese, è il classico sacerdote dal sorriso contagioso. Dal 2011, guida la parrocchia Sacro Cuore di Niscemi, trasmettendo la parola di Dio perché dona la sua vita per qualcosa di veramente grande che lo realizzi in tutto, che lo fa stare bene e che soprattutto serva a rendere bella la quotidianità  degli altri.

Hai conseguito il diploma di perito tecnico commerciale e quello di infermiere professionale. Nella vita, dunque, avresti potuto fare altro ed invece hai deciso di indossare l’abito talare. Qual è stato il motivo che ti ha portato a questa decisione?

“Certamente mi sarei potuto realizzare in tante altre cose, ma fu al conseguimento dei due rispettivi diplomi che entrai in una crisi profonda al centro della quale ci stava una grande domanda: “ma è davvero questo quello che voglio?”. Così mi feci aiutare dal mio parroco a capire e ad individuare la strada giusta. Scelsi il mio parroco perché già sentivo dentro di me, come quanto si sente la voce della coscienza, che diceva “vieni e seguimi”. E così, dopo un anno circa entrai nel Seminario di Piazza Armerina”

Cosa ti ha lasciato l’esperienza presso la casa di riposo per anziani e diversamente abili “Santa Lucia” di Enna, dove hai espletato l’anno di servizio militare come obiettore di coscienza?

“Durante il primo anno di Seminario, per un intoppo nella presentazione del rinvio militare per motivi di studio, fui chiamato a svolgere il servizio di leva che grazie a Dio convertii in obiettore di coscienza per potere svolgere il mio servizio con la Caritas Diocesana. Ad Enna ho trascorso uno degli anni più belli e formativi della mia vita. Il mio ruolo era quello di intrattenere gli anziani e di aiutarli in qualsiasi bisogno o richiesta. Dall’aiutarli durante i pasti o nel far loro compagnia durante una passeggiata accompagnandoli sotto braccio. Compleanni e piccole festicciole diventavano occasioni per strappare loro una risata e far dimenticare gli acciacchi dell’anzianità e della solitudine dagli affetti familiari. Ritengo fondamentale quest’esperienza perché mi ha fatto scoprire l’importanza di questi uomini e queste donne che analogamente ai nostri nonni erano alla ricerca di un abbraccio che fosse capace di non farli sentire un peso per la società e la famiglia”:

Il legame con i tuoi genitori (Vincenzo e Maria) è stato sempre forte. Quando hai comunicato che avresti scelto di intraprendere la via sacerdotale, cosa ti hanno detto?

“Non è stato facile per i miei genitori ingoiare la notizia del mio “lascio tutto e vado in seminario”. Nessuno dei due accettò all’inizio la mia scelta. Mi osteggiarono in tutti i modi. Per un breve tempo si incrinarono persino i rapporti. I nostri pranzi e le nostre cene erano divenuti luoghi di silenzi e di sguardi bassi. La discussione non doveva aver luogo. Il no dei miei genitori fu intransigente, e anche il mio si non fu da meno. Così il 19 settembre del 1994 entrai in Seminario accompagnato da due miei amici e senza salutare i miei genitori. Dopo qualche settimana, si sa come sono le mamme, mi chiama a telefono per dirmi se avevo bisogno di qualcosa e mi chiede come va. In quel momento capii che si stava sciogliendo una lastra di ghiaccio, e così piano piano ripresero i rapporti e mi vennero a trovare in seminario”.

Dal 1996 al 2002, hai studiato, su proposta del Vescovo di Piazza Armerina, Vincenzo Cirrincione, presso la Facoltà Teologica “San Tommaso d’Aquino” dell’Almo Collegio Alberoni di Piacenza dal quale sei uscito con il titolo di Baccalaureato.  Come sono stati i sei anni trascorsi nel capoluogo emiliano e come i piacentini ti hanno accolto?

“Potrei definirli anni meravigliosi e difficili allo stesso tempo. Meravigliosi perché mi fecero incontrare una realtà civile e religiosa totalmente diversa dalla nostra. La totale assenza di devozioni e di manifestazioni folcloristiche (tipiche delle nostre feste religiose siciliane) mi fece scoprire un mondo fatto di oratori, attività ludico ricreative, incontri fatti per ragazzi e famiglie, attività sociali volte al recupero dei tossicodipendenti, all’accoglienza delle ragazze madri, all’adozione temporanea di bambini con disagi familiari, alle mense caritative per i senza tetto e tanto altro ancora. La novità è che ogni parrocchia faceva vivere una o più esperienze tra questa ai vari gruppi parrocchiali. Non c’era mese che almeno una volta non si organizzasse un’attività sociale. Trasmissione della fede e attenzione all’uomo che soffre, erano i due pilastri di ogni parrocchia. La difficoltà all’inizio fu legata allo studio. Da uno che usciva da un tecnico trovarsi ad avere a che fare con materie umanistiche e lingue nuove furono una vera e propria montagna da scalare. La grazia di Dio e il mio forte temperamento mi diedero la forza di non mollare mai e di giungere fino alla fine”.

La tua ordinazione presbiterale ha già…spento le 20 candeline. Era il 2003 quando sei stato nominato, dal vescovo Michele Pennisi, vicario parrocchiale e vice parroco di Monsignor Grazio Alabiso, presso la chiesa Madre di Gela. E’ chiaro che in questi lunghi anni, sono stati tanti gli episodi piacevoli che ti hanno colpito. Ne vogliano raccontare uno in particolar modo?

“Noi sacerdoti spesso viviamo momenti che rimangono impressi come un memoriale per la nostra vita. Sono tanti e tutti importanti e dire così su due piedi quale sia stato il più piacevole, diventa difficile. Certamente ricordo la festa del papà che feci organizzare ai tanti giovani che frequentavano allora la Chiesa Madre. All’inizio la proposta fu accolta con diffidenza da parte dei giovani e dalle loro famiglie, e anche Monsignor Alabiso presentò qualche perplessità, a tal punto che mi disse, sorridendo, che “queste cose del Nord, qui non funzionano”…tuttavia mi lasciò fare e il risultato fu così inaspettato che tutti si ricredettero.  Ricordo ancora il pianto dei papà per la gioia nell’abbracciare i loro figli come mai avevano fatto”.

Qual è stato l’episodio che invece ti ha ferito?

“Allo stesso modo di prima ci sono altri episodi le cui cicatrici rimangono indelebili nel cuore. Mi torna in mente la storia di un giovane ragazzo, la cui mamma aveva contato su di me per aiutarlo ad uscire da una certa situazione. Forse mi addossò aspettative superiori alle mie capacità. Probabilmente sovrastata dal dolore e dall’ennesimo fallimento, mi sbattè la porta in faccia dicendomi di cambiare mestiere”.

Accennavi al compianto Monsignor Alabiso: chi è stato per te?

“All’inizio, come tutti i gelesi, conoscevo Monsignor Alabiso per la sua fama che, in certi ambienti, era positiva e in altri negativa. Mi avvicinai a lui con molto rispetto e altrettanto timore e non nego che le nostre due personalità (leader indiscusso lui, neo sacerdote emergente io in cerca di spazi propri), si scontrarono parecchie volte.  Tuttavia entrambi avevamo rispetto l’uno dell’altro e ciascuno era proteso al bene di tutta la comunità. Fu questa la carta vincente che ci fece vivere insieme per quasi 9 anni. Da lui ho imparato molte cose: la gestione di una parrocchia, il rapporto con le istituzioni locali, la sempre e costante attenzione a preparare tutto con cura, ma soprattutto a tenere la mente sempre attiva con lo studio e l’aggiornamento. Furono per me un tesoro prezioso i suoi racconti della chiesa gelese e delle tante storie e vicende da lui vissute da quando cominciò a fare il parroco dell’allora nascente complesso di Macchitella”.

Nel tuo percorso, hai avuto il privilegio di conoscere ben tre vescovi: Cirrincione, Pennisi e  Gisana. Quali differenze hai notato tra i tre prelati e cosa di loro tuttora custodisci nel tuo cuore?

“Più che delle differenze vorrei invece sottolineare ciò che li accomuna. Tutti e tre i vescovi hanno amato la nostra Chiesa locale con affetto paterno. Hanno dato il massimo che hanno potuto senza mai tirarsi indietro. A Monsignor Cirrincione, durante la visita Pastorale a Gela, gli chiesi una volta alla fine di una giornata, se fosse stanco e avesse bisogno di qualcosa. Mi rispose candidamente: “mi riposerò in Paradiso”. Così anche Monsignor Pennisi e l’attuale Monsignor Gisana non si sono mai fermati e sono stati sempre presenti e attenti ad ogni situazione. Di tutti e tre custodisco l’affetto paterno”.

Presso il Liceo “Leonardo da Vinci ” di Niscemi, ricopri la carica di vice preside e svolgi la professione di insegnante di religione così come già successo, anni prima, all’Istituto Sturzo di Gela (Commerciale e Alberghiero). Giornalmente hai la possibilità di colloquiare con gli studenti. Nel dettaglio, quali sono i timori e le paure che colpiscono i giovani?

“I giovani che incontro quotidianamente sono figli del loro tempo. Sono quelli che la sociologia chiama “Generazione Z”. Fortunatamente possiamo dividerli in due categorie: alla prima appartengono i figli dell’era digitale, circa l’80%, che vivono in ambienti virtuali. Passano da un social all’altro come si attraversano le stanze di una casa, senza uscire dalla loro cameretta. Desiderano qualcosa e immediatamente gli viene data, oppure se la procurano da soli con un click sul telefonino. Comprano su Amazon e guardano le serie Tv sul telefonino. Scommettono al calcio senza andare in ricevitoria o allo stadio e incontrano i loro amori spulciando sui profili dei coetanei. I giovani di questa categoria fanno le vacanze non per conoscere posti nuovi e crescere culturalmente, ma per frequentare le diverse movide notturne come quelle organizzate da Scuola Zoo. Alla domanda quali sono i timori e le paure che colpiscono questi giovani, rispondo con il perdere la connessione con il mondo virtuale. Il rimanere senza internet o senza telefonino. Il restante 20%, sono quei giovani che cercano sui libri o in generale nello studio la loro strada per essere protagonisti della storia e costruttori di una vita migliore. Si impegnano nel volontariato, nella politica e nello sport, crescendo sempre più nella cittadinanza attiva. Subito dopo il diploma scelgono sedi universitarie lontane capaci di poterli realizzare professionalmente e socialmente. Il loro timore? Essere isolati dalla massa… essere considerati uomini e donne dalla vita piatta e senza “divertimento”. Sono quelli che andando via dalla nostra amata Sicilia non torneranno più se non per visitare i familiari e trascorrere qualche settimana di vacanza”.

 E i loro desideri?

“In tutti i giovani c’è comunque un senso di insoddisfazione. Hanno tutto e non sono mai contenti. Nella maggior parte di loro c’è un senso di vuoto che per colmarlo spesso ricorrono a delle bravate che spesso pagano a caro prezzo”.

Se tu avessi la bacchetta magica, cosa risolveresti in primis per garantire ai ragazzi un futuro migliore?

“Non serve una bacchetta magica per garantire un futuro migliore ai giovani. Bisogna tornare ad investire sulla cultura. Ho una mia filosofia che sicuramente non è condivisa dalla maggioranza, ma io ai miei ragazzi trasmetto sempre un concetto: più sai e più avrai. Le mete migliori le puoi raggiungere solo se porti con te uno zaino pieno di conoscenze”.

In tema di malaffare, in più di un’occasione pubblica, non hai esitato a rivolgerti direttamente agli affiliati e ai semplici “carusi” al fine di deporre le armi del crimine. Il messaggio, purtroppo, non è stato raccolto e i fatti di cronaca, nel nostro territorio, sono all’ordine del giorno. Tutto questo, è chiaro, fa male. Non credi?

“Uomini grandi come i giudici Falcone e Borsellino e il Beato Rosario Livatino ci hanno insegnato che non bisogna mai smettere di educare alla legalità, anche quando attorno a noi sembra esserci un terreno arido e incapace di accogliere anche un piccolo seme. Certo che fa male… vedere ragazzi scivolare nel crimine è una sconfitta che lacera la coscienza e indigna sempre di più. Tuttavia bisogna anche aiutare la società sana a non abbassare mai la testa a chi vuole intimorire o spadroneggiare per le nostre città”.

Ma perché una parte consistente dei giovani è predisposta a delinquere?

“C’è un peccato nell’uomo che si chiama avidità, che può essere di denaro o di potere. Soldi facili e prepotenza diventano un binomio fondante per assoldare i nostri giovani”:

Gesualdo Bufalino sosteneva che “la mafia, se un giorno sarà sconfitta, sarà debellata da un esercito di maestri elementari che comunichino e insegnino ai bambini che la mafia è qualcosa di brutto e li allontani da adulti, dalla partecipazione alle organizzazioni mafiose”. D’accordo?

“Assolutamente si, come non essere d’accordo con il grande maestro. Da anni, a Niscemi, attraverso progetti e attività mi prodigo per abbassare la percentuale dei ragazzi in dispersione scolastica. La scuola è l’unico e insostituibile luogo per combattere mafia e povertà”.

Proprio a  Niscemi hai fondato assieme ad un gruppo di imprenditori, l’Associazione antiracket e antiusura dedicata alla memoria di Ninetta Burgio. L’obiettivo è quello di invitare le vittime dell’odioso ricatto di clan, ad intraprende un percorso di legalità e di presenza attiva nel territorio. I risultati ci sono?

“Fino al 2015 ho fatto parte del direttivo come socio fondatore di questa associazione e di risultati ne abbiamo conseguiti diversi. Tuttavia per ragioni che non sto qui a spiegare, da questa associazione ne siamo usciti io ed altri soci e abbiamo intrapreso un nuovo percorso con “Sos Impresa” con la quale abbiamo avviato diversi progetti. In città si avverte un senso di consapevolezza maggiore e gli imprenditori che fanno parte del nostro progetto si sentono molto più sicuri di non essere più soli”.

Per contrastare efficacemente la piaga della povertà e della ludopatia, hai aperto, sempre a Niscemi, nel 2016 un Centro di Ascolto Caritas. I fenomeni sono costanti o ci sono prospettive che vengano definitivamente estirpati?

“La piaga della ludopatia è sempre più drammaticamente dilagante. Siamo riusciti con il sindaco Massimiliano Conti e l’assessore alla Legalità Piero Stimolo a scrivere un protocollo per arginare il fenomeno, ma tuttavia è poca cosa. Anche il Centro di Ascolto della parrocchia ha individuato diversi casi aiutando le famiglie ad intraprendere un percorso riabilitativo. Purtroppo le sale slot crescono come i funghi e le strutture e il personale qualificato per disintossicarsi sono introvabili. Basti pensare che per l’intera area di Gela, Niscemi e Butera esiste un solo Sert con un ufficio e poco personale in via Parioli a Gela. Grazie ai servizi sociali di Niscemi abbiamo intrapreso un’attiva collaborazione con “Casa Famiglia Rosetta” di Caltanissetta aprendo con loro uno sportello di ascolto anche nelle scuole”.

Ritorniamo al tuo percorso sacerdotale. Cosa ti hanno lasciato i dodici anni alla guida diocesana dei gruppi ministranti e l’esperienza come membro del Consiglio Presbiterale Diocesano?

“Come dicevo prima sono stati anni meravigliosi. La realtà dei ministranti la conobbi in Chiesa Madre a Gela e da lì, grazie all’incarico datomi da Monsignor Pennsi, conobbi tutti i gruppi ministranti di molte parrocchie della Diocesi. Con essi mi divertii ad organizzare campi estivi, raduni diocesani con la partecipazione di oltre 500/600 giovani ministranti. Per due volte portai i gruppi ministranti della nostra diocesi a partecipare ai raduni mondiali a Roma che vedeva la partecipazione di circa 80 mila ministranti provenienti da oltre 175 nazioni. E ancora oggi molti di quei bambini diventati adulti (alcuni papà e mamma e altri preti) ricordano con grande entusiasmo.  Diverso è stato l’incarico di membro del Consiglio Presbiterale. Questo incarico non me l’aspettavo perché è l’organo dei più stretti collaboratori che consigliano il Vescovo nelle sue scelte pastorali per l’intera Diocesi. Certamente mi ha riempito di orgoglio, ma nello stesso tempo mi ha caricato di una grande responsabilità. Chiedo ogni giorno la grazia del discernimento per meglio leggere i bisogni di tutto il popolo credente della nostra realtà”:

Quattro anni fa, sei stato promotore dell’inserimento della tua parrocchia e della cittadina di Niscemi in un grande progetto con il distretto di Gela, Mazzarino e Butera con Fondazione Sud per attuare iniziative di inclusione sociale e dispersione scolastica attivando un Centro per bambini e famiglie. Il programma funziona?

“In parte si, perché nel momento in cui abbiamo iniziato il progetto ebbe un grande successo di partecipazione, ma poi il Covid ci ha fatto fermare per tutto il tempo del lockdown. Riprendere a scaglioni con meno bambini e famiglie, non è stato semplice. Nello stesso tempo abbiamo avviato un altro progetto creando un laboratorio di teatro ed uno di cinema e fotografia per adolescenti che ha coinvolto circa 80 ragazzi di scuola media e superiore ottenendo grandissimi consensi tra i cittadini. A distanza di due anni dalla fine del progetto i ragazzi stanno continuando. Adesso sempre con il distretto Gela Niscemi Butera e Mazzarino siamo in fase di programmazione per un nuovo piano di lavoro”.

In due occasioni, hai partecipato nelle vesti di cantante al programma televisivo di Canale 5, “The winner is”. Cosa ti ha spinto a farlo?

“Preferirei non rispondere a questa domanda, ma tuttavia lo faccio per una ragione: onore alla verità. A me piace da sempre cantare. Non l’ho mai fatto professionalmente ma da dilettante. Quella volta mi spinse l’idea di voler fare qualcosa di utile per la mia città, ma quando arrivai negli studi di Mediaset mi resi conto del grande bluff che c’era dietro. L’audience valeva più delle persone. Bisognava dire e fare quello che loro dicevano. Anche le canzoni mi furono imposte senza assolutamente valorizzare i miei gusti o le mie capacità vocali”.

Qual è la canzone a cui sei più legato?

“Una vera e propria canzone non ce l’ho.  Ho alcuni brani che mi piacciono più di altri: Perdere l’amore di Massimo Ranieri; Tanta voglia di lei dei Pooh; L’acrobata di Michele Zarrillo e Vivo per lei di Andrea Boccelli. Solitamente durante una festa mi diletto a cantare e animare le serate”.

Se di quelle appena elencate dovessi sceglierne una, quale sarebbe e a chi la dedicheresti?

“Scelgo Vivo per lei. La musica è come la fede. Da quando l’ho incontrata mi è entrata dentro e c’è restata. Mi fa vibrare forte l’anima ed è come musa ispiratrice per tutte le cose che faccio. Attraverso la mia voce si espande e amore produce. È la protagonista principale della mia vita e oggi la dedico alla mia meravigliosa parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Niscemi e a tutti i miei collaboratori, senza i quali forse avrei fatto meno della metà delle cose che vi ho raccontato in questa intervista”.

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L’amore per gli animali, nel lavoro di Angela Palumbo Piccionello

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Solare, disponibile al dialogo, sempre sorridente. Attenta e premurosa, non lascia nulla al caso. La dottoressa Angela Palumbo Piccionello, ama fortemente la sua professione a cui dedica anima e corpo. Negli anni ha conseguito straordinari risultati nel campo della medicina veterinaria. Attualmente ricopre il ruolo di direttore sanitario dell’Ospedale Veterinario Universitario Didattico dell’Università di Camerino e di direttore del Master Universitario di secondo livello in ortopedia e traumatologia ortopedica dei piccoli animali. Coordina inoltre la Commissione Interna per l’Eaeve (l’autorità ufficiale europea per l’accreditamento delle strutture che erogano corsi di studi in Medicina). Ha al suo attivo numerose esperienze in Florida che hanno arricchito il suo bagaglio di conoscenze in ambito sanitario. E’ stata responsabile del Comparto Operatorio dell’ospedale Veterinario didattico della scuola di Bioscienze e Medicina Veterinaria di Matelica. Diverse pubblicazioni su riviste specializzate, parlano dei suoi metodi di intervento. Lei è un’eccellenza tutta gelese. 

Quando tra i suoi colleghi parla della nostra città, cosa dice in particolar modo?

“Spiego sempre che ha avuto un passato illustre, dico anche che io ci sono cresciuta bene, circondata comunque da cultura e arte, avendo la possibilità di frequentare ottime scuole e anche ottime attività culturali extrascolastiche (danza classica, pittura, ed altro). Ammetto però, con dolore, che la città non è custodita amorevolmente dalla maggior parte dei suoi abitanti, tantomeno da chi la governa, e che purtroppo non si ha la cultura della cura della cosa comune”.

Nello specifico?

“Gli abitanti e le amministrazioni non sanno o non vogliono valorizzare tutto quello che di bello c’è a Gela. Sarebbe necessario diffondere una cultura del rispetto della cosa pubblica, stimolare e favorire la nascita di attività che investano sulle potenzialità della città: turismo, enogastronomia, natura e arte. Bisognerebbe avere dei progetti ad ampio respiro, che non guardino al profitto immediato ma poco duraturo come ad esempio pensare ancora che la raffineria possa portare benessere a lungo termine. Bisogna puntare al rilancio dell’economia green e culturale”.  

Diplomatasi al Liceo Scientifico Elio Vittorini e laureatasi in Medicina Veterinaria alla Facoltà di Parma, la dottoressa Palumbo Piccionello si è prevalentemente occupata di ortopedia veterinaria.

“L’ortopedia veterinaria, al pari di quella umana, si occupa delle malattie articolari, delle affezioni delle ossa, dei muscoli e dei tendini e legamenti. Trattiamo quindi osteoartriti/artrosi, malattie congenite, fratture, traumi dell’osso, come anche patologie tendinee, legamentose e muscolari. Da diversi anni abbiamo a disposizione mezzi diagnostici (come TC, RM e artroscopia) e terapeutici (placche standard e bloccate, protesi, mezzi di sintesi customizzati) molto avanzati e performanti”. 

Quali sono le precauzioni che i veterinari devono adottare nello svolgere le loro attività? 

“Il medico veterinario po’ svolgere diversi ruoli: la cura degli animali d’affezione come cani e gatti e cavalli, degli animali da reddito, ma anche la cura della salute pubblica attraverso il controllo igienico sanitario degli alimenti di origine animale destinati al consumo umano (latte, derivati, carne, pesce, miele). A seconda del lavoro che svolge, ovviamente, va incontro a dei rischi diversi: aggressioni da parte dei pazienti, rischi di infettarsi con malattie che rappresentano una zoonosi, cioè malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo come ad esempio la brucellosi, la leptospirosi ed altro. 

La professione del medico veterinario in Italia è generalmente svolta con passione e dedizione, ma è senza dubbio un lavoro complesso e faticoso, che presenta diversi rischi anche per la salute del professionista”. 

L’autunno è arrivato. Quali sono le raccomandazioni generali da dare ai proprietari di animali da compagnia per proteggerli dal cambiamento climatico?

“L’autunno è il preludio di piogge, venti e abbassamento delle temperature, è importante rendersi conto che alcuni animali, soprattutto quelli a pelo corto, non sono in grado di sopportare temperature rigide invernali; pertanto, è importante prevedere che essi possano, almeno la notte, essere riparati in cucce o ricoveri adeguatamente coibentati. In luoghi dove gli inverni sono particolarmente rigidi sarebbe opportuno ricoverare gli animali al chiuso. Si consideri inoltre che la termoregolazione prevede un dispendio di calorie e pertanto gli animali dovranno essere adeguatamente alimentati”. 

Si parla tanto di crisi climatica e di instabilità internazionale che incidono sull’approvvigionamento delle materie prime per l’alimentazione animale. Secondo lei potrebbero generare sulla salute degli animali zootecnici e dunque sull’approvvigionamento degli alimenti per l’uomo?

“L’argomento cambiamento climatico è piuttosto complesso, è dimostrato che l’eccessiva intensificazione degli allevamenti abbia causato, nei paesi occidentali, un aumento esponenziale della produzione di Co2 e dell’inquinamento in generale e questo incide negativamente sul cambiamento climatico, anche se non è ovviamente l’unico fattore incidente. Se poi, invece, parliamo degli effetti di questo cambiamento climatico, certamente, purtroppo, alluvioni o siccità prolungate distruggono i raccolti e di conseguenza gli approvvigionamenti di foraggi per gli animali da reddito. A cascata questo incide sulla salute degli animali ed anche sull’uomo stesso che avrà meno materie prime alimentari”.

Fino al 31 marzo del 2025, è in vigore l’ordinanza commissariale per il contrasto alla Peste Suina Africana. Di cosa si tratta nel dettaglio e perché crea tanto timore la Psa?

“La peste suina africana è una malattia indotta da un virus che colpisce i suini e cinghiali selvatici e causa un’elevata mortalità negli animali da essa infettati. Questo virus è innocuo per l’uomo, ma provoca notevoli danni socioeconomici. A causa del decesso degli animali si hanno perdite economiche anche ingenti ed inoltre le restrizioni agli spostamenti dei maiali e dei loro derivati e il costo delle misure di controllo, incidono ulteriormente sulla perdita economica che ne deriva. L’eradicazione della malattia è difficile e può richiedere diversi anni. Non ci sono vaccini né cure. La Psa è endemica in alcuni stati Africani, ed è in quei luoghi che è stata scoperta e per questo ne prende il nome. Fino al 2007, in Europa era confinata solo in Sardegna; tuttavia, nel 2007 si verificarono focolai in Georgia e la malattia si diffuse ai Paesi limitrofi, colpendo maiali e cinghiali selvatici. Nel 2014 vennero segnalati i primi focolai nell’Unione europea, tra i cinghiali selvatici degli Stati baltici e della Polonia. Da allora la malattia si è diffusa ad altri Paesi dell’Unione Europea e ai Paesi terzi confinanti e negli ultimi anni si sono verificati focolai anche in Asia, Oceania e in alcuni Paesi americani. Quest’anno sono stati rilevati focolai nel nord Italia, ecco perché le restrizioni sanitarie si sono inasprite”. 

E’ corretto se scriviamo che la medicina veterinaria funge da barriera sanitaria perché ha la prevenzione del rischio nel suo Dna professionale?

“Il medico veterinario è all’apice della scala di prevenzione delle malattie che si possono trasmettere da animale a uomo e viceversa (zoonosi).  Egli conosce le vie di trasmissione delle malattie, ha il compito di sorvegliare e monitorare gli allevamenti e gli stabilimenti che producono derivati animali, svolge anche informazione e prevenzione verso gli operatori del settore e segnala e denuncia le frodi e gli illeciti. Pertanto, certamente si può affermare che la salute dell’uomo dipende tantissimo dal medico veterinario”.

Quali sono gli elementi fondamentali al fine di garantire che gli animali da allevamento siano trattati in modo etico e rispettoso del loro benessere?

“La volontà di fare più profitto possibile con gli allevamenti di animali da reddito ha portato ad una intensificazione del numero dei capi detenuti in spazi molto limitati e quindi in condizioni igienico sanitarie precarie. A tutto ciò si aggiunge che lo stress dovuto alla poca possibilità di muoversi, alla presenza di deiezioni e sporco, alla impossibilità spesso di giacere e sdraiarsi in posti adeguati, induce una diminuzione delle difese immunitarie e quindi malattie, ma anche un calo delle produzioni. Questo, a cascata, porta all’utilizzo di farmaci e altri trattamenti sugli animali i cui residui possono essere presenti negli alimenti derivati che l’uomo ingerisce.  Negli ultimi anni si porge molta attenzione al benessere degli animali da reddito. Esistono leggi precise che regolamentano, ad esempio, quanto spazio deve avere ogni capo allevato, vietano determinate procedure cruente o che creano sofferenza all’animale.  Le condizioni quindi sono migliorate, ma c’è ancora molto da fare. Il progresso in questi termini dipende anche dalla sensibilità della società verso questo tema”.

Avere un amico a quattro zampe richiede una grande responsabilità per la cura, le sue esigenze e i suoi potenziali problemi di salute. Quali sono le malattie più frequenti tra gli animali domestici?

“Un animale domestico è prima di tutto un essere vivente e come tale può andare incontro a malattie e sofferenze. Chi decide di prendere un animale da compagnia deve essere consapevole che dovrà prendersi cura del suo benessere psico-fisico. E’ un impegno non da poco, poiché si deve fare in modo che stia in un ambiente adeguato, che non soffra per il freddo o per il caldo (chiuso in balcone d’estate), che possa muoversi, che abbia possibilità di interazione con simili e con l’uomo, che non abbia possibilità di farsi male ( se lasciato libero per strada), che venga alimentato adeguatamente e tanto altro. Se ci si prende cura con attenzione di questo essere vivente, le possibilità che si ammali si riducono, ma ovviamente come anche l’uomo, potrà ammalarsi di malattie infettive o anche congenite o di altra natura. E’ sempre bene, quando si prende un animale domestico, andare dal veterinario che saprà dare i giusti consigli sanitari e anche gestionali”.

Esistono condizioni patologiche talmente gravi e complesse che a volte la miglior soluzione è rappresentata da un immenso gesto di coraggio del proprietario: ovvero far sopprimere il proprio animale, ricorrendo all’eutanasia. L’animale cosa sente in quel momento e perché è consigliato farla?

“Al giorno d’oggi le procedure diagnostiche e mediche che si possono eseguire sugli animali sono tantissime ed estremamente performanti; esse consentono di poter trattare la maggior parte delle malattie che affliggono i nostri animali. Detto questo, ci sono però circostanze in cui la medicina non può arrivare; neoplasie incurabili, gravi insufficienze di organo, traumi estesi multipli, malattie infettive di cui non si conosce la terapia, portano sofferenza al paziente, dolore e frustrazione per il proprietario e a volte anche per il medico veterinario che sa di non poter far nulla per farlo stare meglio. Solo in questo caso, cioè quando non esiste cura o trattamenti che allievino la sofferenza del paziente, è consentito eseguire una eutanasia compassionevole. Il paziente viene messo in anestesia generale, prima di inoculare il farmaco che induce l’eutanasia; pertanto, esso non sente alcun dolore o sofferenza”. 

Soprattutto i cani amano esplorare, annusare e, talvolta, mangiare tutto quello che trovano durante una passeggiata o quando sono liberi all’aperto, così come quando si trovano in casa o in giardino. Purtroppo, però, può capitare che ingeriscano sostanze o prodotti per loro tossici e, per questa ragione, che vadano incontro ad un avvelenamento. Cosa bisogna fare nell’immediato?

L’ingestione di corpi estranei (spago dell’arrosto, calzini, palline, tappi di sughero, noccioli di frutta) o sostanze velenose (agenti chimici, grandi dosi di cioccolato, uva, piante velenose, ed altro ancora.) è una evenienza molto comune soprattutto nel cane, specialmente se cucciolo. Se ci si accorge che il proprio animale ha ingerito qualcosa di non edibile, si deve correre dal medico veterinario, che saprà farlo vomitare, estrarre il corpo estraneo e/o trattarlo dal punto di visto medico, fino anche ad inoculare l’antidoto qualora esista”.

Quali sono le sostanze velenose per gli animali domestici? 

“Le sostanze velenose sono tutte quelle che lo sarebbero anche per l’uomo, ma anche il cioccolato e l’uva”. 

Ha animali in casa?

“Io e mio marito siamo entrambi medici veterinari, dopo anni in giro per il mondo, abbiamo costruito una casa in campagna con un po’ di terreno. Abbiamo così diversi gatti, due cani, quattro pecore e quattro galline. Ognuno svolge un ruolo utile per la casa: i gatti tengono lontani i topi, le pecore mangiamo l’erba, le galline fanno le uova e i cani ovviamente fanno la guardia. Noi ci prendiamo cura di loro con dedizione e attenzione e riceviamo in cambio tanto affetto. Siamo riusciti ad ottenere una bella armonia e siamo tutti felici”. 

Ci racconta un aneddoto del suo lavoro?

“In 24 anni di professione avrei tantissimi aneddoti da raccontare, me ne viene uno in mente in particolare. Alcuni anni fa mi riferirono del caso di una volpe selvatica, raccolta dal personale autorizzato e condotta presso l’Ospedale Veterinario Universitario dove lavoro,  rinvenuta in fin di vita sul ciglio di una strada provinciale probabilmente investita. Prestate le prime cure di emergenza, bloccate le emorragie e stabilizzato il paziente, ci si accorse che un arto presentava diverse lesioni profonde, non aveva più sensibilità (aveva quindi una grave lesione neurologica) né mobilità e presentava diverse fratture. Attendemmo alcuni giorni, somministrando le adeguate terapie e medicazioni nella speranza che riprendesse la sensibilità dell’arto, alle fratture ci avrei pensato io successivamente. Purtroppo, le condizioni dell’arto peggiorarono, tanto che se avessimo aspettato ulteriormente si sarebbe potuto compromettere anche la vita del paziente. Alcuni colleghi, essendo quel paziente un animale selvatico e dovendo quindi per ragioni etiche essere rimesso in libertà, suggerirono di sopprimerlo e dare fine alle sue sofferenze. La volpe però era giovane, mangiava, era vigile, mostrava voglia di vivere e così decisi, insistendo anche con le autorità competenti, di amputare l’arto, argomentando che avevo avuto diversi pazienti (domestici) che per cause traumatiche avevano perso l’arto e che avevano ripreso a correre e alcuni anche a cacciare senza difficoltà. La amputai e la tenni ricoverata alcuni giorni al fine di monitorare il suo andamento clinico. La volpe si riprese benissimo, si rimise in forza. E ottenute le dovute autorizzazioni (gli animali selvatici sono dello Stato e ci sono degli enti preposti che li tutelano e che in caso di problematiche complesse li portano, nelle Marche, nel nostro Ospedale) la liberammo in un bosco non troppo lontano da dove io abito. Il luogo era nelle vicinanze di dove era stata trovata. Sentivo di aver fatto la cosa giusta, ma temevo che avrebbe potuto avere difficoltà a procacciarsi il cibo o a difendersi e scappare da potenziali predatori.  Come per magia, alcuni giorni dopo me la ritrovai dietro la recinsione di casa mia, come poteva sapere dove stessi? Eppure, era lei, impossibile non riconoscerla aveva solo tre zampe! Per anni ogni tanto mi veniva a trovare e io sapevo che lo faceva per segno di riconoscenza e per farmi stare tranquilla mostrandomi che stava bene. Non provai mai ad addomesticarla, non sarebbe stato giusto, avevo troppo rispetto di lei, della sua vita e del suo essere libero. Ci guardavamo, ci salutavamo e poi tornavamo alle nostre cose. Gli animali sono estremamente riconoscenti e riconoscono davvero le persone che vogliono aiutarle, tanto da affidarsi pienamente”.  

Perché ha scelto la medicina veterinaria? 

“Generalmente chi sceglie di studiare medicina veterinaria ha un grande amore per gli animali e il desiderio di curarli e farli star bene. Io, sin da bambina, ho avuto questo desiderio. E’ bene sapere, però, che è un percorso di studi faticoso e anche la professione richiede continui aggiornamenti e investimenti, nonché un impegno fisico e mentale elevato, poiché spesso si è chiamati a gestire anche emergenze durante i momenti liberi che si vorrebbe dedicare al riposo o alla famiglia”. 

Il consiglio che vuole dare a chi si affaccia al mondo della medicina veterinaria?

“Svolgere il lavoro di medico veterinario è bellissimo, curare gli animali che sono esseri semplici e sensibili è molto gratificante. Gli studi e il lavoro sono duri. I proprietari degli animali, involontariamente, riversano tantissime frustrazioni ed aspettative sul medico veterinario, che si trova sovraccaricato di responsabilità. E’ necessario quindi tanta dedizione e un carattere adeguato”. 

Riprendiamo da dove eravamo partiti, dalla nostra città. Quelle volte che torna a Gela, cosa fa?

“Amo sempre tornare a Gela che sento ancora, dopo più di 30 anni fuori, come casa. Purtroppo riesco a farlo sempre meno. Quando sono a Gela mi occupo primariamente di trascorrere del tempo con i miei cari (familiari e amici di lunga data) e nel tempo libero vado al mare”. 

Cosa le piace di Gela?

“Mi piacciono i suoi paesaggi, la spiaggia sconfinata, i meravigliosi tramonti, la forza e l’orgoglio di noi gelesi”. 

Cosa le manca di Gela? 

“I miei cari, il mare e quella spensieratezza che ha accompagnato la mia giovinezza…”

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Ipse Dixit

Dal campo di calcio agli studi Rai, Righetti e il suo amore per Gela

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Sorpreso dalla mia telefonata, mi risponde provando a masticare il dialetto siciliano ma con scarsi risultati. Riesce solo nell’intento di pronunciare il termine “caruso”, dopodiché la sua cadenza laziale prende il sopravvento. Ed è un piacere ascoltarlo. 

Nato a Sermoneta (Latina), Ubaldo Righetti lo vediamo sovente in tv: è tra gli opinionisti di 90’ minuto di sabato e prima ancora di Notti europee su Rai 1.

Nel 2010 è stato ospite di Jacopo Volpi a Notti Mondiali, dove ha analizzato le azioni delle partite. Ha commentato inoltre con Gianni Bezzi alcune gare dei mondiali in Sudafrica.

L’estate del 2023 ha affiancato Dario Di Gennaro nella telecronaca di alcune partite dell’Europeo Under 21 per Rai Sport e ha uno spazio tutto suo in studio nel corso delle qualificazioni agli europei Under 21 del 2025 e della fase finale dell’Europa League 2023-2024 su Rai 1. Lo abbiamo ascoltato, assieme a Giacomo Capuano, nelle telecronache delle partite dell’Europeo Under 17. Tre anni fa, ha superato un delicatissimo momento, dopo il doppio infarto che lo ha colpito mentre giocava a padel. Ricoverato in terapia intensiva, con grande forza di volontà e con il prezioso intervento dei medici, ha vinto anche questa battaglia. La più dura. 

Nella sua schiettezza, Ubaldo (zio della showgirl Elena Santarelli) dice quello che pensa e pensa quello che dice, senza tentennamenti. E lo fa con estrema eleganza. Nella stagione 2000-2001, ha allenato il Gela Jt in serie C2. 

Ci racconti, a distanza di tanti anni, com’è nata la tua collaborazione con il club gelese?

“Fui scelto perché avevo da poco preso il patentino dall’allenatore e quindi stavo aspettando un’opportunità. Mi si è presentato il Gela e non ci ho pensato minimamente, non ho avuto dubbi sulla scelta. E’ stata un’esperienza unica che mi porto dietro, la più bella in assoluto da allenatore. Ho conosciuto gente importante, un popolo, una piazza, un tifo incredibile. La passione si avvertiva ogni giorno e per me – ribadisco – è stata un’esperienza positiva, molto positiva”.

Nonostante il settimo posto raggiunto in classifica, perché non sei rimasto a Gela?

“Perché si erano decisi altri programmi e quindi il nostro rapporto non aveva motivo di andare avanti. Quando parlo di rapporto mi riferisco al lato calcistico. Con tanti ragazzi tutt’ora ci sentiamo…”

Con chi in particolare? 

“Beh, con tanti. In particolar modo con Gianluca Procopio…”

Cosa ti ha colpito della nostra città?

“Mi è piaciuta la voglia di emergere da una situazione particolare, la grande disponibilità, la grande accoglienza e il grande supporto. Bella gente. Gela la porterò sempre nel mio cuore”.

Il tuo rapporto con i tifosi gelesi?

“All’inizio c’è stato qualche problema, soprattutto con la società, ma la situazione è durata fortunatamente poco. I tifosi con me sono stati straordinari. Ci siamo divertiti assieme. Ogni giorno avvertivo il loro appoggio. Ci si allenava, si giocava e si cercava di ottenere risultati anche per loro”.

Ubaldo Righetti, nato come centrale difensivo, ha iniziato nelle giovanili del Latina e nel 1980 è stato acquistato dalla Roma con cui ha esordito in serie A nel campionato 1981-1982. Aveva 18 anni. Dopo è stato un crescendo. 

Ti faccio tre nomi: Nils Liedholm, Carlo Mazzone, Giovanni Galeone. Chi dei tre mostri sacri ti ha dato di più, valorizzando le tue capacità?

“Mazzone e Galeone sono stati molto importanti ma devo essere riconoscente a Liedholm che mi ha fatto esordire, mi ha dato fiducia, appena giovanissimo. Subentrai a Spinosi, Vincemmo a Cagliari. Con Carlo Mazzone avevo instaurato un ottimo rapporto. In campo si giocava anche per lui. Ho provato una sensazione bellissima, così come i miei compagni. Giovanni Galeone mi ha fatto vivere un’esperienza straordinaria a Pescara, arrivando alla conquista della promozione in Serie A, attraverso la libertà di espressione del calcio, del puro divertimento. Con tutti e tre sono cresciuto in ogni ambito e mi sono formato anche fuori dal campo”. 

Lo scudetto del 1983 rimane tuttora impresso nella tua mente?

“Assolutamente sì, non è che ne abbiamo vinti tantissimi a Roma…Ogni tanto, con i vecchi compagni, a cena, ricordiamo i nostri trascorsi in giallorosso, quello che abbiamo conquistato. E a distanza di anni da quel trionfo, senti ancora la riconoscenza dei tifosi. Il popolo romanista è semplicemente straordinario!”

Se pensi alla finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool, persa ai calci di rigore, ti monta ancora la rabbia?

“Rabbia no ma tanta amarezza. Era una grande opportunità che purtroppo non siamo riusciti a sfruttare. La posta in palio era altissima, una finale all’Olimpico, in casa nostra ci ha pesato. Non eravamo tanto esperti sotto questo aspetto. Abbiamo affrontato la squadra più forte a livello mondiale, portandola alla lotteria dei rigori. Sappiamo tutti com’è andata, purtroppo. Una grande occasione persa…” 

Con la Roma hai vinto per due volte la Coppa Italia. Possiamo dire che giocavi in una squadra che non temeva nessuno?

“Giocavo in una squadra straordinaria che offriva un calcio all’avanguardia, un calcio totale, di grande partecipazione, di grande coinvolgimento. Eravamo apprezzati non solo in Italia, ma anche in Europa”.

Hai realizzato un solo gol in campionato. Come mai? Le aspettative erano altre…

“Ma io non ero un bomber, ero un difensore, quindi dovevo prima pensare a difendere e poi se si presentava la possibilità, cercavo di attaccare. Oltre all’unica marcatura contro l’Ascoli, ci sono andato vicino a segnare altre volte. Sono comunque soddisfatto perché in parecchie occasioni, sono stato un vero uomo assist”.

Dalla serie A ai cadetti: cosa ti hanno lasciato le esperienze vissute con l’Udinese e con il Pescara?

“Importanti e formative per una crescita personale. Ho conosciuto realtà diverse a cui sono tuttora legato. Diciamo che da una situazione agiata che vivevo a Roma, in quanto Capitale, avere cambiato aria mi ha fortificato. Ho giocato anche a Lecce, in serie A, e nel Salento ho coltivato tantissime amicizie”.

Che sensazione si prova quando si è convocati in Nazionale?

“È straordinaria, unica. Hai una grossa responsabilità. Sentire l’inno è qualcosa di irripetibile. Quando sono stato convocato, c’erano i più forti giocatori: Bruno Conti, Marco Tardelli, Antonio Cabrini, Gaetano Scirea, Dino Zoff, Paolo Rossi…Giocatori di assoluto livello. Allenarmi con loro e condividere la maglia azzurra, ti provoca forti vibrazioni”. 

Ancora arrabbiato per l’eliminazione dell’Italia dagli ultimi Europei?

“Molto deluso. Era una vetrina importante che coinvolge tutti. Abbiamo offerto una brutta immagine. L’Italia non ha giocato assolutamente. Ha regnato la confusione più totale. La squadra non era libera mentalmente, anzi molto contratta”.

Ci rifaremo in National League?

“Finalmente si è ritornato a giocare. Spalletti ha ammesso di avere sbagliato agli Europei in alcune situazioni, soprattutto nelle scelte tattiche, e adesso ha aggiustato il tiro. In queste prime due gare, abbiamo visto la migliore espressione dell’Italia che gioca un calcio di alto livello. Ribadisco: finalmente si è ritornato a giocare”. 

Rimaniamo in tema di allenatori. Ubaldo Righetti ha intrapreso la carriera di tecnico, guidando la formazione abruzzese della Renato Curi Angolana in Serie D nel 1999-2000 e, dopo l’esperienza di Gela, la Lodigiani in C1 dove è stato esonerato a campionato in corso. Ha chiuso la sua esperienza a Vittoria, dopo avere diretto il Fano e il Tivoli, entrambe in C2. 

In serie A non è presente alcuna squadra siciliana. Come leggi questo dato?

“Dispiace, c’è un enorme potenziale. Evidentemente si va a periodi e questo è uno di quelli che servirà per riorganizzarsi. L’importante è mettere in sesto determinate situazioni, ricreare un giusto potenziale ed investire”.

Chi vincerà il campionato di serie A?

“Credo ancora l’Inter. E’ la squadra più forte”

E la “tua” Roma, dove si piazzerà?

“Spero in posizioni alte e mi auguro meglio del sesto posto che negli ultimi anni sembra essere fisso lì. Bisogna migliorare questa classifica”.

Chi è stato il giocatore più forte degli ultimi anni?

“Ci sono tanti giocatori bravi. Tra i forti dico Lautaro Martinez e Osimhen”

E l’allenatore?

“Simone Inzaghi. Ha dimostrato di essere veramente bravo”.

Hai provato anche l’esperienza in politica, candidandoti alle comunali di Roma tra le file del Partito Democratico a sostegno di Roberto Gualtieri e ottenendo 1376 preferenze tuttavia senza essere eletto. Meglio il calcio?

“Ho voluto provare perché c’era una possibilità di occuparmi di sport, che è la cosa che conosco meglio della politica in generale. Posso dire che è stata una bella esperienza”

In casa Righetti si tifa tassativamente per la “Magica” o c’è qualche infiltrato?

“A casa mia tifo solo io Roma. Solo io seguo con grande passione il calcio e nessun altro. Alla mia compagna non interessa proprio. A conti fatti gioisco e mi deprimo da solo…”

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Ipse Dixit

Il procuratore Vella: “Gela merita un futuro migliore del suo attuale presente”

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Tra poco meno di 24 ore, compirà due mesi alla guida della Procura della Repubblica del Tribunale di Gela. Salvatore Vella, 55 anni, trapanese di Erice, ha preso servizio lo scorso 2 luglio, giorno dei festeggiamenti della co-patrona, Maria Santissima delle Grazie. Attento e scrupoloso nel suo lavoro, si concede al taccuino del cronista con il garbo e il rispetto che l’hanno sempre contraddistinto.

“Ho scelto di venire a Gela. Prima di farlo ho avuto un lungo colloquio con il collega e amico Fernando Asaro, che ha diretto questa Procura per più di 5 anni. Dal suo racconto, Gela era una sfida professionale impegnativa e, allo stesso tempo, un Ufficio giudiziario dove si poteva lavorare serenamente, per l’ottima professionalità dei colleghi (Giudici e Pubblici Ministeri), del personale amministrativo e per gli ottimi rapporti con il Foro”.

Cosa l’ha spinta a fare il magistrato?

“La mia scelta di diventare magistrato l’ho maturata da ragazzo, intorno ai 16 anni. Vivevo in una zona ad alta densità mafiosa e quei terribili anni ‘80 li ricordo come “anni di guerra” in Sicilia. Mi sembrava, allora, che l’unica battaglia seria contra la mafia fosse combattuta dai magistrati e dalle Forze di Polizia. Oggi mi rendo conto che le cose non erano esattamente così e che sono un po’ più complesse”.

Lei ha cominciato la sua attività di pubblico ministero a Sciacca. Terra difficile per la pressante presenza della criminalità organizzata. Per le numerose minacce ricevute, gli enti preposti le hanno assegnato una scorta. Come ha vissuto quel momento?

“I miei primi anni da magistrato a Sciacca, dove sono arrivato nel 2001, furono anni pieni di passione per il mio nuovo mestiere di Pubblico Ministero. Nella città saccense scoprii che il lavoro che avevo scelto mi piaceva tanto. Scoprii una terra bella e difficile, la provincia di Agrigento, che allora conoscevo poco. A quei tempi il Tribunale di Sciacca era presidiato da un blindato dei Carabinieri e da una vigilanza armata continua, il nostro parco auto era pieno di vetture blindate. Le indagini su Cosa Nostra erano poche e ancora rischiosissime. Già nei primi anni fui applicato alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo e cominciai ad occuparmi subito di criminalità comune e di criminalità organizzata di stampo mafioso.

Nel nostro lavoro le minacce sono ancora abbastanza frequenti, purtroppo. Fin da subito ho dovuto imparare a gestire la mia paura, per poter fare bene il mio dovere”.

Cosa le ha lasciato l’esperienza vissuta a Palermo alla Direzione Distrettuale Antimafia?

“L’esperienza alla Dda di Palermo, durata più di 10 anni, è stata complessa e formativa. Ho imparato a conoscere, dal di dentro, le dinamiche delle famiglie mafiose di Cosa Nostra della parte occidentale della provincia agrigentina, allora strettamente collegata con il mandamento di Castelvetrano e con la famiglia di Matteo Messina Denaro, in particolare.

Sono anni in cui ho conosciuto colleghi appassionati e competenti, tra cui Fernando Asaro, che allora si occupava di mafia agrigentina. Ma ho anche visto brutte situazioni conflittuali in Ufficio che avvelenavano a tratti il clima. Sinceramente, oggi che sono Procuratore della Repubblica, utilizzerò quella esperienza, anche, per non fare certi errori nella gestione dell’Ufficio e nei rapporti con i colleghi”.

E quella vissuta alla Procura di Marsala?

“La mia esperienza a Marsala fu abbastanza breve. Fui inviato lì, per poco meno di un anno, a causa della carenza di organico che allora aveva quella Procura della Repubblica, che era stata di Paolo Borsellino.

Lì ho ritrovato il mio maestro Dino Petralia, il mio primo Procuratore capo, che aveva appena terminato la sua esperienza al Consiglio Superiore della Magistratura a Roma. E’ stato bello lavorare nella mia provincia di nascita, nelle zone della mia giovinezza, vedere la realtà che conoscevo bene da ragazzo, con occhi diversi, da inquirente e da giurista”.

Lei è un attento studioso e conoscitore del contrasto all’immigrazione clandestina. In termini pratici, come si può bloccare il fenomeno?

“Il fenomeno della migrazione è un problema di dimensioni globali, ciò riguarda amplissime aree del globo e porta centinaia di migliaia di esseri umani (uomini, donne e bambini) a lasciare i luoghi dove sono nati, per spostarsi in luoghi che ritengono più sicuri per la loro esistenza o per l’esistenza dei loro cari. E’ un fenomeno che è nato con la nascita dell’uomo sulla Terra e che ha accompagnato lo sviluppo della razza umana sul nostro pianeta. La nascita degli Stati moderni e dei confini ha reso questo fenomeno un “problema” per gli Stati che ricevono i migranti. Io non ho una “ricetta” per la soluzione di questo “problema”, come magistrato sono tenuto a far rispettare la legge della Repubblica Italiana e le Convenzioni internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto. Si tratta certamente di un fenomeno complesso che, in qualche modo, può essere regolamentato, che ha implicazioni sociali, economiche e anche criminali. Probabilmente dovremmo cominciare ad adottare un approccio più intelligente al fenomeno, oltre che rispettoso di norme e di diritti individuali di tutti, migranti compresi”.

Per dodici anni consecutivi, fino allo scorso giugno, è stato alla Procura di Agrigento. Cosa le ha lasciato la sua permanenza nella città dei templi? 

“L’esperienza alla Procura della Repubblica di Agrigento, dove sono stato 12 anni, è stata la più intensa e, a tratti, la più dura della mia carriera. Certamente più impegnativa della mia esperienza in Dda. La realtà territoriale di Agrigento e del suo hinterland (Licata, Favara, Canicattì, Palma di Montechiaro, Siculiana, soltanto per citare qualcuno dei 28 Comuni del circondario della Procura di Agrigento) è estremamente complessa dal punto di vista criminale, con la presenza di diverse organizzazioni mafiose, di una criminalità comune importante con saldi collegamenti all’estero, con una enorme presenza di armi clandestine sul territorio che ha pochi eguali in Italia, con una criminalità di “colletti bianchi” che esporta modelli criminali in Italia e all’estero. E’ anche una terra con una incredibile cultura, con una densità di scrittori di livello mondiale invidiabile e di una Storia millenaria. A volte è stato spiazzante essere avvolti da tanta bellezza eterna, negli stessi luoghi in cui mi occupavo di delitti atroci. Da un punto di vista umano l’esperienza più intensa che ho vissuto è, certamente, legata a Lampedusa, alle tante vite che costantemente passano da quell’isola, ai suoi incredibili abitanti e, purtroppo, a centinaia di morti in mare che ho visto in questi lunghi anni”.

Torniamo a Gela: qual è stata la prima cosa che l’ha colpita dopo avere messo piede in città?

“La prima impressione che ho ricevuto da Gela è stata la follia di un sistema viario (urbano ed extra urbano) certamente non degno di una città così importante ed economicamente viva”.

E’ soddisfacente, in termini numerici, la pianta organica presente in Procura?

“La Procura di Gela ha attualmente una pianta organica di 5 Sostituti Procuratori, oltre il Procuratore della Repubblica. Penso sia sufficiente ad affrontare le sfide criminali che offre l’intero territorio. Il problema vero è legato alla mancanza cronica di personale amministrativo, che è un pilastro fondamentale per il corretto funzionamento di un qualsiasi Ufficio Giudiziario”.

Lei, in questi anni, si è occupato, tra l’altro, di contrasto al racket delle estorsioni. Si chiede sempre la collaborazione dei commercianti e degli imprenditori ma non tutti sono pronti a denunciare. Come mai?

“La collaborazione di commercianti e imprenditori estorti continua ad essere fondamentale. Gli ultimi due decenni hanno dimostrato che, anche in Sicilia, si possono denunciare le estorsioni senza aver timore di subire conseguenze letali. In Sicilia, in quest’ambito, abbiamo fatto dei passi da gigante in avanti, certamente grazie anche alle scelte coraggiose di imprenditori e di associazioni antiracket. Quello che posso dire, dopo queste prime settimane da Procuratore della Repubblica, è che il mio Ufficio sarà sempre al fianco di chi ha subito un delitto, non abbiamo paura di fare il nostro lavoro. Ho Sostituti Procuratori che conoscono il territorio e le sue dinamiche e, inoltre, possiamo contare su una Polizia Giudiziaria (Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza tra tutti) di primo livello”.

Non sarebbe il caso che anche a Gela ci fosse un’associazione antiracket dopo la cancellazione di quella precedente?

“Spero che Gela diventi, sempre di più, un territorio che acquisisca consapevolezza della sua importanza in ambito regionale, e che, quindi, nascano associazioni di cittadini che possano portare avanti istanze legittime di riscatto del territorio. Lo spero da siciliano, oltre che da cittadino acquisito di Gela.

Gela merita, certamente, un futuro migliore del suo attuale presente. Molto risiede sulla capacità dei suoi abitanti di fare squadra, di leggere le potenzialità reali di un territorio e di legarle a contesti più ampi: provinciali, regionali, nazionali ed internazionali”.

Gela, da qualche mese, ha una nuova classe politica che gestisce la macchina amministrativa. Quale consiglio si sente di dare?

“La classe politica di Gela non ha certamente bisogno dei consigli di un Procuratore della Repubblica e io non sarei certamente in grado di darli. Spero che l’amore per questa città prevalga sempre nelle scelte politiche e amministrative. Lo spero per i figli di Gela, sia per quelli attuali che per quelli che ci saranno domani”.

Le inoltro un messaggio indotto dalla vox populi: si aprono indagini su numerosi fatti di cronaca ma, finora, i “colletti bianchi” non sono stati minimamente sfiorati. Cosa dice nel merito?

“Ho una vasta esperienza in materia di reati commessi da “colletti bianchi”, sono certo che non mancheranno le indagini anche in quest’ambito, nonostante le recenti riforme non ci aiutino”.

Se non avesse fatto il magistrato, cosa avrebbe fatto?

“Se non avessi fatto il magistrato, oggi, probabilmente, sarei in Ecuador a lavorare nel Parco nazionale Yasuni, una riserva naturale che possiede la più vasta biodiversità del Mondo”.

Cosa fa nel tempo libero?

“Nel tempo libero leggo, soprattutto libri di storia, e mi tengo in movimento. Sono alla ricerca di un buon testo dedicato alla fondazione della colonia dorica di Gela e alla sua incredibile storia millenaria”.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
Testata giornalistica: G. R. EXPRESS - Tribunale di Gela n° 188 / 2018 R.G.V.G.
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